sabato 29 dicembre 2018

THE BUDDIES GO MARCHING IN!!!

Il contesto del campionato scozzese è storicamente dominato dalla squadre di Glasgow, con sporadiche ed ormai datate interferenze di Aberdeen, Dundee United e delle due compagini di Edimburgo.
Nell'epoca di una calcio globalizzato dove il potere economico la fa da padrone, la posizione del Celtic è diventata una vera e propria egemonia, favorita dalla possibilità di acquisire giocatori fuori portata per gli altri club, nonché dai problemi finanziari che hanno ridimensionato al momento i Rangers.
Il fascino del calcio scozzese ricade molte volte nelle imprese compiute da qualche occasionale sparring partner, soprattutto nelle coppe nazionali, con i classici e meravigliosi Giant Killing.
Un piccolo club come il St.Mirren si è reso protagonista di una magnifica cavalcata in Coppa di Scozia nel 1987, quando nel magico contesto di Hampden Park ha sollevato l'ambito trofeo battendo in finale il Dundee United.
Tale indimenticabile ed al momento mai ripetuto trionfo viene nobilitato dal fatto che l'undici dei Buddies è composto interamente da giocatori scozzesi, agli ordini della figura paterna di Alex Smith.



Alcuni di loro sono delle vere e proprie leggende del club, come il portiere Israel Campbell Money, più di 400 presenze accumulate in 15 anni di costante militanza con i Buddies (preferiamo questo soprannome a Saints), comprese 8 storiche presenze nelle coppe europee. Al suo attivo anche due reti su rigore in campionato messe a segno contro Cowdenbeath e Clydebank.

domenica 23 dicembre 2018

L'ALA CON GLI OCCHIALI

In un sport vigoroso come il calcio fa specie pensare a come un giocatore possa scendere in campo con gli occhiali, strumento oltretutto limitativo durante la corsa e controproducente, ad esempio, nel momento di colpire la palla di testa.
In anni più o meno recenti viene alla mente la figura di Edgar Davids, il quale, per questioni di salute, ma, soprattutto, per questioni pubblicitarie ha indossato avveniristici quanto modaioli occhiali neri.
Scavando nella memoria non si può non ricordare l'italiano Annibale Frossi, attaccante campione olimpico nel 1934, sempre caratterizzato dai piccoli occhiali in campo.
Nella stessa epoca nell'attacco della Svizzera spiccava la figura di Leopold Kielholz, centravanti dal grande fiuto del gol facilmente riconoscibile per l'inseparabile occhiale di ordinanza.
In anni dopo la rudezza degli interventi era maggiormente tollerata e dove le lenti a contatto erano ancora e scomode, va elogiato il coraggio di chi indossasse il supporto visivo anche nel contesto di vere e proprie battaglie sportive.
Circa vent'anni dopo in Belgio inizia a farsi notare un ala destra dal dribbling secco e dall'ottima tecnica, il tutto senza mai separarsi dagli occhiali.
A giovare delle qualità di Joseph Armand "Jef" Jurion sono soprattutto i tifosi dell'Anderlecht, i quali non possono dimenticare le sue giocate ed i 10 titoli nazionali ai quali contribuisce.


Il suo rapporto con i Paars-wit inizia molto presto, nel 1954 a 17 anni, dopo essersi messo in mostra nel Ruisbroek come un ala dalle notevoli qualità specifiche del ruolo.

sabato 15 dicembre 2018

NON SOLO MOACIR BARBOSA....


" La sentenza più pesante in Brasile è trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta"  (Moacir Barbosa)

"Me la dai sui piedi, triangolo alle spalle di Bigode,a questo punto Augusto non può uscire sempre, deve zonare, vediamo gliinserimenti. Oppure, se devo fare uno contro uno con lui, me lo mangio" (Alcides Ghiggia).

Le due dichiarazione soprariportate, inerenti al celebre Maracanazo, riassumono in buona sostanza chi è stato etichettato come responsabile di quella che è stata una vera e propria tragedia sociale per il Brasile.
Non senza un'evidente componente di razzismo, la colpa del fallimento è stata data ai giocatori di colore della rosa brasiliana, con il portiere Moacir Bardosa messo alla gogna come l'uomo che "ha fatto perdere il Brasile".
Allo stesso modo, ma con meno eco mediatico, anche il terzino sinistro João Ferreira "Bigode" è stato meschinamente tacciato quale colpevole nell'azione di gol di Ghiggia, indipendentemente dal valore assoluto del difensore del Flamengo e dalla qualità dell'azione uruguagia.


Analogamente all'estremo difensore del Vasco Da Gama anni di ottime prestazioni e la stima di tutto l'ambiente calcistico sembrano finire in un perpetuo dimenticatoio, mettendo la parola fine alla sua carriera in nazionale e gettando nell'oblio quella nella squadra di club.

domenica 2 dicembre 2018

GOL OLIMPICO AL MONDIALE

Uno dei gol più spettacolari è indubbiamente quello segnato direttamente da corner, passato alla storia come il Gol Olimpico dopo che, nel 1924, l'argentino Cesáreo Onzari lo realizzò contro l'Uruguay, fresco vincitore del torneo Olimpico.
Per realizzare una simile prodezza occorre essere in possesso di un piede estremamente sensibile, laddove l'imprevedibilità del gesto e della relativa traiettoria debbono almeno in parte trovare la lasciva collaborazione del portiere avversario.
In Italia Massimo Palanca è ancora oggi ricordato per la sua abilità nel segnare ben 13 gol direttamente da corner, grazie ad un piede sinistro piccolo e fatato che avrebbe probabilmente meritato ben altra carriera.
In anni più recenti un altro sinistro magico, quello del Chino Alvaro Recoba, ha più volte beffato gli estremi difensori avversari dalla bandierina, inserendo il nome del lunatico uruguaiano accanto a quelli di altri possessori di piedi ugualmente sensibili (SebastianVeron, Roberto Baggio e David Beckham tra gli altri). protagonisti almeno una volta dal gol da corner.
Viene da chiedersi se un simile gesto, particolare ed insolito, possa essere stato proposto anche in un campionato del mondo, contesto massimo per vedere il proprio nome tramandato ai posteri con un'aurea di leggenda.
La risposta la quesito è sì, anche se al momento solamente una volta abbiamo avuto un Gol Olimpico al Mondiale: a segnarlo è stato nel 1962 il colombiano Marcos Coll, centrocampista sconosciuto ai più, ma che da quel momento è diventato per tutti El Olimpico.



La partita è in questione è URSS-Colombia, valevole per la seconda giornata del Gruppo 1 terminata con un pirotecnico 4-4, con la compagine sovietica fino al 68° minuto in vantaggio per 4-1. 

giovedì 29 novembre 2018

O REI DAS VIRADAS

All'indomani dell'avvento calcistico di Pelè sul pianeta calcio l'importanza dei numeri realizzativi e della collegata media gol è esponenzialmente cresciuta, dando il via anche a complicati calcoli retroattivi sulla carriera di calciatori precedenti.
I famosi 1281 gol in 1363 partita di O Rei valgono ancora oggi come irraggiungibile apice e metro di paragone quando si voglia giudicare un prolifico attaccante; in un nostro precedente articolo, ad esempio, abbiamo visto come i numeri di Arthur Friedenreich siano stati oggetto di grossolane e poco provate quantificazioni, al fine di celebrarne l'innato talento.
Di esempi in tale contesto ce ne sarebbero molti, il più dei quali inseriti in improbabili classifiche e ricordati solo per un mero dato numerico o percentuale.
Limitando la ricerca a parametri quantistici non è difficile imbattersi in tale Uriel Fernandes, detto Teleco, attaccante in grado di segnare 256 reti in 249 partite, all'invidiabile media di 1,02 gol a partita.
Attenzione però, perché per chi ha cuore le sorti del Corinthians O Rei das Viradas, o se preferite O Homen Gol vale davvero molto di più di ogni eclatante numero.


Appena giunto al Time do Povo nel 1934 mette subito in chiaro che tipo di realizzatore sia, arrivando a superare le attese prodotte a seguite delle sue prestazioni con il Britânia, squadra di Curitiba nel quale ha mossi i primi passi calcistici.

domenica 25 novembre 2018

LA MENTE DEL CALCIO GINNICO

Tra la fine degli anni'60 e la prima metà degli anni'70 l'Europa calcistica entra in contatto con una nuova semisconosciuta realtà, vale a dire lo Spartak Trnava.
La squadra slovacca vive un'epoca di inaspettato quanto irripetibile splendore, grazie in particolar modo alla mente dell'allenatore Anton Malatinský, fautore di una nuova teorica calcistica oggi rinominata calcio ginnico.
Maniaco della preparazione fisica e fedele alle teorie di Viktor Maslov, il tecnico nativo proprio di Trnava introduce i concetti di spazio e di necessità di ottenere superiorità numerica in fase offensiva, inculcando nella mente dei suoi giocatori movimenti continui volti ad attaccare il pertugio vuoto.
Peculiarità assoluto del suo sistema tattico sono la difesa sempre in linea ed il sistematico e inesauribile pressing messo in atto da centrocampo e attacco, volto a non lasciar letteralmente ragionare la squadra avversaria.
In un contesto nel quale tutti sanno cosa fare e dove corsa e resistenza sono fondamentali, c'è comunque spazio per l'inventiva e la giocata personale, come testimonia la presenza nel centrocampo rossonero di Ladislav Kuna, trequartista dalla classe infinita.


Approfittando dei consigli di Malatinský, implementati nel corso degli anni da successivi allenatori quali Ján Hucko e Valér Švec, il centrocampista nativo di Hlohovec mette il suo talento al servizio del collettivo, risultando decisivo per la conquista di 5 titoli cecoslovacchi e durante le strepitose prestazioni della squadra a livello europeo.

martedì 20 novembre 2018

L'ARMENIA LA SQUADRA DELL'ORGOGLIO FERITO

Era sabato a Erevan. I turchi arrivarono a torso nudo con la mezzaluna bianca, la bandiera nemica, ed erano migliaia. Non entravano in Armenia da decenni, eppure quella sera lo fecero senza visto e senza biglietto per lo stadio. Ingresso gratis, erano ospiti, ospiti per davvero. Altrimenti non la puoi chiamare la partita della pace.
Coi tifosi da Istanbul viaggiò il presidente della repubblica, Abdullah Gül. Si andò a sedere in tribuna accanto a Sarksyan: loro che tenevano le frontiere e le ambasciate chiuse, che non s’ erano parlati mai, vicini per una partita di calcio.
Armenia-Turchia, qualificazioni per i mondiali del 2010, la prima volta in cui i due Paesi si guardarono negli occhi, un secolo dopo le uccisioni di massa. Un milione e mezzo di morti armeni sotto l’impero ottomano fra 1915 e 1917, l’annientamento di un’etnia, Ankara che ne ammette 300mila e nega il resto, nega il genocidio, anzi quella parola nei documenti non vuole scriverla e non vuole nemmeno sentirla pronunciare.
Però quel sabato si parlano, si stringono la mano, alla fine si scambiano pure le maglie. Succede allo stadio Hrazdan, dove il calcio è una cosa più grande di un pallone che gira.


Il calcio d’Armenia è dazebao, stato d’animo, voce del popolo. Prima che un ponte di pace verso i turchi, fu la scintilla per ribellarsi ai sovietici.

sabato 17 novembre 2018

DALLA DIFESA AL BOLERO

Ipotizziamo per un momento di giocare alle Paroloìe Crociate e di imbatterci nelle seguenti due definizioni:
1) calciatore uruguaiano votato come miglior difensore del Mondiale del 1970 dalla stampa
2) famoso cantante di bolero e ritmi sudamericano con una passato di calciatore professionista.

Andando contro il regolamento del noto passatempo enigmistico, la risposta ai due interrogativi risulta essere la stessa: Atilio Genaro Ancheta Weigel.


Tornando al mero aspetto calcistico stiamo parlando di un eccelso difensore cresciuto nel Nacional di Montevideo, talmente duttile da potersi disimpegnare sia come centrale sia come difensore esterno destro.

sabato 10 novembre 2018

THE LITTLE MAGICIAN

Dal punto di vista calcistico Trinidad & Tobago non rappresenta certa un eccellenza nel particolare universo centroamericano, potendo vantare solo una certa supremazia a livello caraibico, come testimoniano le 8 affermazioni nella Coppa dei Caraibi (record assoluto).
Ciò non vuol dire che nell'ex colonia inglese non siano sbocciati fior di talenti, tra i quali il più mediatico e conosciuto in Europa è sicuramente Dwight Yorke, protagonista soprattutto con il Manchester United di Sir Alex Ferguson.
Un'altra figura imprescindibile per il calcio trinidadiano è sicuramente Russell Latapy, un concentrato di tecnica, dribbling e faccia tosta messosi in mostra anche in Europa nel campionato portoghese e scozzese.



Il fantasista classe 1968 nasce a Laventille, una delle zone a più alto tasso di criminalità dell'isola di Tobago, dove non è difficile lasciarsi traviare verso attività illecite, così come finire vittima di regolamenti di conti come tristemente accade di frequente in tale parte dello stato caraibico.

sabato 3 novembre 2018

RINAT DASAEV LA CORTINA DI FERRO DELL'UNIONE SOVIETICA

Quando venne al mondo, aveva quattro lettere cucite sul petto. Cccp. Aveva guanti bianchi e viola. Era alto ed era magro. Il più bello di tutti, ai mondiali ’82. Più del bellissimo Cabrini, scrisse il settimanale femminile Cambio 16.
 
 
Quelluomo, si chiamava Rinat Dasaev, e di mestiere faceva il portiere. Un giorno il partito lo chiama e li impone di essere un simbolo. Com’era stato Yashin. Un uomo e un popolo, insieme perfetti. Anche per quello aveva sposato Nela, un tempo ginnasta. Si erano conosciuti in ospedale, dove tutt’e due erano finiti, ricoverati per un infortunio.

domenica 28 ottobre 2018

CHICO GORDO

Un pallone fatto di stracci, una strada polverosa ed il calcio come unica via di fuga da un'esistenza misera e da una situazione famigliare complessa, segnata dall'abbandono del padre; quante storie di calciatori sono iniziate in questo modo?
Nell'Angola degli anni 40/50 un vita del genere non era poi così rara, in un contesto dove il dominio portoghese è ancora atto a sfruttare il territorio e a lasciare la popolazione in condizioni socioeconomiche pessime con il pindarico sogno di poter approdare in Portogallo.
Sulla costa oceanica di Lobito (regione di Benguela) muove i primi passi calcistici un giovane calciatore apparentemente non così talentuoso, ma in grado di segnare con sorprendente facilità, finendo per fare di una fanciullesca passione una vera possibilità di cambiare la propria vita.
Il soggetto in questione viene tesserato nell'FC Lobito, locale succursale del Porto, nella quale mette in mostra una vene realizzativa che gli vale, nel 1965 , l'agognata chiamata da parte del club portoghese.
Inizia così l'avventura di Bernardo Francisco da Silva, alias Chico Gordo, con i Dragões, rampa di lancio per una carriera che toccherà però il suo apice altrove.


Impiegato nella selezioni giovanili non impressione principalmente per tecnica, ma per la sicurezza e l'efficacia che dimostra nei pressi della porta, a fronte di una mobilità tutto sommato limitata.

mercoledì 24 ottobre 2018

QUANDO IL GIOCO SI FA DURO BOBBY CHARLTON INIZIA A GIOCARE

Sul leggendario Sir Bobby Charlton si è detto e scritto un po' di tutto, mitizzando giustamente la sua figura dopo essere scampato alla morte nella tragedia di Monaco di Baviera ed aver successivamente condotto Manchester United ed Inghilterra ai primi indimenticabili successi.
In merito al successo della nazionale dei Tre Leoni nel Mondiale casalingo spicca la contestata finale contro la Germania Ovest, con il gol di Geoff Hurst convalidato inopinatamente dall'arbitro svizzero Gottfried Dienst  dopo un confronto linguisticamente molto complicato con il guardalinee sovietico (azero di origine) Tofik Bakhramov.
Il volume di polemiche generato dalla compagine tedesca, il frastuono della soddisfazione inglese (Football Has Come Home) e la tripletta del suddetto Hurst hanno in parte messo in secondo piano come l'Inghilterra abbia ottenuto l'accesso alla finale: dopo una combattuta semifinale contro il Portogallo, decisa da una doppietta proprio di Bobby Charlton.


Alla vigilia della partita il commissario tecnico Alf Ramsey ostenta la classica sicurezza, pur sapendo di aver di fronte la vera rivelazione del torneo, trascinata a suon di sgroppate e di gol da Eusepio.

martedì 16 ottobre 2018

PATERNOSTER

Botasso, Della Torre, Paternoster, Suárez, Monti, Juan Evaristo, Mario Evaristo, Manuel Ferreira, Stabile, Varallo, Peucelle....

Se il 30 luglio del 1930 la nazionale argentina fosse riuscita a laurearsi campione del mondo, battendo i rivali dell'Uruguay all'Estadio de Centenario, la formazione sopra elencata sarebbe ancora oggi nella mente di ogni tifoso Albiceleste, quasi fosse una vera e propria filastrocca.
Non vi è dubbio sul fatto che il fattore campo ed il rovente pre-partita siano stati fattori decisivi per il risultato finale, senza per questo sminuire il valore della Celeste, indubbiamente la nazionale più forte del periodo, quale rappresentativa di campioni eccelsi.
Da questo punto di vista anche la formazione argentina non è certo da meno, come dimostra la presenza di campioni quali Luis Monti, Guillermo Stabile, Carlos Peucelle e Manuel Ferreira.
Costantemente sottovalutata è invece la figura di  Fernando Paternoster, squisito difensore mancino tanto raffinato quanto concreto, in assoluto un punto di riferimento tecnico per tutto il calcio della sua nazione.


Sin dalle prime apparizioni con la maglia dell'Atlanta si ha la percezione di essere di fronte ad un talento unico, in grado di dare un'interpretazione personale del ruolo, restando il più possibile lontano allo stile rozzo e limitativo utilizzato dai pari ruolo contemporanei.

mercoledì 10 ottobre 2018

L'IMPRESA DEI CRVENO-PLAVI

Tra la fine degli anni'80 e l'inizio degli anni'90 la Stella Rossa ha raggiunto l'apice assoluto della sua storia, imponendosi con una rosa leggendaria sia in Europa che nel mondo.
Quella indimenticabile compagine è ancora oggi considerata per valori tecnici una delle migliori di tale epoca calcistica, con alcuni dei componenti elevati, giustamente, al rango di fenomeni e considerati a tutti gli effetti la perfetta espressione dei valori del calcio balcanico.
Anche i più grandi però possono cadere, in quelle affascinanti rivisitazioni del confronto tra il possente Golia ed il piccolo Davide, da sempre presenti nel mondo del calcio.
Nel maggio del 1988 la squadra allenata dal grande Velibor Vasović viene sconfitta nella finale Coppa di Jugoslavia (ancora Coppa Maresciallo Tito) dal sorprendente FK Borac Banja Luka, in quegli anni matricola terribile della Prva Liga.


La squadra bosniaca, allenata dall'ex gloria locale Husnija Fazlić, conosce anch'essa in quegli anni un periodo indimenticabile, culminato appunto nella storica vittoria ottenuta al Partizan Stadium, oltretutto simbolica e personale rivincita della finale del 1974 persa contro l'Hajudk Spalato.

sabato 6 ottobre 2018

EDUARD DUBINSKI, LA TRISTE FINE DI UN PRESUNTO BOIA

Negli anni'50 e 60 la classica marcatura a uomo rappresenta la più comune tattica difensiva, dando vita quindi a "rusticani" duelli personali idealmente senza limiti, laddove decisione negli interventi, atteggiamenti intimidatori e faccia tosta da smaliziato mestierante la fanno da protagonista.
Con un metro arbitrale lontano anni luce da quello attuale, il difendente ha la possibilità di intervenire più volte in modo falloso, anche con eclatanti falli fortemente lesivi dell'incolumità fisica dell'opponente, senza che questo comporti una particolare sanzione da parte del direttore di gara.
In Italia sono in molti i difensori del periodo ad essere etichettati come "picchiatori",  sminuendo e criticando in al senso la loro valenza nell'economia del gioco, spesso ridotta a seguire ed a fermare senza troppi scrupoli l'attaccante avversario.
La nostra scuola calcistica è storicamente ed internazionalmente riconosciuta dal punto di vista dell'attenzione difensiva finendo per sottovalutare altre qualità del nostro calcio, creando talvolta superficiali luoghi comuni ed aspre maldicenze.
Fedele al motto "tutto il mondo è paese", anche la presenza di difensori "cattivi" non dipende più di tanto dalla nazione di nascita o militanza, come dimostra la discussa figura di del sovietico Eduard Dubinski, protagonista in negativo in una sfida tra URSS ed Italia, quanto vittima di una vicenda che ancora oggi genera incredulità ed inevitabile dolore.



 
La sua può essere definita la normale scalata di un umile difensore che a 22 anni, nel 1957, vede decollare la sua carriera con il passaggio al CSKA Mosca, dopo la gavetta con Lokomotiv Kharkiv, Arsenal Kiev e SKA-Sverdlovsk.
Ad attirare l'attenzione del club moscovita è la grande capacità di concentrazione del difensore ucraino, abbinata ad una struttura fisica compatta ed alla spiccata personalità negli atteggiamenti e negli interventi in qualsiasi frangente.
Ci vogliono quattro anni affinché anche la nazionale sovietica, fresca vincitrice del primo Europeo, inizi ad apprezzare tali qualità., consentendogli di fare il proprio esordio appunto nel 1961.
Nonostante per il CSKA non siano anni propriamente indimenticabili, Dubinski eccelle per concretezza del suo apporto e per meticolosità nel dedicarsi alla marcatura dell'attaccante avversario: in determinate circostanze viene impiegato anche nel ruolo di libero, a dimostrazione che oltre ad aggressività e cattiveria agonistica vi è anche un'ottima visione tattica.
Il commissario tecnico Gavril Kachalin lo convoca per il Mondiale in Cile nel 1962, puntando fortemente sulla sua concretezza per proteggere al meglio la porta difesa dal leggendario Lev Yashin, una delle stelle di una rappresentativa attesa con interesse, per via anche del successo nell'Europeo di due anni prima.
L'esordio avviene 31 maggio contro la Jugoslavia in un significativo scontro tra due nazioni dai rapporti controversi nel blocco dell'Est.
E' proprio nel contesto di tale match che la carriera e la vita di Dubinksi vengono segnate per sempre: poco prima dell'intervallio una folle entrata di Muhamed Mujić, probabilmente ideata per rifarsi di qualche scorrettezza o minaccia, gli causa la frattura della tibia e del perone della gamba sinistra.
L'arbitro tedesco Albert Dusch non sanziona incredibilmente il fallo, mentre i giocatori sovietici, subito consci della gravità dell'infortunio, soccorrono immediatamente il compagno.



A conferma della follia dell'intervento di Mujić vi è la decisione dei compagni di escluderlo dalla partita, nonostante lo stesso fosse il capitano della squadra, essendo troppo marcata la vergogna per un simile comportamento.
Dubinksi fa ritorno a Mosca dove viene operato e dove inizia una lunga riabilitazione, al termine della quale, nel 1963, ritorna al calcio giocato, sia nel CSKA che in nazionale.
Il commissario tecnico Konstantin Beskov lo ritiene un elemento cardine per l'Europeo del 1964, dove la compagine sovietica è chiamata a difendere il titolo conquistato quattro anni prima.
Agli ottavi l'avversario è l'Italia di Edomondo Fabbri, da affrontare in un match di andata e ritorno con prima sfida da giocare in Unione Sovietica, precisamente nell'immenso stadio Lenin di Mosca.
A Dubinski spetta il compito di marcare Ezio Pascutti, attaccante esterno del Bologna dal fisico possente e dalla falcata ampia, fortemente incisivo in zona gol; il loro duello si presenta come il più classico possibile, con il difensore sovietico schierato con il numero 2 ed il centravanti friulano con il numero 11.
La partita è molto tesa ed il difensore del CSKA impiega pochi minuti a mettersi in mostra in negativo, quando stampa la propria scarpa sul viso di Angelo Benedicto Sormani, partner offensivo di Pascutti.
Nonostante l'impatto provochi un'ampia ferita al malcapitato attaccante di origine brasiliana, l'arbitro polacco Basaniuk non prende i provvedimenti del caso, dimostrandosi inadeguato a gestire la tensione in campo.
Poco il numero 11 azzurro si invola verso la porta sovietica quando sempre Dubinski lo atterra con una sgambetto volontario effettuato in palese ritardo.
Pascutti, colpito alla gamba da poco infortunata ed operata, si alza repentinamente e frastornato dallo shock e dalla rabbia mette le mani al petto dell'avversario, mimando un pugno che però resta solo nelle intenzioni.
Il difensore sovietico da sfogo a tutta la sua antisportività cadendo a terra tramortito, fingendo di essere effettivamente colpito dal giocatore azzurro: nell'inevitabile bagarre che ne segue il pessimo Basaniuk "abbocca" alla finta, decidendo di espellere il malcapitato Pascutti, reo anche di non avere una lingua in comune per potersi discolpare o chiedere che vanga consultato il guardalinee.
l'Italia perderà la partita per 2-0, con il giocatore del Bologna che verrà escluso dalla nazionale e mediaticamente messo "alla gogna", anche se non soprattutto per le ingerenze politiche, volte a mantenere cordiali le relazioni con l'Unione Sovietica.
Parte della stampa si schiera però con il centravanti azzurro, in particolare il grande Gianni Brera, il quale non lesina insulti e critiche a Dubinski, definito senza tante remore un "boia".


Nella partita di ritorno il "macellaio", come viene anche etichettato, non viene schierato, con la rappresentativa sovietica che strappa un prezioso pareggio per 1-1, dopo che Jasin aveva parato un calcio di rigore a Sandro Mazzola.
In pochi sono però a conoscenza che l'esclusione del giocatore del CSKA non ha solo ragioni di opportunità, ma trova la sua spiegazione nelle sue condizioni di salute.
La frattura subita un anno prima non è stata curata in modo efficace, con la tremenda conseguenza della formazione di un sarcoma (tumore maligno di origine connettivale o mesenchimale), che costringe il ventinovenne calciatore ad abbandonare l'attività agonistica e ad iniziare un lungo calvario.
Quest'ultimo è da lui speso su di una sedia a rotelle fino al 1969, quando l'implacabile sviluppo del tumore lo conduce alla morte, a soli 34 anni.
In patria lo sgomento e la iniziative per mantenerne vivo il ricordo di sprecano, così come qualche consona polemica sulla modalità di intervento dopo la frattura del 1962.
Nel contesto italiano il suo nome viene presto dimenticato, restando nella memoria solamente per le scorrettezze compiute in quel contorto match del 1963.
Nell'impossibilità di giustificare o riabilitare la sua figura, onestamente propria di un picchiatore e provocatore, non si può non restare basiti di fronte ad una fine assurda e, molto probabilmente, evitabile, iscrivibile nel sempre aihmè aggiornato elenco delle morti a causa di scontri gioco.






Giovanni Fasani

sabato 29 settembre 2018

"CARTAVELINA" ELIMINA LE ITALIANE

Negli anni'20 e 30 l'Austria si pone come una delle potenza calcistiche continentali, dall'alto di una vera e propria scuola che può vantare più o meno riusciti tentativi di emulazione.
Ancora oggi il termine Wunderteam è in auge per ricordare la grande nazionale di Hugo Meisl, capace di inanellare 14 risultati consecutivi a cavallo del 1931 e del 1932, impressionando tutti per la qualità del proprio gioco e per la squisita tecnica dei suoi giocatori.
Emblema di tale immortale squadra è indubbiamente Matthias Sindelar, autentico fuoriclasse dell'epoca, conosciuto come Der Papierene (Carta Velina) per via del fisico esile o "Mozart del pallone" come è stato definito proprio dal suo allenatore/mentore Meisl.
Ai posteri sono state tramandate le sue gesta con la maglia della nazionale austriaca, mentre un po' meno le tante prodezze compiute con l'Austria Vienna, compagine del quale è stato leader tecnico e caratteriale.


Difficile sintetizzare in poche righe la carriera di un personaggio come Sindelar con i Veilchen, nell'arco di un legame iniziato nel 1924 e terminato forzatamente nel 1939, quando, dopo essersi rifiutato di scendere in campo con la nazionale tedesca a seguito dell'Anschluss, viene ritrovato morto con la compagna per circostanze che ancora oggi lasciando adito a varie interpretazioni.

giovedì 27 settembre 2018

IL LEGGENDARIO DUKLA PRAGA DA JOZEF MASOPUST A PAVEL NEDVED


Per raccontare la storia del Dukla Praga non è necessario partire da molto lontano.
Non ci troviamo, come accaduto per la fondazione di numerose squadre, in un bar o su una panchina, ma nel mezzo di una delle battaglie più cruenti della Seconda guerra mondiale. Slovenské národné povstanie (SNP) significa Insurrezione Nazionale Slovacca ed ebbe inizio il 29 agosto 1944 a Banská Bystrica, quando gli slovacchi si ribellarono improvvisamente e con decisione ai tedeschi.
La città divenne ben presto il centro della resistenza antinazista e il centro politico e militare dell'Insurrezione.
Allo stesso tempo, l'Armata Rossa, nella quale erano accorpati oltre 16.000 soldati cecoslovacchi, si stava avvicinando sia da nord sia da est.
Radio Mosca, attraverso la leggendaria voce dello speaker Yuri Levitan, (colui che esordiva con: “Attenzione! Qui parla Mosca…), informava le popolazioni delle avanzate dell'esercito sovietico.
Il governo cecoslovacco di Londra guidato dal presidente Beneš, era al corrente dei preparativi dell'insurrezione che si stava man mano organizzando e li approvava appieno. 
Condizione indispensabile per la riuscita dell’impresa era l'intervento in aiuto all'insurrezione dell'Armata Rossa, nella Polonia sud-orientale: perché il congiungimento degli insorti con l’esercito russo potesse avere luogo, era necessario che l’esercito russo si impadronisse del Passo di Dukla, luogo strategico sul confine tra Polonia e Slovacchia. T
ale offensiva incontrò, da parte nazista, una resistenza durissima e l'operazione Dukla-Prešov si dimostrò una delle più sanguinose sul Fronte Orientale. 
Nei due mesi di battaglia, 21.000 soldati sovietici persero la vita insieme a quasi due mila soldati cecoslovacchi.
 
Ci vollero più di cinquanta giorni per scacciare gli uomini del Terzo Reich dalla Slovacchia. A questa epica pagina nella storia della liberazione europea si deve il nome della squadra di calcio sponsorizzata dall'esercito ceco: ancora oggi, a glorioso memento del passato, essa porta il nome di Dukla Praga.

Il Dukla Praga era inizialmente conosciuto come ATK (Armádní Telocvicný Klub), l'abbreviazione ceca di Club dell'Esercito di Ginnastica.

sabato 22 settembre 2018

MARCOVIO E L'ACADEMIA

Durante la fase non professionistica del calcio argentino, una delle squadre a dettar legge nella Copa  Campeonato è indiscutibilmente il Racing Club, capace di imporsi nella competizione per ben 6 volte consecutive, dal 1913 al 1919.
A garantire tale vera e propria epopea, in quello che è stata fino al 1931 la massima competizione nazionale, è stata una linea di attaccanti ancora oggi citata a ben ragione in termini di leggenda.
L'Academia schiera nella sua linea di delanteros Juan Hospital, Zoilo Canaveri, Alberto Ohaco e Juan Nelusco Perinetti al servizio del realizzatore principale, il grande Alberto Andrés Marcovecchio.



Autentico centravanti d'area di rigore dalle movenze rapide e dal fiuto del gol sviluppato, si dimostra perfetto nel tramutare in rete la mole di gioco che i compagni producono, finendo per imporsi ben presto come uno degli attaccanti più prolifici e decisivi di tutto il Sudamerica.

venerdì 14 settembre 2018

FILO' L'ORIUNDO

Possibile che tale Amphilóquio Marques Guarisi possa essere uno dei ventidue azzurri campioni del mondo nel 1934?
A livello fonetico il nome richiama a ben altre discendenze, facendo trasparire abbastanza chiaramente l'origine sudamericana dello stesso.
Probabilmente i più avvezzi al calcio degli anni'20/30 lo ricorderanno con l'italianizzato nome di Anfilogino Guarisi, con rispetto delle disposizioni del tempo che non permettevano nomi di origine straniera, destinati ad essere modificati nella più prossima accezione italiana.
Siamo infatti nel periodo nel quale non è altresì possibile tesserare giocatori stranieri, con l'unica eccezione degli oriundi, vale a dire quei giocatori discendenti da genitori o antenati italiani nati in nazioni straniere, con il limite di due generazioni.
L'Italia di Vittorio Pozzo baserà il suo successo mondiale su ben cinque oriundi, uno dei quali è proprio Guarisi, nato e cresciuto in Brasile, ma messosi in luce agli occhi del commissario tecnico con la maglia della Lazio.


La sua è una tipica storia di emigranti, con la madre italiana ed il padre portoghese arrivati a San Paolo in cerca di fortuna, cercando di dare un futuro migliori ai propri figli.

giovedì 6 settembre 2018

ANCHE L'UOMO RAGNO PARAVA I RIGORI

Nel corso del tempo la sempre aggiornata nomenclatura calcistica si è aggiornata il termine di "pararigori", riferito ai quei portieri particolarmente abili nel neutralizzare i calci di rigori.
Lo specifico riferimento ha assunto un significato perlopiù quantitativo, sempre più connesso al numero di penalty neutralizzati nel corso della carriera ,indipendentemente dal valore del tiratore o dell'importanza dell'incontro in questione.
Uno dei luoghi comuni legati a tale concetto è quello per il quale Walter Zenga, uno dei più grandi portieri di tutti i tempi, fosse poco avvezzo nel neutralizzare le massime punizioni, riferendosi in particolar modo alla percentuale di tiri parati ed alla sfortunata semifinale del Mondiale 1990 contro l'Argentina.
In tale indimenticabile sfida il portiere nerazzuro, ritenuto colpevole per un'uscita a vuoto sul gol del pareggio di Claudio Caniggia, non riesce ad opporsi alle conclusioni dagli 11 metri dell'Albiceleste, soprattutto a quella centrale e mal calciata di Julio Olarticoechea.
Tentando di confutare in parte questa superficiale analisi, è intenzione di che scrive proporre di seguito alcune prodezze del carismatico Uomo Ragno, compiute al cospetto di veri e propri specialisti dei calci di rigori o talmente eccezionali da meritare la menzione.


L'elenco sotto proposto si base principalmente su ricordi personali e parate rimaste nella memoria per la loro importanza e straordinarietà, con il proposito di poterlo integrare nel tempo.


1) 19 ottobre 1983 Groningen-Inter 2-0: rigore parato a Adri Van Tiggelen.


Nell'andata dei sedicesimi di finale la squadra di Luigi Radice limita i danni in Olanda, ribaltando poi il risultato negativo nel ritorno a San Siro.
Nella sfortunata gara alla Stadio Oosterpark il giovane portiere neroazzurro, alla sua prima stagione da titolare, compie un notevole intervento sulla conclusione potente e discretamente precisa del terzino sinistro olandese.
 


2)  20 gennaio 1985 Inter-Atalanta 1-0: rigore parato a Marino Magrin


Il fantasista della compagine orobica è una dei migliori tiratori della serie A, come dimostrerà anche nella Juventus quando sarà chiamato a sostituire addirittura Miche Platini.
Nell'occasione il tiro di Magrin è discretamente angolato, ma Zenga mostra intuito e prontezza nel bloccare il tiro dell'avversario.




3) 5 maggio 1985 Sampdoria.Inter 1-2: rigore parato a Trevor Francis


Il portierone neroazzurro è abile a bloccare il tiro dell'attaccante inglese, calciato senza rincorsa e senza dare riferimenti.



4)  24 novembre 1985 Inter-Juventus 1-1: rigore parato a Michel Platini



Difficile ricordarsi di un rigore sbagliato dal grande Le Roi, a meno che di non riferendosi a quello calciato sopra la traversa al Mondiale 1986 contro il Brasile nei quarti di finale.
Nella sfida di San Siro il numero 10 bianconero non calcia benissimo, ma va apprezzata la bravura del portiere milanese nell'aspettare fino all'ultimo: sfortunatamente per lui il fuoriclasse francese ribadirà comunque in rete sulla respinta.





5)  2 marzo 1986 Roma-Inter 3-1: rigore parato a Toninho Cerezo


In una partita dominata dalla squadra giallorossa, quest'ultima sbaglia addirittura due calci di rigore entrambi con Cerezo, rigorista di giornata a causa dell'assenza per squalifica di Roberto Pruzzo.
Mentre il primo penalty viene calciato alto dal giocatore brasiliano, il secondo è ben parato dal portiere neroazzurra, abile a gettarsi sulla sinistra approfittando del tiro preciso, ma non potente.


6) 30 agosto 1987 Brescia-Inter 2-2 (6-4 dcr) (Coppa Italia): rigore parato a Branco


La Coppa Italia 1987/1988 prevede al primo turno gironi eliminatori a 6 squadre a partita unica dove non sono ammessi i pareggi: in caso di parità si procede quindi con i calci di rigore.
L'Inter dopo 90 minuti tirati ed emozionanti perde nonostante Zenga neutralizzi la prima conclusione bresciana del brasiliano Branco. Particolare curioso, quest'ultimo aveva pareggiato sempre su rigore a tre minuti dalla fine dei tempi regolamentari.


7) 2 settembre 1987 Reggiana-Inter 0-0 (8-9 dcr): rigori parati a Cornacchini e Cornacchia


Nello stesso girone di Coppa Italia l'Inter ha la meglio sulla Reggiana dopo ben 20 calci di rigore. Protagonista il numero uno nerazzurro che para la prima conclusione avversaria di Giovanni Cornacchini e l'ultima calciata  da Carlo Cornacchia.A conferma della sua grande personalità è proprio Zenga a calciare e a segnare il decimo rigore della sua squadra, risultato poi decisivo per la vittoria.


8)  6 settembre 1987 Inter-Ascoli 0-0 (5-4 dcr): rigore parato a Casagrande.


L'Inter si aggiudica il primo posto nel girone di Coppa Italia battendo ai calci di rigori l'Ascoli che la precedeva di un punto. L'unico errore dagli 11 metri è del centravanti brasiliano Walter Junior Casagrande, che si fa respingere il tiro dal portiere italiano.



9)  16 aprile 1989 Inter-Pescara 2-1: rigore parato a Gian Piero Gasperini



L'apprezzato allenatore torinese è stato anche un centrocampista dai piedi buoni, particolarmente preciso nella conclusioni dal dischetto.Il suo tiro è estremamente preciso e potente, ma Zenga tiene fede al suo soprannome di Uomo Ragno andando ad intercettare il pallone ad un palmo dal suo palo destro con un balzo eccezionale.







10) 12 febbraio 1992 Juventus-Inter 1-0 (Coppa Italia): rigore parato a Roberto Baggio


Nei quarti di finale si affrontano Juventus ed Inter con andata a Torino: dopo il gol di Paolo Di Canio Lothar Matthäus si fa respingere un calcio di rigore da un giovane Angelo Peruzzi, ma Zenga non è da meno bloccando con sicurezza un penalty di Roberto Baggio nel finale di gara.




11) 5 febbraio 1992 Ascoli-Inter 1-2: rigore parato a Patrick Vervoort


In una stagione negativa per entrambe e compagini, con l'Inter lontana dalle posizioni di vertice ed i marchigiani retrocessi, Zenga compie una gran parata sul punteggio di 1-1 deviando di piede di puro istinto la conclusione del nazionale belga.






Visti i parametri utilizzati e ragionando in termini percentuali citare otto rigori in una lunga carriera può apparire riduttivo e poco significativo.
L'accusa per la quale Zenga non fosse abile nel parare i rigori è allo stesso tempo grossolana e poco fondata se paragoniamo le statistiche in tal senso di altri ottimi portieri (vi rimando in tal senso ai vari siti statistici consultabili).
Ovviamente quando si ricorda la sua figura vengono in mente altre grandi qualità, alcune della quali ne hanno fatto per anni il miglior estremo difensore del mondo, come dimostrano i tre premi "The World's best Goalkeeper" vinti consecutivamente dal 1989 al 1991, anni nei quali la concorrenza nel ruolo non mancava di certo.
I "pararigori" per antonomasia sono altri, ma anche il grande Walter Zenga tutto sommato ci sapeva fare.








Giovanni Fasani


domenica 2 settembre 2018

UN PO' DI GLORIA PER IL "PAESE DEGLI UOMINI NERI"

Nel 1970 a pochi mesi dal suo insediamento il presidente sudanese Ja'far al-Nimeyri ritiene che per il suo paese sia giunto il tempo di riorganizzare la Coppa d'Africa, dopo aver ospitato la prima edizione del 1957, nonostante la situazione sociale sia a dir poco critica.
Dal 1955 è in corso in Sudan una sanguinosa guerra civile tra il governo centrale e gli indipendentisti del Sud, con la conseguenza che le già precarie condizioni di vita della popolazione arrivino davvero a livelli disumani, rendendo il paese uno dei più poveri del pianeta.
Fedele alla sua politica di riforma del paese, con lo sport in primo piano, collegata alla necessità/volontà di consolidare il suo ruolo di quarantenne leader, Ja'far al-Nimeyri ottiene l'organizzazione della competizione, consentendo ai Sokoor Al-Jediane (i Falchi di Jediane) di tornare a competere a livello continentale dopo sette anni.
I fasti degli anni'50, con la rappresentativa capace di raccogliere un secondo posto e due posti, sembrano davvero lontani, come inevitabile conseguenza del clima di terrore e delle pessime condizioni di vita  presenti nel povero stato arabo-africano.
Anche a livello logistico le risorse a disposizione sono limitate, tant'è che gli stadi a disposizione sono solo due per tutti e sedici gli incontri in programma: lo stadio Wad Madani dell'omonima città e lo stadio Internazionale di Khartoum ospitano i due gironi iniziali, con la capitale designata per essere la sede delle semifinali e delle due finali.
Gli addetti ai lavori attribuiscono alla viglia poche possibilità di successo ai padroni di casa, ma la spinta di un pubblico voglioso di avere qualcosa per il quale essere orgoglioso e le pressioni del presidente ribaltano il pronostico: il Sudan vince infatti la Coppa d'Africa, battendo in finale il grande favorito Ghana, etichettato da tempo come il Brasile d'Africa.


Grandi meriti vanno al commissario tecnico Abdel-Fattah Hamad Abu-Zeid, il quale pescando gioco forza nel campionato locale allestisce una rosa tenace e di indubbia qualità, rivelandosi un ottimo gestore di risorse, destreggiandosi tra le tante pressioni subite.

mercoledì 29 agosto 2018

IL CAVALLO DI TIMISOARA

La Romania è un riferimento imprescindibile del calcio europeo, vuoi per la classe storicamente espressa dai suoi giocatori, vuoi per la grande passione da sempre manifestata dai propri appassionati.
A quest'ultima si deve la precoce esplosione del movimento calcistico rumeno già a partire dagli anni'30, in forte anticipo su tutti gli altri paesi dell'Europa dell'Est.
La particolare partecipazione al Mondiale del 1930 e le poco soddisfacenti prestazioni ai successivi due la dicono comunque lunga sulla voglia di calcio presente nella nazione centro-orientale, anche in un momento instabile dal punto vista politico e sociale.
Proprio in quegli anni inizia ad impressionare Ștefan Dobay, inarrestabile attaccante esterno incontenibile con la palla trai i piedi ed impressionante per la potenza del suo tiro.



Iscritto all'anagrafe come Istvan, nel 1909 successivamente trasformato nel rumeno Stefan, cresce in una umile famiglia di Újszentes, città fondata da coloni ungheresi (da qui la spiegazione del nome di battesimo) facente parte dell'Impero  Austro Ungarico.

martedì 21 agosto 2018

PALLONE ENTRA QUANDO DIO VUOLE

Dopo aver parlato con famigliari, calciatori ed amici Danilo Crepaldi è pronto a pubblicare un'interessantissima biografia sul grande Vujadin Boškov (Pallone entra quando Dio vuole - Vita, miracoli e aforisimi di Vujadin Boškov).
Ne proponiamo un paio di estratti, ringraziando l'autore per la disponibilità. 

 
Parlò a Takac, a Pantelic, a Stanic e a tutti gli altri. Individuò i problemi di spogliatoio e li risolse così come risolse quelli fra Zarko Nikolic e Ivica Brzic.
I due erano i difensori centrali del Vojvodina erano due ottimi giocatori, ma pur allenandosi entrambi al meglio non riuscivano a rendere.
I due non andavano d'accordo e bisticciavano di continuo mandando su tutte le furie il tecnico Stankovic che rispondeva urlando ed arrabiandosi chiedendo a Vujadin di mandar via uno dei due. Vujke osservava la situazione in silenzio, valutando il modo per risolverla arrivando alla conclusione che i due avrebbero dovuto diventare amici.
In un giorno di Giugno del 1965, in un clima afoso convocò entrambi i giocatori nel suo studio.
Li lasciò seduti li per più di mezz'ora facendoli arrovellare sul motivo della convocazione. Il clima era caldo ed i due ben presto cominciarono a sudare le camicie bianche che portavano li si appiccicavano alle pelle e ben presto cominciarono a dare segni di nervosismo. Fu in quel momento che Vujadin, in giacca e cravatta fece il suo ingresso.
"Buongiorno ragazzi come va?"
"Bene Mister grazie" risposero i due all'unisono
"Vi chiederete perchè vi ho convocati qui?"
Vujke non attese la loro risposta e continuò nel suo discorso
"Siete qui perchè voi siete due grandi giocatori...ma per la Vojvodina siete un problema...ed oggi io devo risolvere questo problema".
I due guardarono per terra certi che avrebbero ricevuto una, sacrosanta, punizione per il comportamento avuto durante la stagione. Brzic, in particolare, provò vergogna dato che a volerlo a Novi Sad era stato proprio Vujke.
"Allora adesso la stagione è finita e voi due andrete in vacanza insieme per una settimana a Dubrovnik a spese del club..ora andate".
I due si guardarono stupiti ed annuirono e per la prima volta da quando giocavano insieme si scambiarono uno sguardo di stupita intesa. La stagione successiva diventarono uno dei punti di forza della Vojvodina e soprattutto amici inseparabili.
Quando Stane chiese a Vujadin se aveva punito i due giocatori, egli rispose: "Più di quel che pensi, gli ho obbligati a diventare amici".
 





Nel principato, tuttavia, i blucerchiati trovarono l'inferno ed anche i quasi 10.000 tifosi blucerchiati giunti a Monte Carlo a seguito della squadra sembravano ammutoliti. Vierchowod arrancava su Weah e Diaz sembrava avere 10 anni di meno. La Sampdoria barcollava e ad un minuto dal duplice fischio che avrebbe sancito la fine del primo tempo incassò il gol del vantaggio monegasco firmato George Weah.
Vujadin rientrò nello spogliatoio come una furia, si fermò sulla soglia per calmare i nervi e parlottò con Pezzotti.
"Noi in difficoltà e io sa già cosa fare".
Nel frattempo nello spogliatoio doriano non volava una mosca, un silenzio che pesava come un macigno e quando iniziò a parlare ai giocatori sembrò togliersi un peso dalle spalle.
"Va bene, ragazzi noi ora stiamo perdendo 1-0 ma questo non è neanche primo tempo...c'è ancora partita di Genova e 45 minuti qua. Io vi dico che ora più facile perchè noi attaccare sotto nostri tifosi. Sono venuti qua in tanti e voi farete loro felici. Perchè noi siamo Sampdoria e oggi qui Sampdoria non può perdere!".




Danilo Crepaldi