domenica 28 ottobre 2018

CHICO GORDO

Un pallone fatto di stracci, una strada polverosa ed il calcio come unica via di fuga da un'esistenza misera e da una situazione famigliare complessa, segnata dall'abbandono del padre; quante storie di calciatori sono iniziate in questo modo?
Nell'Angola degli anni 40/50 un vita del genere non era poi così rara, in un contesto dove il dominio portoghese è ancora atto a sfruttare il territorio e a lasciare la popolazione in condizioni socioeconomiche pessime con il pindarico sogno di poter approdare in Portogallo.
Sulla costa oceanica di Lobito (regione di Benguela) muove i primi passi calcistici un giovane calciatore apparentemente non così talentuoso, ma in grado di segnare con sorprendente facilità, finendo per fare di una fanciullesca passione una vera possibilità di cambiare la propria vita.
Il soggetto in questione viene tesserato nell'FC Lobito, locale succursale del Porto, nella quale mette in mostra una vene realizzativa che gli vale, nel 1965 , l'agognata chiamata da parte del club portoghese.
Inizia così l'avventura di Bernardo Francisco da Silva, alias Chico Gordo, con i Dragões, rampa di lancio per una carriera che toccherà però il suo apice altrove.


Impiegato nella selezioni giovanili non impressione principalmente per tecnica, ma per la sicurezza e l'efficacia che dimostra nei pressi della porta, a fronte di una mobilità tutto sommato limitata.

mercoledì 24 ottobre 2018

QUANDO IL GIOCO SI FA DURO BOBBY CHARLTON INIZIA A GIOCARE

Sul leggendario Sir Bobby Charlton si è detto e scritto un po' di tutto, mitizzando giustamente la sua figura dopo essere scampato alla morte nella tragedia di Monaco di Baviera ed aver successivamente condotto Manchester United ed Inghilterra ai primi indimenticabili successi.
In merito al successo della nazionale dei Tre Leoni nel Mondiale casalingo spicca la contestata finale contro la Germania Ovest, con il gol di Geoff Hurst convalidato inopinatamente dall'arbitro svizzero Gottfried Dienst  dopo un confronto linguisticamente molto complicato con il guardalinee sovietico (azero di origine) Tofik Bakhramov.
Il volume di polemiche generato dalla compagine tedesca, il frastuono della soddisfazione inglese (Football Has Come Home) e la tripletta del suddetto Hurst hanno in parte messo in secondo piano come l'Inghilterra abbia ottenuto l'accesso alla finale: dopo una combattuta semifinale contro il Portogallo, decisa da una doppietta proprio di Bobby Charlton.


Alla vigilia della partita il commissario tecnico Alf Ramsey ostenta la classica sicurezza, pur sapendo di aver di fronte la vera rivelazione del torneo, trascinata a suon di sgroppate e di gol da Eusepio.

martedì 16 ottobre 2018

PATERNOSTER

Botasso, Della Torre, Paternoster, Suárez, Monti, Juan Evaristo, Mario Evaristo, Manuel Ferreira, Stabile, Varallo, Peucelle....

Se il 30 luglio del 1930 la nazionale argentina fosse riuscita a laurearsi campione del mondo, battendo i rivali dell'Uruguay all'Estadio de Centenario, la formazione sopra elencata sarebbe ancora oggi nella mente di ogni tifoso Albiceleste, quasi fosse una vera e propria filastrocca.
Non vi è dubbio sul fatto che il fattore campo ed il rovente pre-partita siano stati fattori decisivi per il risultato finale, senza per questo sminuire il valore della Celeste, indubbiamente la nazionale più forte del periodo, quale rappresentativa di campioni eccelsi.
Da questo punto di vista anche la formazione argentina non è certo da meno, come dimostra la presenza di campioni quali Luis Monti, Guillermo Stabile, Carlos Peucelle e Manuel Ferreira.
Costantemente sottovalutata è invece la figura di  Fernando Paternoster, squisito difensore mancino tanto raffinato quanto concreto, in assoluto un punto di riferimento tecnico per tutto il calcio della sua nazione.


Sin dalle prime apparizioni con la maglia dell'Atlanta si ha la percezione di essere di fronte ad un talento unico, in grado di dare un'interpretazione personale del ruolo, restando il più possibile lontano allo stile rozzo e limitativo utilizzato dai pari ruolo contemporanei.

mercoledì 10 ottobre 2018

L'IMPRESA DEI CRVENO-PLAVI

Tra la fine degli anni'80 e l'inizio degli anni'90 la Stella Rossa ha raggiunto l'apice assoluto della sua storia, imponendosi con una rosa leggendaria sia in Europa che nel mondo.
Quella indimenticabile compagine è ancora oggi considerata per valori tecnici una delle migliori di tale epoca calcistica, con alcuni dei componenti elevati, giustamente, al rango di fenomeni e considerati a tutti gli effetti la perfetta espressione dei valori del calcio balcanico.
Anche i più grandi però possono cadere, in quelle affascinanti rivisitazioni del confronto tra il possente Golia ed il piccolo Davide, da sempre presenti nel mondo del calcio.
Nel maggio del 1988 la squadra allenata dal grande Velibor Vasović viene sconfitta nella finale Coppa di Jugoslavia (ancora Coppa Maresciallo Tito) dal sorprendente FK Borac Banja Luka, in quegli anni matricola terribile della Prva Liga.


La squadra bosniaca, allenata dall'ex gloria locale Husnija Fazlić, conosce anch'essa in quegli anni un periodo indimenticabile, culminato appunto nella storica vittoria ottenuta al Partizan Stadium, oltretutto simbolica e personale rivincita della finale del 1974 persa contro l'Hajudk Spalato.

sabato 6 ottobre 2018

EDUARD DUBINSKI, LA TRISTE FINE DI UN PRESUNTO BOIA

Negli anni'50 e 60 la classica marcatura a uomo rappresenta la più comune tattica difensiva, dando vita quindi a "rusticani" duelli personali idealmente senza limiti, laddove decisione negli interventi, atteggiamenti intimidatori e faccia tosta da smaliziato mestierante la fanno da protagonista.
Con un metro arbitrale lontano anni luce da quello attuale, il difendente ha la possibilità di intervenire più volte in modo falloso, anche con eclatanti falli fortemente lesivi dell'incolumità fisica dell'opponente, senza che questo comporti una particolare sanzione da parte del direttore di gara.
In Italia sono in molti i difensori del periodo ad essere etichettati come "picchiatori",  sminuendo e criticando in al senso la loro valenza nell'economia del gioco, spesso ridotta a seguire ed a fermare senza troppi scrupoli l'attaccante avversario.
La nostra scuola calcistica è storicamente ed internazionalmente riconosciuta dal punto di vista dell'attenzione difensiva finendo per sottovalutare altre qualità del nostro calcio, creando talvolta superficiali luoghi comuni ed aspre maldicenze.
Fedele al motto "tutto il mondo è paese", anche la presenza di difensori "cattivi" non dipende più di tanto dalla nazione di nascita o militanza, come dimostra la discussa figura di del sovietico Eduard Dubinski, protagonista in negativo in una sfida tra URSS ed Italia, quanto vittima di una vicenda che ancora oggi genera incredulità ed inevitabile dolore.



 
La sua può essere definita la normale scalata di un umile difensore che a 22 anni, nel 1957, vede decollare la sua carriera con il passaggio al CSKA Mosca, dopo la gavetta con Lokomotiv Kharkiv, Arsenal Kiev e SKA-Sverdlovsk.
Ad attirare l'attenzione del club moscovita è la grande capacità di concentrazione del difensore ucraino, abbinata ad una struttura fisica compatta ed alla spiccata personalità negli atteggiamenti e negli interventi in qualsiasi frangente.
Ci vogliono quattro anni affinché anche la nazionale sovietica, fresca vincitrice del primo Europeo, inizi ad apprezzare tali qualità., consentendogli di fare il proprio esordio appunto nel 1961.
Nonostante per il CSKA non siano anni propriamente indimenticabili, Dubinski eccelle per concretezza del suo apporto e per meticolosità nel dedicarsi alla marcatura dell'attaccante avversario: in determinate circostanze viene impiegato anche nel ruolo di libero, a dimostrazione che oltre ad aggressività e cattiveria agonistica vi è anche un'ottima visione tattica.
Il commissario tecnico Gavril Kachalin lo convoca per il Mondiale in Cile nel 1962, puntando fortemente sulla sua concretezza per proteggere al meglio la porta difesa dal leggendario Lev Yashin, una delle stelle di una rappresentativa attesa con interesse, per via anche del successo nell'Europeo di due anni prima.
L'esordio avviene 31 maggio contro la Jugoslavia in un significativo scontro tra due nazioni dai rapporti controversi nel blocco dell'Est.
E' proprio nel contesto di tale match che la carriera e la vita di Dubinksi vengono segnate per sempre: poco prima dell'intervallio una folle entrata di Muhamed Mujić, probabilmente ideata per rifarsi di qualche scorrettezza o minaccia, gli causa la frattura della tibia e del perone della gamba sinistra.
L'arbitro tedesco Albert Dusch non sanziona incredibilmente il fallo, mentre i giocatori sovietici, subito consci della gravità dell'infortunio, soccorrono immediatamente il compagno.



A conferma della follia dell'intervento di Mujić vi è la decisione dei compagni di escluderlo dalla partita, nonostante lo stesso fosse il capitano della squadra, essendo troppo marcata la vergogna per un simile comportamento.
Dubinksi fa ritorno a Mosca dove viene operato e dove inizia una lunga riabilitazione, al termine della quale, nel 1963, ritorna al calcio giocato, sia nel CSKA che in nazionale.
Il commissario tecnico Konstantin Beskov lo ritiene un elemento cardine per l'Europeo del 1964, dove la compagine sovietica è chiamata a difendere il titolo conquistato quattro anni prima.
Agli ottavi l'avversario è l'Italia di Edomondo Fabbri, da affrontare in un match di andata e ritorno con prima sfida da giocare in Unione Sovietica, precisamente nell'immenso stadio Lenin di Mosca.
A Dubinski spetta il compito di marcare Ezio Pascutti, attaccante esterno del Bologna dal fisico possente e dalla falcata ampia, fortemente incisivo in zona gol; il loro duello si presenta come il più classico possibile, con il difensore sovietico schierato con il numero 2 ed il centravanti friulano con il numero 11.
La partita è molto tesa ed il difensore del CSKA impiega pochi minuti a mettersi in mostra in negativo, quando stampa la propria scarpa sul viso di Angelo Benedicto Sormani, partner offensivo di Pascutti.
Nonostante l'impatto provochi un'ampia ferita al malcapitato attaccante di origine brasiliana, l'arbitro polacco Basaniuk non prende i provvedimenti del caso, dimostrandosi inadeguato a gestire la tensione in campo.
Poco il numero 11 azzurro si invola verso la porta sovietica quando sempre Dubinski lo atterra con una sgambetto volontario effettuato in palese ritardo.
Pascutti, colpito alla gamba da poco infortunata ed operata, si alza repentinamente e frastornato dallo shock e dalla rabbia mette le mani al petto dell'avversario, mimando un pugno che però resta solo nelle intenzioni.
Il difensore sovietico da sfogo a tutta la sua antisportività cadendo a terra tramortito, fingendo di essere effettivamente colpito dal giocatore azzurro: nell'inevitabile bagarre che ne segue il pessimo Basaniuk "abbocca" alla finta, decidendo di espellere il malcapitato Pascutti, reo anche di non avere una lingua in comune per potersi discolpare o chiedere che vanga consultato il guardalinee.
l'Italia perderà la partita per 2-0, con il giocatore del Bologna che verrà escluso dalla nazionale e mediaticamente messo "alla gogna", anche se non soprattutto per le ingerenze politiche, volte a mantenere cordiali le relazioni con l'Unione Sovietica.
Parte della stampa si schiera però con il centravanti azzurro, in particolare il grande Gianni Brera, il quale non lesina insulti e critiche a Dubinski, definito senza tante remore un "boia".


Nella partita di ritorno il "macellaio", come viene anche etichettato, non viene schierato, con la rappresentativa sovietica che strappa un prezioso pareggio per 1-1, dopo che Jasin aveva parato un calcio di rigore a Sandro Mazzola.
In pochi sono però a conoscenza che l'esclusione del giocatore del CSKA non ha solo ragioni di opportunità, ma trova la sua spiegazione nelle sue condizioni di salute.
La frattura subita un anno prima non è stata curata in modo efficace, con la tremenda conseguenza della formazione di un sarcoma (tumore maligno di origine connettivale o mesenchimale), che costringe il ventinovenne calciatore ad abbandonare l'attività agonistica e ad iniziare un lungo calvario.
Quest'ultimo è da lui speso su di una sedia a rotelle fino al 1969, quando l'implacabile sviluppo del tumore lo conduce alla morte, a soli 34 anni.
In patria lo sgomento e la iniziative per mantenerne vivo il ricordo di sprecano, così come qualche consona polemica sulla modalità di intervento dopo la frattura del 1962.
Nel contesto italiano il suo nome viene presto dimenticato, restando nella memoria solamente per le scorrettezze compiute in quel contorto match del 1963.
Nell'impossibilità di giustificare o riabilitare la sua figura, onestamente propria di un picchiatore e provocatore, non si può non restare basiti di fronte ad una fine assurda e, molto probabilmente, evitabile, iscrivibile nel sempre aihmè aggiornato elenco delle morti a causa di scontri gioco.






Giovanni Fasani