Il trequartista è a tutti gli effetti il ruolo nel quale il talento e la follia possono trovare libero sfogo in campo, lasciando all'interprete l'arbitrio di decidere quando e come dosare quella magiche capacità avuto in dono.
Quasi impossibile per qualsiasi allenatore imprigionarne l'estro in schemi, rendendo inevitabile il talvolta tacito assenso di accettarne le irrispettose "croci", ma soprattutto le sublimi "delizie".
Indentificato quasi esclusivamente, il trequartista, indicato anche come fantasista a conferma di una particolare vocazione, è spesso un elemento allergico alle regole, spesso indolente e molte volte fiero del suo immane potenziale.
Sovente la capacità tecniche sono talmente elevate che basta una singola giocata per cambiare il corso di una partita, dando conferma a quelli che pensano che tali giocatori "valgono da soli il prezzo del biglietto".
Tali caratteristiche sembrano acuirsi quando si analizza il contesto calcistico dell'Europa dell'Est, dove gli usi e costumi sembrano spianare la strada alla proliferazione di tale elementi, tante in volte in bilico tra l'essere un valore aggiunto o un'estemporanea presenza.
Tra i tanti giocatori identificabili in questa descrizione, un prototipo perfetto è rappresentato dal rumeno Marcel Răducanu,squisito centrocampista avanzato amante della giocata da urlo e fieramente indifferente a consigli, normative e leggi.
La natia Bucarest è il teatro della sua crescita sportiva, legata già saldamente alla blasonata Steaua, nella quale inizia la trafila delle giovanili a soli 10 anni.
Il periodo di maggior gloria della squadra transalpina del Saint Etienne è, senza ombra di dubbio, quello della seconda metà degli anni '70 lasso di tempo in cui gli uomini, sapientemente guidati da Herbin vincono alcuni titoli francesi e sfiorano una coppa dei campioni perdendo la finale per 1-0 contro il Bayern Monaco del "Kaiser" Beckenbauer.
I verdi dell'ASSE hanno in quegli anni d'oro alcuni fuoriclasse di valore assoluto come il portiere Curkovic, i francesi Larios, Santini e Rochetau, l'olandese ex del grande Ajax di Cruijff Jhonny Rep e soprattutto quello che risulterà essere il più grande giocatore francese di tutti i tempi Michel Platini.
C'è però una partita che nel piccolo centro urbano francese tutti ricordano. Per i tifosi dei verdi quella non è una partita ma "LA" partita è l'incontro che i nonni raccontano ai nipotini, i padri ai figli di modo che essa venga tramandata di generazione in generazione.
Avellaneda è una città argentina. Avellaneda è una città di tango, amore e passione. Avellaneda è una città "loca por el futbal". Avellaneda è una città e stregoneria. Avellaneda è una città dove pulsano due cuori. Due cuori che rispondono al nome di Racing e Indipendiente.
Queste due squadre vivono in due stadi a neppure 300 metri l'uno dall'altro il "Cilindro" casa del Racing ed il "Libertadores de America" casa dei biancorossi dell'Independiente.
Questi due luoghi tutta la passione calcistica della città ma anche tutto l'odio e la rabbia per l'altra metà calcistica della città dando vita ad un derby incredibile su cui sono sorte leggende più o meno vere.
Se alcune sono difficilmente verificabili e credibili, una quella della MALEDIZIONE DEI 7 GATTI NERI e passata alla storia.
Ancora oggi i biancoazzurri del Racing maledicono quella notte del 1967 in cui i fulvi felini fecero la loro irruzione nel calcio cittadino di Avellaneda entrando a piedi giunti sul Racing. Ancora oggi i tifosi dell'Indipendiente godono per quella sera, in cui gli odiati rivali erano sul tetto del mondo e loro i ragazzi del "Libertadores de America" hanno contribuito a tirarli giù dal trono spedendoli all'inferno.
Ma come andarono le cose? È presto detto....
Nel 1967 il Racing era la squadra più forte del Sud America i biancoazzurri avevano appena alzato al cielo la Coppa Libertadores conquistandosi il diritto a giocarsi l'Intercontinentale contro gli scozzesi del Celtic Glasgow, guidati in panchina, da Jock Stein che l’anno prima aveva trionfato in Coppa dei Campioni a sorpresa battendo l’Inter di Helenio Herrera nella famosa finale di Lisbona..... Mentre il Racing stava giocando e vincendo contro il Celtic ed i suoi tifosi stavano incollati alle radiolina e alle poche televisioni per godersi il momento in cui la loro squadra sarebbe entrata di diritto nel gota del calcio mondiale fregiandosi del titolo di squadra più forte del mondo, alcuni tifosi dell’Indipendiente entrarono di soppiatto nello stadio del Racing, sotterrando in diversi punti del terreno di gioco i cadaveri di sette gatti neri. Una sciocca superstizione potrà pensare qualcuno peccato che da quel momento "l'Academia" così com'è soprannominato il Racing non abbia vinto praticamente più nulla, ed il club fu funestato da una serie di disgrazie ancora oggi difficili da spiegare. Di contro i "Los Diablos rojo" dell'Indipendiente vinsero ben 7 Coppe Libertadores di cui 4 consecutive dal 1972 al 1975 diventando la squadra principale di Avellaneda.
Quando la situazione degenerò, con la retrocessione del Racing in seconda serie all'inizio degli anni '80 tifosi e dirigenza biancoazzurra organizzarono delle vere e proprie messe nere per scacciare la maledzione. Successivamente, falliti i riti satanici si rivolsero, a dei preti esorcisti perché facessero qualcosa, nella fattispecie spezzare la maledizione. Durante la cerimonia, che naturalmente non andò a buon fine, un prete addirittura si lasciò andare dicendo: "Non potete chiedere a Dio di tifare per il Racing, questa squadra perde sempre!" . Rischiando di venire linciato dai furiosi tifosi de "l'Academia".
Anni fa, un allenatore esasperato e stufo organizzò delle spedizioni alla ricerca di questi gatti seppelliti per il campo, obbligando i suoi giocatori e non solo a scavare il manto verde del "Cilindro". Fu rinvenuta solamente una delle carcasse degli ormai famosi 7 gatti, da allora il Racing è riuscito a vincere una coppa Interamericana e uno scudetto grazie soprattutto al ritorno del "Principe Milito" eroe del triplete nerazzurro griffato Josè Mourinho.
Sarà terminata la maledizione? al destino l'ardua sentenza...
La recente nuova politica cinese a favore dello sviluppo del calcio ha di fatto riacceso i riflettori internazionali sul suddetto campionato, grazie principalmente agli ingenti investimenti messi in atto per attrarre campioni o presunti tali.
Volente o nolente la Cina è diventata uno dei massimi riferimenti per la carriera di un giocatore, al momento con finalità prevalentemente economiche, ma con la previsione di rivaleggiare con Europa o Sudamerica in termini di competitività e blasone (per maggiori informazioni in tal senso consigliamo "Il Sogno Cinese" di Nicholas Gineprini e "Storia Del Calcio Cinese" di Marco Bagozzi e Andrea Bisceglia).
Precedentemente l'interesse verso il calcio nello stato asiatico ha seguito un andamento incostante con picchi massimi seguiti da momenti di scarsa attrazione, direttamente proporzionali alle politiche socio-economiche perseguite dall'apparato governativo. Negli anni '80 ad esempio si è verificato un flusso inverso a quello attuale, con talenti cinesi acquistati da club europei, anche di alto livello. Accanto ai trasferimenti di Xie Yuxin allo Zwolle e di Gu Guangming al Darmstadt, nel 1987 il Partizan Belgrado acquista due giocatori cinesi rispettivamente dallo Shanghai Team e dal Bayi: parliamo dell'attaccante Liu Haiguang e Jia Xiuquan, autentici apripista in grado di piazzare lo stato del Dragone Rosso sulla cartina calcistica mondiale.
Entrambi approdano nel campionato jugoslavo nel gennaio del 1987, pagando inevitabili difficoltà di ambientamento, ma vivendo la stessa esperienza in modo leggermente diverso.
Milutin Ivković non è il primo nome che viene in mente né quando si parla di calcio né quando si parla di eroi di guerra, eppure fu entrambe le cose: un calciatore come pochi se ne sono visti e un uomo coraggioso e degno di ammirazione, la cui leggenda vivrà per sempre.
Tutti i quasi conoscono l'ex portiere della Croazia e della Jugoslavia Tomislav Ivkovic colui che riuscì ad ipnotizzare, per ben due volte, Diego Armando Maradona parandogli altrettanti tiri dal dischetto; in pochi conoscono, invece, la storia di un altro Ivkovic, Milutin jugoslavo anche lui ma di nazionalità serba.
A partire dagli anni '70 il calcio belga comincia a dimostrare sul campo la bontà di un movimento che solamente negli anni '30 aveva iniziato a dare segni di sé.
La sua crescita esponenziale è ovviamente connessa all'esplosione di una generazione di calciatori ancora oggi ricordata con piacere, tanto da fungere da naturale metro di paragone per la forte rappresentativa dei giorni nostri.
Non solo la selezione belga si riaffaccia a grandi livelli nei grandi tornei, ma anche un club come l'Anderlecht arriva a vincere per due volte la Coppa delle Coppe nella parte finale di tale periodo.
Tra i tanti campioni che guidano tale ripresa balza all'occhio un centrocampista completo e potente, vero trascinatore dei Paars-wite della nazionale belga, in assoluto uno dei migliori prospetti europei a cavallo tra gli anni '70 ed '80.
Il suo nome è Ludo Coeck e purtroppo per lui il suo talento è stato pari all'incredibile sfortuna che ne ha minato la carriera, fino al tragico epilogo.
La carriera di Ludovic (questo il suo nome completo) prende il via nella natia Berchem, dove con la squadra locale si mette da subito in mostra nel ruolo di centravanti.
In tutte le imprese recenti della nazionale italiana appare fondamentale la figura di un mediano di sostanza, deputato a garantire un solido contributo in fase di interdizione e di sostegno ai compagni.
Nel 1982 l'ottimo Gabriele Oriali si erge a grande protagonista sorreggere Bruno Conti e Giancarlo Antognoni ed un modulo che vede la presenza di due punte fisse.
Nel 2006 un generosissimo Gennaro Gattuso corre quasi per due per lasciare libero da compiti di contenimento il compagno Andrea Pirlo e per consentire la presenza di due attaccanti di ruolo e, nel caso, un trequartista (Del Piero o Totti).
Andando più a fondo nelle storia calcistica azzurra non possiamo non notare come il centrocampista di quantità sia una vera e propria peculiarità del nostro calcio, fondamentale anche per successi ormai datati.
A tal proposito vale la pena ricordare come Vittorio Ponzo nel 1938 costruisca una vincente nazionale sia sul talento di Giuseppe Meazza e Silvio Piola, sia sulla presenza di presunti "gregari", chiamati a giocare in funzione delle necessità della squadre e dei suoi assi.
In tale contesto appare di spicco la figura di Pietro Serantoni, eccelso mediano di fatica, che nel torneo disputato in Francia scrive un vero e proprio trattato agonistico di tale sottovalutato ruolo.
Molto particolare è il fatto che inizi la carriera nella natia Venezia nel ruolo di interno, salvo poi nel tempo arretrare la propria posizione per meglio usufruire delle sue potenzialità.
Il classico "gol dell'ex" è il massimo smacco che una tifoseria possa subire, in particolar modo quando a segnarlo è una bandiera del club o, quantomeno, un idolo assoluto della stessa.
La storia del calcio è colma di calciatori che, insensibili ad ogni precedente appartenenza, decidono di dare un doppio dolore agli ex tifosi, pugnalandoli emotivamente con la beffa di un gol.
Ai nostri giorni si è sviluppata la tendenza a non esultare, cercando così di esprimere una certo rispetto per la vecchia maglia, quasi a comunicare di non provare gioia nella realizzazione, ma di aver segnato solo per obblighi professionali.
I pro e i contro di tale atteggiamento sono stati più volti discussi, considerando che precedentemente non vi era tale "rispettosa" tendenza ed il gol veniva festeggiato come tutti gli altri.
Un esempio lampante è rappresentato da un pesantissimo gol dell'ex, realizzato da Roberto Pruzzo il 30 giugno 1989 contro la SUA Roma, determinante addirittura per risolvere uno spareggio.
Nell'estate dell'anno si era materializzato infatti l'addio dell' O Rei di Crocefieschi alla maglia giallorossa, attraverso il suo passaggio alla Fiorentina.
Uno dei luoghi comuni sul calcio brasiliano riguarda la forte tendenza a considerare esclusivamente la fase offensiva a discapito di quella difensiva, portando a pensare che nella nazione dell'Ordem e Progresso non possano nascere difensori validi.
Recentemente tale adagio è stato concretamente smentito dall'apparire nell'orizzonte calcistico di valenti centrali difensivi di origine brasiliana, alcuni dei quali considerati tra i migliori interpreti del ruolo.
Precedentemente al calcio del 2000 le squadre brasiliane e la leggendaria Seleçao sembravano davvero scendere in campo con il solo scopo di segnare una rete in più dell'avversario, puntando quindi fortemente sulla eccelsa tecnica di base e sul continuo possesso palla, quale prevalente forma di opposizione agli avversari.
Ad un'analisi più attenta non possono sfuggire le figure di grandi difensori che nel corso del tempo hanno rappresentato una piacevole eccezione a tale offensiva impostazione.
Precursore della futura generazione di forti difensori brasiliani è sicuramente Mauro Ramos, centrale talmente elegante ed efficace da rappresentare ancora oggi un parametro di riferimento.
Il suo nome potrebbe benissimo ben figurare vicino ai mitici Caudillos del calcio sudamericano, dei quali fanno parte campioni quali Josè Nasazzi, Elias Figueroa e Daniel Passarella.
Un personaggio come Hugo Meisl non può che essere indicato come uno degli allenatori più importanti del XIX secolo, principalmente per quanto lui fatto alla guida della nazionale austriaca.
E' proprio grazie alla sua conduzione tecnica che nasce il Wunderteam ("squadra delle meraviglie") all'inizio degli anni'30, capace di dominare a livello continentale di rappresentare un modello da emulare per le altre rappresentative.
La sua improvvisa morte nel 1937 priva la rappresentativa del suo storico allenatore, in momento nel quale le vicende politiche stanno fortemente minando l'esistenza stessa dell'Austria quale nazione.
Meisl non può così assistere all'annessione della sua nazione alla Germania nazista (Anschluss), che comporta, oltre che le evidenti conseguenze di carattere sociale, anche l'imposizione per i giocatori austriaci di andare a rinforzare la nazionale tedesca.
C'è chi si rifiuta decisamente di giocare per i dominatori tedeschi, come Matthias Sindelar, probabilmente il più forte giocatore austriaco di tutti i tempi, il quale non fa mistero della sua avversione al nazismo arrivando a disertare anche la convocazione per il Mondiale del 1938.
Il famigerato Carta Velina morirà in circostanze mai chiarite nel 1939, pagando probabilmente tale diniego ed un atteggiamento ostile nei confronti del nazismo e delle più o meno velate intimidazioni volte ad inserirlo nella nazionale tedesca.
Accanto alla sua simbolica figura vi è un altro calciatore che decide di voltare le spalle al Reich, creando meno trambusto mediatico, ma, al tempo stesso, rappresentando dal punto di vista tecnico una grave perdita per la nazionale.
Parliamo di Camillo Jerusalem squisita mezzala sinistra in grado davvero di poter fare la differenza in un quel magnifico calcio degli anni'30.
La usa predisposizione per il gioco del calcio gli permette di entrare a far parte della rosa dell'Austria Vienna nel 1930 a soli 16 anni, dopo che aver dimostrato classe e tecnica a livello amatoriale.
Nell'estate del 1948 il presidente del Torino Ferruccio Novo inizia una meticolosa opera di rinnovamento della squadra, andando a tesserare nuovi potenziali campioni da inserire gradualmente nell'undici titolare.
L'operazione è il frutto di una dettagliata ricerca volta a reperire quei talenti degni di poter sostituire i componenti di quello che ancora oggi è ricordato come il Grande Torino.
Il raggio d'azione non è limitato alla sola Italia, ma spazia anche per tutta Europa, essendo la squadra piemontese conosciuta in tutto il continente, dove la sua nomea di Invincibile rappresenta un sogno per ogni calciatore.
Badando poco alle spese e molto più al valore e alla futuribilità dei giocatori, arrivano a disposizione quattro elementi di sicuro valore, inizialmente proponibili come riserve dei fortissimi titolari.
Da Casale arriva a rinforzare il reparto difensivo il terzino sinistro Piero Operto, mentre il reparto di centrocampo viene ampliato dall'acquisto di Rubens Fadini, ventiduenne proveniente dalla Gallaratese.
Per quanto concerne l'attacco le scelte della società vertono tre giocatori provenienti da campionati esteri, a conferma del carattere internazionale della ricerca effettuata.
Dalla Cecoslovacchia e precisamente dallo Slovan Bratislava viene prelevata la mezzala Július Schubert, mentre dalla Francia arrivano due centravanti, il transalpino Émile Bongiorni e l'italiano Revelli Ruggero Grava, nato in Francia da genitori italiani emigrati dal Friuli in cerca di fortuna.
Su di lui si indirizzano particolarmente le speranze dell'allenatore inglese Leslie Lievesley, che in vede in lui quelle specifiche qualità che potrebbero farne il sostituto del grande Guglielmo Gabetto.
I magnifici tifosi del Botafogo sono universalmente ammirati ed invidiati per avere avuto la possibilità di bearsi della giocate del grande Garrincha per ben dodici anni, applaudendo un autentico fuoriclasse dal dribbling incontenibile.
In molti ancora oggi ritengono il piccolo Manè addirittura superiore all'icona Pelè, attribuendogli quella nomea di leggenda che la sregolata vita e la candida spontaneità hanno alimentato nel tempo. All'inizio degli anni'50 la prodigiosa ala brasiliana viene affiancata da altri due notevoli giocatori, diversi per caratteristiche, ma con in comune il futuro nel campionato italiano. La punta centrale è Luis Vinicio, micidiale attaccante protagonista con più squadra nel nostro campionato, dove arriva a realizzare 155 complessivamente. L'altro componente del tridente è una mezzapunta dalla falcata ampia e dalla tecnica sublime, teoricamente impiegabile come esterno destro, ma praticamente a sua agio in ogni zona del campo. Stiamo parlando di Dino Da Costa, talento purissimo ritenuto con ragione uno dei giocatori più completi ad aver giocato nel nostro campionato.
Con la maglia bianconera del Botafogo fa il suo esordio nel 1951 a vent'anni, anche se il suo nome viene preso in considerazione per la prima squadra già da qualche anno.
Chi ha dimestichezza con il calcio magiaro concorderà sul fatto che Lajos Détárisia uno dei più fulgidi talenti espressi dall'Ungheria dopo la fine del leggendario ciclo dell'Aranycsapat.
Purtroppo per lui il suo nome viene ancora oggi rimembrato anche come uno dei più grandi dispersori di tale virtù, dal momento che il particolare carattere lo ha frenato in molte occasioni.
Accenni di vita non proprio professionale, un forte e limitante egocentrismo e la tendenza a concedersi molte pause fanno pesantemente a cazzotti con una tecnica eccezionale, un piede destro sublime ed una classe innata da vero fuoriclasse.
In Italia il trequartista di Budapest ha incantato ad isolati sprazzi con le maglie di Bologna, Ancona e Genoa, restando in tali contesti poco di più che una promessa mancata.
In carriera, tuttavia, il suo suscettibile ego è riuscito talvolta ad assecondarne il genio, finendo per consentirgli di essere uno vero trascinatore.
Per conferme basta chiedere ai tifosi dell'Eintracht Francoforte, che nella stagione 1987/1988 vedono la propria squadra imporsi nella Coppa di Germania grazie, prevalentemente, alle giocate di un ispirato Détári .
Le Aquile iniziano la stagione con un nuovo allenatore, Karl-Heinz Feldkamp, il quale di buon grado accoglie in squadra il fantasista ungherese, al momento uno dei prospetti più interessanti e contesi del continente.
In una nazione calciofila come l'Italia ogni bambino viene appena possibile indirizzato all'esercizio dell'antica arte pedatoria, grazie alla portata mediatica di tale sport ed alle grandi spontanee quanto intrusive insistenze famigliari.
Le altre discipline si riservano una nicchia relativa, spesso tristemente ancora al retaggio culturale/territoriale o alle solita ingerenze genitoriali, in una sorta di "romantico" passaggio di consegne.
Con una tale ristretta visione molti appassionati potrebbero sorprendersi nell'apprendere che molti grandi calciatori hanno iniziato la carriera agonistica cimentandosi in sport diversi.
In un nostro precedente articolo abbiamo raccontato di come il turco Can Bartu fosse in giovane età un eccelso talento della pallacanestro, arrivando addirittura in nazionale, prima che la passione per il calcio lo portasse anche a giocare nel selettivo campionato italiano.
Sempre dalla Turchia arriva una altro esempio di un atleta doppiamente dotato in due sport, tanto da eccellere in entrambi fino a quando il pallone non lo ha reso una leggenda nazionale.
A tal proposito Aycut Kocaman è ancora oggi ricordato come uno dei cinque calciatori turchi ad aver segnato 200 gol in campionato, ma tutto era partito dalla ginnastica.
La sua adolescenza sportiva è ugualmente divisa tra calcio e ginnastica, facendo parte rispettivamente della squadra dilettantistica del Kabataş Altınmızrak e della rappresentativa Eczacıbaşı.
Il 22 settembre 2015 il grande centravanti polacco Robert Lewandowski stupisce il mondo realizzando 5 reti in 9 minuti contro il Wolsburg, dando nuovamente prova del proprio talento e del proprio fiuto del gol. All'indomani della prodigiosa prodezza realizzativa i media ne hanno giustamente esaltato il valore, alcuni sostenendo altresì come nessuno prima di lui fosse riuscito a centrare un "pokerissimo" in così pochi minuti. In realtà c'è chi è riuscito a fare addirittura meglio, mettendo a segno le 5 segnature in appena 7 minuti. Il prolifico attaccante in questione è l'ungherese Ferenc Hirzer e per rinverdire i fasti di tale record di segnature dobbiamo andare indietro nel tempo di molti anni, precisamente al 20 giugno 1926.
L'ambito di riferimento è il campionato italiano, del quale si gioca la ventunesima giornata, con la Juventus, futura vincitrice del torneo, impegnata sul campo del Mantova.
Nel corso del tempo il calcio di rigore, da semplice tiro di massima punizione, è diventato oggetto di varie forme di realizzazione, con le quali campioni o presunti tali hanno dimostrato la propria classe e la propria inventiva.
Abbiamo così imparato a fare conoscenza con tiri con lunga rincorsa, calciati da fermo, eseguiti dopo audaci finte e via dicendo.
Nel 1976 Antonín Panenka ha sorpreso il mondo con il suo "cucchiaio", ripreso in molte occasioni anche di recente, visto da tutti come un vero e proprio azzardo, ma, al tempo stesso, sinonimo di estrema sicurezza nei proprio mezzi.
Il leggendario Johan Cruijff nel 1982 ha mostrato al mondo come il penalty possa essere trasformato dopo due tocchi con un compagno, sfruttando in tal senso un disposizione del regolamento che pochi conoscono.
Il Profeta del gol ha ispirato nel 2016 Leo Messi e Luis Suarez e forse anche Robert Pires e Thierry Henry qualche anno prima, anche se il risultato per i due francesi è stato quantomeno comico.
Cosa manca all'appello? Quale altra particolare trovata si può applicare per quello che è nato come un tiro da undici metri con il solo portiere ad evitare la realizzazione?
Mancherebbe all'appello un rigore calciato con la "rabona", vale a dire quel particolare vezzo tecnico con la quale si calcia incrociando di fatto le gambe.
Di derivazione castigliana, la paternità di tale giocata viene attribuita da alcuni a Riccardo Infante, che nel 1948 segnò in tale modo durante un'azione di gioco. Possibile che nella lunga storia del calcio nessuno abbia mai pensato ad una simile modalità di esecuzione dagli undici metri?
Qualcuno in effetti si è cimentato con successo in tale tentativo: nel 1985 Ricardo Paciocco decide la sfida tra Reggina e Triestina trasformando con la rabona il rigore del 2-1 a favore degli amaranto.
Il giocatore nato in Venezuela è alla prima stagione nel capoluogo e viene da discrete esperienze in seria A con le maglie di Pisa e Lecce, dove non è mai riuscito però ad imporsi come attaccante titolare. Pur non essendo un prolifico realizzatore è dotato di tecnica ed estro, oltre che di grande perizia tattica e di spirito di sacrificio. Lo si può definire il classico giocatore sempre apprezzato dagli allenatori, i quali sono disposti a chiudere un occhio sul carattere fumantino e su qualche bonaria "pazzia". Nell'estate del 1989 il nuovo tecnico Bruno "Maciste" Bolchi punta su di lui e sull'attaccante Fulvio Simonini, supportati dalla promessa Massimo Orlando, per ottenere la promozione nella massima serie, dopo che l'anno precedente la stessa era sfuggita a seguito dello spareggio contro la Cremonese La coppia di attaccanti non conferma però sul campo il potenziale realizzativo della vigilia, con Paciocco che segna solamente 7 reti nelle 29 partite disputate. Ma, come anticipato, una di queste merita di essere ricordata per la maniera con la quale è stata realizzata. Siamo alla trentacinquesima giornata e la Reggina è in piena lotta promozione quando al Granillo si presenta la Triestina, a sua volta impegnata nella corsa alla salvezza. Al 75° minuto sul risultato di 1-1 viene decretato un calcio di rigore a favore dei padroni di casa e sul dischetto si presenta, come detto, Paciocco.
La scelta del tipo di esecuzione e quello che succede dopo è entrato di fatto nella leggenda popolare e molte sono state le interpretazioni e indiscrezioni sulla vicenda. Il giocatore, intervistato anni dopo, spiega in questo modo la decisione di fare la rabona. “ Quel
rigore fu un attimo di pazzia. Quando guardai il portiere, prima di tirare, lo
vidi fermo di fronte a me. Mi raccontarono che il mister disse, “calcia di
sinistro?”. Gli rispose Cascione, “no, mister, fa la rabona”. Stavo per tirare
e sentii un urlo disperato, “no!”. Troppo tardi. Feci la rabona, la palla
gonfiò la rete e l’atmosfera negli istanti immediatamente successivi fu
surreale. La nostra gente quasi non realizzava quanto fosse successo. Per me è
stato solamene
un modo per spiazzare il portiere e fare gol” (Fonte www.strettoweb.com). Si inizia a parlare anche di una possibile scommessa che il giocatore avrebbe proposto all'allenatore Bolchi in un allenamento prima della partita:" Mister, scommettiamo che domenica se ci danno un rigore lo calcio con la rabona?". Il tecnico milanese, dall'alto della grande esperienza e personalità, non da peso alle parole del suo giocatore, mettendo fine alla discussione con un bonario " va bene, però adesso pensa a lavorare". Non è dato sapersi se Paciocco abbia preso la risposta dell'allenatore come un'autorizzazione, fatto sta che nel momento fatidico non mostra reticenza nel mettere in atto il suo particolare piano. L'eccezionalità del gesto è tale che anche i giornalisti presenti allo stadio non si accorgono subito della rabona, dando solamente notizia dell'avvenuta trasformazione. Saranno solo i replay e l'occhio attendo degli appassionati a notare che Paciocco ha di fatto calciato con il sinistro, incrociando le gambe. Un moto atipico per lasciare il proprio nome nella storia del calcio italiano, in attesa che qualche altro spavaldo calciatore si cimenti in un rigore con la rabona. O per meglio dire un rigore "alla Paciocco".
Se provassimo ad associare le parole centromediano ed oriundo nella nostra mente apparirebbe la massiccia figura di Luisito Monti, eccellenza nel ruolo e campione del mondo nel 1934 con l'Italia, dopo essere arrivato secondo quattro anni prima con l'Argentina.
In realtà in Sudamerica è sbocciato un altro fulgido talento di tale mansione, arrivato anche lui in Italia ed anche lui vincitore del Mondiale in maglia azzurra. Parliamo del grande Miguel Angel Andreolo, autentico fuoriclasse nato in Uruguay da genitori emigrati dalla provincia di Salerno e diventato leggendario con la maglia del Bologna e con quella della nazionale di Vittorio Pozzo.
Nato a Carmelo in terra uruguagia nel 1912, mette subito in mostra doti fisico/tecniche che lo mettono all'attenzione del Nacional, nel quale cresce a livello giovanile e con il quale esordisce nel 1932.
Alla vigilia del Mondiale 1970 il commissario tecnico Mário Zagallo si trova nella piacevole quanto non facile situazione di dover far coincidere a livello tattico sette giocatori dalla tecnica sopraffina e dall'ovvia inclinazione offensiva.
Accanto al mito Pelé troviamo il prolifico Tostão, ai lati dei quali giocano l'imprendibile Jairzinho sulla destra ed il fromboliere Rivelino, il cui sinistro è probabilmente uno dei migliori mai visti nella storia del calcio.
Dietro questo quartetto, accanto all'altrettanto grande Gérson, troviamo l'elemento in grado di dare l'equilibrio ad un squadra sa sogno, dall'alto di un intelligenza tattica straordinaria.
Pur avendo doti tecniche proprie del trequartista, Clodoaldo si erge nel classico ruolo di Volante, passandone alla storia come uno dei più forti di sempre.
E' proprio la sua presenza che consente al tecnico di Maceió di schierare tutte le sue stelle contemporaneamente, offrendo un calcio esteticamente sublime quanto straordinariamente redditizio.
Dopo FOOTBALLSLAVIA, Danilo Crepaldi, ci riporta nei Balcani, una terra che produce più storia di quella che riesce a consumare.
Dopo la disgregazione della Jugoslavia ancora una volta il calcio s'intreccia alla politica ed alla storia dei nuovi stati slavi in maniera viscerale venendo usato dal potente di turno per i propri interessi personali.
In questo libro Crepaldi Danilo ci racconta il difficile rapporto fra calcio, tifo e politica in una parte di mondo che non sembra volere e potere trovare un equilibrio definitivo.
FIGLI DELLA JUGOSLAVIA è il fedele resoconto, storico-calcistico della storia balcanica dopo lo scioglimento della Jugoslavia.
Una storia che, ancora oggi, è profondamente legata al ricordo dello stato socialista governato da Tito.Una storia di calcio, guerre e violenze che sembrano non voler dar pace agli ex cittadini jugoslavi.
L'estratto è preso dal capitolo 4 "Francia '98 Fra orgoglio e nazionalismo" sotto titolo "La zlatna Generacija del calcio croato".
Il Mondiale del 1934 è ricordato per la prima storica affermazione della nazionale italiana, avvenuta in un ambiente costruito ad arte dal governo fascista, con lo scopo di esaltarne il prestigio e la visibilità internazionale.
Grazie alla maestria di Vittorio Pozzo, abile ad allestire una rosa fortissima, coniugata con qualche neanche tanto velato favore, gli azzurri raggiungono la finale di Roma da disputarsi contro la Cecoslovacchia.
Anche la nazionale di di Karel Petrů è però una rappresentativa fortissima, capitanata da František Plánička (protagonista di un nostro vecchio articolo) con un quintetto offensivo fortissimo, dove spicca la classe di Oldřich Nejedlý (anch'egli già raccontato nel nostro blog).
Nella finalissima di Roma gli "ospiti" non si limitano a fare da sparring partner, tanto da passare in vantaggio al 71° minuto con un gol di un attaccante tanto piccolo quanto letale e decisivo, Antonín Puč.
La sua rete getta nello sconforto il pubblico italiano accorso allo Stadio Nazionale del PDF, impreparato anche solo a temere di non poter vincere il torneo.
In tutto il mondo i giocatori di etnia slava sono conosciuti non solo per le indiscusse qualità tecniche, ma anche per una spiccata personalità, la quale a tratti può facilmente sfociare in sbruffoneria ed eccessiva sicurezza dei proprio mezzi.
Lo stereotipo più diffuso è quello del calciatore indolente e poco avvezzo al sacrificio, ma al tempo stesso talmente fiero del proprio talento da ritenerlo sufficiente a confrontarsi e a sconfiggere ogni tipo di avversario.
Addirittura neppure al cospetto dei giocatori più forti del mondo sembra venir meno la loro sicurezza (spocchia?), perché in cuor loro si sentono davvero i migliori.
Nel contesto calcistico al nome Jugoslavia siamo abituati ad associare raffinati palleggiatori o portentosi attaccanti, appunto perché la tecnica applicata alla vocazione offensiva ne rappresenta una costante peculiarità.
Considerando la sfera caratteriale vogliamo ricordare un curioso episodio che ha visto come protagonista un portiere jugoslavo, talmente impavido da sfidare addirittura il grande Maradona.
Si può dire qualsiasi cosa del girovago Tomislav Ivković, ma non che gli siano mancate la personalità e la faccia tosta.
A partire proprio dalla sua lunga carriera spesa in più di una nazione durata la bellezza di 21 anni terminata nel 1998 alla vigilia del trentottesimo compleanno; nell'arco della stessa ha giocato in patria (Dinamo Zagabria, Cibalia Vinkovici e Stella Rossa), in Austria (Wacker Innsbruck e Wiener Sport Club), in Belgio (Genk), in Portogallo (Sporting Lisbona, Vitoria Setúbal, Belenenses ed Estrela Amadora) ed in Spagna (Salamanca).
Talento ne ha da vendere, è un portiere completo statuario (189 cm di altezza) in grado di comandare con piglio ed autorità la retroguardia, dimostrandosi sicuro in ogni frangente.
Non mancano i colpi di testa tipici di chi decide di giocare tra i pali e se vi aggiungiamo i geni slavi il risultato che ne esce è quello di un vero e proprio personaggio.
Nel 1989 disputa la sua prima stagione con lo Sporting CP, squadra di buon livello impegnata anche in Coppa Uefa. A tal proposito il primo turno mette di fronte i Leões al Napoli di Diego Armando Maradona, campione in carica del torneo, in un doppio match che si dimostrerà aspro e combattuto. Dopo il pareggio a reti bianche allo stadio José Alvalade lo stesso risultato si verifica due settimane dopo al San Paolo rendendo inevitabile l'epilogo finale dei calcio di rigore. Ivković inizia alla grande la serie respingendo il tiro di Crippa, ma anche il "collega" Giuliano Giuliani si supera sulla conclusione di Luizinho. Arrivati all'ultima conclusione si presenta dal dischetto Maradona, con il Napoli in vantaggio ed è a quel punto che al portiere slavo viene in mente di rendere più avvincente la già delicata situazione, proponendo al Pibe de Oro di scommettere 100 dollari sul fatto che gli avrebbe parato il rigore. Il giocatore argentino annuisce e parte con la classica rincorsa aspettando un movimento del portiere per spiazzarlo: Ivković resta fermo fino all'ultimo ed intuisce il tiro debole gettandosi sulla sua sinistra. Invece che esultare il portiere dello Sporting si avvicina a Maradona e tirandolo per il braccio gli ricorda la validità della scommessa, ricevendo dal rammaricato argentino un cenno positivo con la testa. Per fortuna del Napoli e di Maradona Giuliani è in serata di grazie e respinge il rigore di Fernando Gomes regalando ai partenopei il passaggio del turno.
La leggenda narra che negli spogliatoi Maradona abbia effettivamente rispettato il singolare accordo pagando quanto pattuito al portiere slavo, già soddisfatto di aver vinto la scommessa e parato un rigore al giocatore più forte del mondo, indipendentemente dall'eliminazione. Siccome a volte il calcio regala situazione paradossali, l'anno successivo la sfida si ripete, questa volta nel contesto del campionato del mondo: Ivković è il portiere titolare della Jugoslavia, mentre Dieguito è il trascinatore di un'Argentina intenzionata a bissare il titolo conquistato quattro anni prima in Messico. Le due squadre si incontrano ai quarti di finale, con i Plavi accreditati di essere una delle squadre più temibili della competizione, dall'alto di una tecnica sbalorditiva. Gli uomini di Ivica Osim, guidati dalla classe di Dragan Stojković, Dejan Savićević e Robert Prosinečki sopperiscono all'espulsione di Refik Sabanadzovic mettendo in grande difficoltà la squadra sudamericana, nonostante il match non si sblocchi neanche dopo i supplementari. Si va quindi alla lotteria dagli undici metri e dopo i primi due tentativi l'Argentina è in vantaggio per 2-1, a causa dell'errore di Stojković. A questo punto si presenta dal dischetto Maradona, il quale con la solita sicurezza si appresta a calciare al cospetto di Ivković: non è dato sapersi se il numero dieci argentino pensasse all'errore di qualche mese addietro, fatto sta che calcia a mezzaltezza con scarsa forza rendendo semplice la parata dell'avversario, che addirittura blocca il pallone. In questa circostanza non ci sono scommesse tra i due, anche se l'estremo difensore abbozza un tentativo in tal senso, venendo ignorato dall'avversario. Anche stavolta il risultato finale non gli sorride, dal momento che i successivi errori di Dragoljub Brnović eFaruk Hadžibegić mettono fine a quello che è l'ultimo Mondiale disputato dalla Jugoslavia unita.
Appare forse riduttivo sintetizzare la carriera di Tomislav Ivković a questo particolare episodio con Maradona, ignorando in tal senso le 38 presenze in nazionale ed il generale apprezzamento da lui ricevuto durante la lunga e movimentata carriera.
Ma la particolarità del suo carattere e la capacità di affrontare con estrema sicurezza una situazione decisiva possono in buona parte riassumerne il valore.
Al termine della Seconda Guerra Mondiale i confini territoriali subiscono un vero e proprio scossone, tale da mettere in discussione anche l'esistenza stessa di interi stati.
La Germania viene divisa in due differenti nazioni, lasciandone una sotto il controllo occidentale e l'altra sotto la pressante influenza dell'Unione Sovietica.
All'interno del territorio tedesco si trova un piccolo protettorato, finito sotto il controllo nazista nel 1935, dopo un plebiscito che lo vede assumere il nome di Westmark.
Nella generale nomenclatura tale territorio è denominato Saarland e dopo essere finito sotto il controllo francese nel 1945, arriva a conoscere 3 anni di assoluta indipendenza.
Nel 1954, infatti, Francia e Germania propendono di creare una nazione a se stante, con capitale Saarbrücken e con tutti i crismi per concorrere anche in campo sportivo.
In campo calcistico la federazione già esiste dal 1950, ma con la creazione della FIFA la prima nazionale del Saarland partecipa di diritto alle qualificazioni per il Mondiale 1954.
Con la maglia biancoblu, la piccola rappresentativa viene inserita nel Gruppo 1 con la Norvegia e soprattutto contro la Germania Ovest.
Michelangelo Rampulla è sicuramente uno dei
più ricordati ed apprezzati numeri 12 degli anni novanta.
Siciliano DOC, nasce a Patti, nel
messinese, il 10 di agosto del 1962. Calcisticamente cresce nella squadrabianconera della piccola cittadina, la
Pattese, inizialmente con il ruolo di attaccante. Il padre, grande appassionato
di calcio, vista la stazza (quasi 190 cm per 82 chilogrammi) lo convinse a
cambiare ruolo, diventò portiere. Scelta che si rivelò fondamentale per lo
sviluppo della carriera.
Esordì in prima squadra nella stagione 1979/1980 a soli 17 anni. Le buonissime prestazioni convinsero l'altrettanto giovane
Direttore Sportivo del Varese Beppe Marotta ad integrare in squadra il 18enne
Rampulla. In un balzo solo, dalla promozione in Serie D alla B.
Lo Sheriff Tiraspol, oggi gioca in Europa League e sentendo questo nome in molti hanno difficoltà a collocarlo su una cartina europea; se poi vi dicessimo che questa squadra rappresenta uno stato chiamato Transnitria la confusione diventa totale.
Dov'è la Transnitria? O meglio cos'è la Transnitria?
Sarebbe inutile armarsi di atlante geografica lo stato della Transnitria non lo trovereste perchè è uno stato de facto riconosciuto solo dalla Russia e mal tollerato dalla Moldavia il cui territorio dovrebbe comprendere anche quello della Transnitria. Ma per capire questa situazione così strana bisogna fare un salto indietro nel tempo e più precisamente al 1940 quando Moldavia e Transnitria passarono dall'essere l'estrema parte orientale della Romania a Repubblica costituente dell'URSS in seguito agli accordi del patto Molotov-Ribbentropp.
(confine Transinitria-Moldavia)
Dopo il crollo sovietico firmato perestrojka e glasnost la Moldavia si dichiarò indipendente a scapito dei cittadini russi, i quali si ritirarono oltre il fiume Dnistro dichiarando la regione indipendente con il nome di Repubblica Moldava di Pridnestrovie.