sabato 29 febbraio 2020

EL LEON DE WEMBLEY

Sono guardano una foto di Miguel Ángel Rugilo la sensazione iniziale è quella di trovarsi di fronte un divo del cinema degli anni'30-40, con il baffo di ordinanza ad accompagnare una folta ed impomatata chioma corvina. Se non fosse per il naso un tantino lungo i crismi sarebbero proprio quelli che in quell'epoca fanno palpitare i cuori di tante donzelle.




In realtà il baffuto Miguel è passato alla storia per essere stato un portiere, probabilmente uno dei più forti delle su epoca, durante la quale ha giocato nella natia Argentina, in Messico, in Cile ed in Brasile, mettendo in mostra un talento assoluto.
Tra alti e bassi e vicende talvolta esterne al contesto calcistico, il classe 1919 nativo di Buenos Aires ha scritto pagine importanti e particolari della storia calcistica sudamericana, con il climax toccato quando è diventato per tutti El Leon de Wembley.




Siamo senza dubbio di fronte ad un personaggio particolare e pittoresco nell'accezione più positiva del termine, laddove contingenze e situazioni indipendenti dalla sua volontà giocano un ruoli di primaria importanza.

giovedì 20 febbraio 2020

QUANDO IL CALCIO BASCO DISSE BASTA ALLA DITTATURA FRANCHISTA.


In un momento difficile della recente storia spagnola, due squadre si sono opposte alla repressione franchista che ancora imperava nel paese nonostante la morte del dittatore Franco, avvenuta nel 1975. In un periodo in cui l’E.T.A, ancora considerato un gruppo paramilitare antifranchista, era l’esponente della lotta per la indipendenza del popolo basco, c’è chi ha usato il calcio come fattore di pressione sociale: le due squadre basche per eccellenza, l’Athletic Club di Bilbao e la Real Sociedad di San Sebastian.
Le leggi franchiste ancora in vigore vietavano l’esibizione della ikurriña, la bandiera dei Paesi Baschi, così come l’uso dell’euskera, la lingua parlata dai baschi. Con la morte del dittatore si provò ad attuare una apertura verso la democrazia, fu chiesta la legalizzazione dei simboli baschi e fu richiesto anche uno status di autonomia.


Per capire bene la situazione, forse si deve chiarire che entrambe le squadre giocavano con soli giocatori della terra (l'Athletic lo fa ancora oggi ), giocatori baschi che sentivano come propria la lotta del proprio popolo.
La stessa immagine dei calciatori negli anni ’70 era differente da quella che intendiamo oggi. All’epoca c’erano giocatori interessati a ciò che accadeva e con opinioni proprie: in questo clima di tensione, lotta e soprattutto inquietudine per i cambi politici e sociali, il calcio basco scelse da che parte stare.
Era il 5 dicembre 1976 e il derby basco tornava allo stadio di Atocha di San Sebastián. Nessuno sapeva che quel giorno sarebbe avvenuto un passo storico nella lotta del popolo basco per l’autodeterminazione. Josean de la Hoz Uranga, giocatore della Real Sociedad soprannominato Trotsky, fu colui che ordì tutto il piano e introdusse illegalmente una bandiera basca nello stadio. Essendo proibita l’ikurriña, fu la sorella proprio di Uranga a cucire gli scampoli di colori rosso, verde e bianco per dare forma ad una bandiera che sarebbe passata alla storia. La cosa più facile era stata già fatta, il vessillo era nello stadio di Atocha, ma ora rimanevano le due parti più difficili: parlare in gran segreto coi capitani di entrambe le squadre per proporre l’idea di entrare in campo con la bandiera illegale trasportata dai capitani stessi, e ottenere che la polizia spagnola non intercettasse la bandiera prima della loro entrata, visto che lo stadio disponeva di un fosso che quel giorno era circondato da agenti della polizia nazionale.
Dopo aver parlato coi capitani negli spogliatori di Atocha, le due squadre dissero di sì, consapevoli di quello che avrebbe potuto costituire a livello nazionale vedere i due maggiori rappresentanti del calcio basco esibire la bandiera basca in un atto pubblico.
Nascosta nelle borse dove si trasportava l’acqua, l’ikurriña arrivò alle panchine, saltando in questo modo i poliziotti.
Tutto era pronto, le due squadre in fila per uno, faccia a faccia nel tunnel degli spogliatoi. Una volta che il prato era stato oltrepassato Uranga diede la bandiera ai capitani, due simboli del calcio spagnolo dell’epoca, Iribar e Kortabarria, e i due insieme mostrarono il simbolo del paese basco fino al centro del campo tra il clamore popolare e l’ambiente festante dell’antico stadio realista.


Molte volte vale più un’immagine che mille parole, questo dimostrarono tanto la Real che l’Athletic.
Fu un attacco diretto ad un regime in via di estinzione e una petizione pubblica nello scenario perfetto, una partita di calcio, posto di socializzazione e di rivendicazione. Era da prima della Guerra Civile spagnola, 1936 -1939, che non si vedeva una ikurriña in un avvenimento pubblico. Tutte quelle rivendicazioni avrebbero dato il loro frutto giorni più tardi: il 19 gennaio 1977 sarebbe stato approvato lo Statuto basco e la bandiera sarebbe stata legalizzata.
Ma quel 5 dicembre 1976 fu il calcio a testimoniare che la lotta del popolo basco aveva avuto l’appoggio di due giganti dell’epoca che avevano rischiato per mostrare una bandiera ancora illegale alla loro gente.


Danilo Crepaldi

sabato 8 febbraio 2020

QUANDO ISTVAN AVAR CAUSO' LA ZONA CESARINI

Il 13 dicembre 1933 il funambolico Renato Cesarini imprime il suo nome nella storia del calcio italiano e nella relativa nomenclatura segnando la rete del 3-2 nella sfida tra Italia e Ungheria, mandando in visibilio il pubblico dello stadio di Torino, dove aver materialmente allontanato dalla palla il compagno di squadra Raffaele Costantino.
La partita, valida per la seconda edizione della Coppa Internazionale, trova il suo epilogo proprio pochi secondi prima del triplice fischio finale, proprio con un colpo di astuzia del campione di Senigalia, da quel momento icona dei gol segnati negli ultimi minuti di gioco.
L'equilibro creatosi prima della sua prodezza era stato garantito dai gol dei compagni Julio Libonatti ed Orsi (anch'essi oriundi) e dalla doppietta magiara di quello che Vittorio Pozzo definisce un autentico "sfondareti": Istvan Avar.



Quest'ultimo è in effetti uno degli incubi del commissario tecnico italiano, insieme alla "gazzella" Ferenc Hirzer, irresistibile attaccante ammirato anche con la maglia della Juventus.

mercoledì 5 febbraio 2020

CARLOS CASZELY IL GIOCATORE CHE SI RIBELLÒ A PINOCHET


Per chi ama le curiosità del calcio Carlos Humberto Caszely è “solo” il primo giocatore a cui venne mostrato un cartellino rosso ai Mondiali.
Per i cileni sopra i 50 anni quest'uomo con i baffoni invece è un mito. Bandiera del Colo Colo, squadra più titolata del Paese, colonna e trascinatore della Nazionale. Ma per chi l'11 settembre 1973, quarant'anni fa, viveva il golpe di Augusto Pinochet dalla parte del governo di Salvador Allende, il baffuto attaccante è stato un eroe. Ecco la sua storia.


Classe 1950, Caszely, figlio di René ferroviere di origini ungheresi, esordisce in prima squadra con il Colo Colo nel 1967. Piedi raffinati, dribbling secco e un fiuto del gol invidiabile, tanto da guadagnarsi da parte dei tifosi il soprannome di El Rey del metro cuadrado. Un campione, fuori dal cliché del calciatore senza idee. Mentre gioca nelle giovanili del Colo Colo studia al liceo e si interessa di politica. Alle elezioni del 1970 è un sostenitore di Unidad Popular, la coalizione di centrosinistra che fa capo al socialista Salvador Allende. E quando il candidato progressista viene eletto Caszely ne appoggia apertamente le politiche, anche alle consultazioni del 1973 dove la stella del Colo Colo, in quell'anno capocannoniere della Copa Libertadores, partecipa alla campagna elettorale per la rielezione di due parlamentari del Partito Comunista cileno.
Dal canto suo Allende in occasione della finale di Copa contro l'Independiente fa saltare il protocollo visitando a Buenos Aires il Colo Colo e facendosi fotografare abbracciato proprio a Caszely.


Ma il sogno del nuovo Cile di Allende finisce qualche mese dopo. E' l'11 settembre 1973 e un gruppo di militari guidati da Augusto Pinochet prende il potere, bombardando il palazzo presidenziale e trasformando lo Stadio Nazionale di Santiago in un campo di concentramento dove vengono rinchiusi e torturati molti sostenitori di Allende. Ma Carlos non c'è, in estate ha accettato l'offerta degli spagnoli del Levante e si è trasferito nella Spagna di Francisco Franco. Il suo primo impatto con la neonata dittatura è del 21 novembre, due mesi dopo il colpo di stato. All'Estadio Nacional è in programma il ritorno dello spareggio per l'accesso ai Mondiali 1974 contro l'Unione Sovietica. Una partita che non avrà mai luogo, perchè la Nazionale di Oleg Blochin si rifiuta di giocare in quell'impianto.
Un match che si trasforma in una farsa. Davanti allo stadio stracolmo la squadra cilena scende in campo senza avversari e con un copione preordinato. Al fischio d'inizio dell'arbitro, regolarmente designato, i giocatori della Roja si dovranno passare la palla e uno, il capitano Francisco Valdes segnare nella porta vuota. E così accadde. Con Valdes e Caszely, noti entrambi per le loro simpatie per Allende che per paura e con vergogna non hanno la forza di interrompere la sceneggiata.



Una vergogna che Carlos proverà a cancellare qualche mese dopo, alla vigilia della Coppa del Mondo. Pinochet vuole vedere e salutare la Roja prima del Mondiale. Durante l'incontro il dittatore saluta e stringe la mano a tutti i componenti della squadra. A tutti. Meno che a uno. Carlos Caszely che le sue mani le tiene bene intrecciate dietro la schiena, quando Pinochet si presenta da lui.
Un gesto, ripetuto ogni volta che incontrerà Pinochet che gli vale ancor di più l'etichetta del Rojo, del Rosso ma che ha anche una valenza personale. Mentre è in Spagna la DINA, la Polizia politica del regime arresta Olga Garrido, la mamma di Carlos. Per settimane è una dei molti desaparecidos della dittatura. Quando viene liberata racconta di vessazioni e torture. 
Nonostante sia considerato un sovversivo El rey del metro cuadrado in Germania per i Mondiali del 1974 ci va. Ma la sua avventura finisce dopo 67 minuti e con un mare di polemiche.
Caszely viene espulso (il primo cartellino rosso della storia) nel match d'esordio contro la Germania Ovest e su di lui piovono critiche e sbeffeggi. “Caszely espulso per violazione dei diritti umani” scrive la stampa di regime. Si è fatto espellere per non giocare contro i comunisti della DDR, aggiungono.




Il Cile esce (zero vittorie e due pareggi con Australia e Germania Est) e sono in due a pagare. Il tecnico e Caszely. L'attaccante è escluso dal nuovo selezionatore della Nazionale Caupolicán Peña .
Per cinque anni la Roja la seguirà da tifoso e il suo essere “rosso”, secondo alcuni, gli precluse una maglia prestigiosa, la bianca ma franchista del Real Madrid. 
Carlos però è troppo forte. Nel 1979, appena tornato al suo Colo Colo dopo 5 anni in Spagna Caszely viene richiamato e trascina il Cile in finale di Copa America e lo porta ai Mondiali spagnoli del 1982. Qui contro l'Austria sbaglia un rigore che di fatto elimina la sua Nazionale. E otto anni dopo volano ancora le accuse. L'ha fatto apposta, dice qualcuno. Per il Rey del metro cuadrado è in pratica la fine della sua storia con la Nazionale.
.Giocherà altri tre anni in Nazionale, con un' ultima partita e un ultimo supergol contro il Brasile. Ma con il calcio non si spegne la sua voglia di opporsi alla dittatura. E' il 1985 e Caszely, ormai un ex della Nazionale, incontra ancora Pinochet alla Moneda, il palazzo presidenziale. Si presenta e stavolta lo saluta (ma non gli stringe la mano). Ha una cravatta rossa vistosissima. “Lei porta sempre la cravatta? domanda il dittatore. “Sì, non me la tolgo mai. La porto dalla parte del cuore”. "Io gliela taglierei" è la risposta di Pinochet mimando le forbici con le dita.
Ma la vera rivincita sul dittatore l'ormai ex attaccante del Colo Colo se la prende nell'autunno 1988. Il Cile, dopo 15 anni di dittatura sta decidendo il suo futuro attraverso un referendum che dovrà dire se Pinochet dovrà rimanere ancora al potere.
Tra gli spot della campagna per il no, ce n'è uno in cui parla una signora sessantenne, racconta le torture e le vessazioni che ha subito. E alla fine della testimonianza appare lui, Carlos Caszely, El Rey del Metro Cuadrado. “Per questo il mio voto è No. Perché la sua allegria è la mia allegria. Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti. Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre”, sono le sue parole.




Il no vincerà con il 55% dei voti ma Carlos Caszely rifiuterà di entrare in politica, scegliendo di raccontare il calcio come giornalista. Il lavoro che svolge ancora oggi.




Danilo Crepaldi

sabato 1 febbraio 2020

L'HELLAS NON HA PAURA DEL MARAKANA

Lo stadio Rajko Mitić di Belgrado, generalmente conosciuto come Marakana, è uno degli ambienti dove maggiormente conta il supporto del pubblico: i Delije (Eroi) rappresentano davvero il dodicesimo uomo in campo, sostenendo i proprio giocatori ed intimorendo gli avversari senza sosta e nel modo più aggressivo possibile.
Ad avere la meglio su tale massiccia influenza è riuscito l'Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli, capace il 28 settembre 1983 di uscire vincitrice dal caldo catino balcanico per 2-3, con tre prodezze tecniche dei suoi giocatori. L'occasione è valida per il ritorno dei trentaduesimi di finale della Coppa Uefa, garantiti dal quarto posto ottenuto nel campionato precedente.
La stagione 1983/1984 vede gli Scaligeri terminare la stagione al sesto posto, raggiungendo inoltre la finale di Coppa Italia (persa con l Juventus), facendo le prime esperienze nel contesto europeo; non poco per squadra ritornata in serie A solamente nel 1982.
Dalle certezze costruite nel corso dei due anni, i gialloblu costruiranno l'ossatura per la storica vittoria dello Scudetto 1984/1985, grazie in primis ad un gruppo coeso ed in cerca di rivincite: imprese come quella di Belgrado la dicono lunga sul valore dello stesso e sulle capacità tecniche dei relativi giocatori.



Nella gara di andata la formazione veronese si era imposta per 1-0, grazie ad un rigore messo a segno da Piero Fanna e concesso per un fallo su Giuseppe "Nanu" Galderisi, piccolo e tecnico centravanti appena arrivato dalla Juventus, nella quale era esploso come un autentico enfant prodige.