sabato 3 novembre 2018

RINAT DASAEV LA CORTINA DI FERRO DELL'UNIONE SOVIETICA

Quando venne al mondo, aveva quattro lettere cucite sul petto. Cccp. Aveva guanti bianchi e viola. Era alto ed era magro. Il più bello di tutti, ai mondiali ’82. Più del bellissimo Cabrini, scrisse il settimanale femminile Cambio 16.
 
 
Quelluomo, si chiamava Rinat Dasaev, e di mestiere faceva il portiere. Un giorno il partito lo chiama e li impone di essere un simbolo. Com’era stato Yashin. Un uomo e un popolo, insieme perfetti. Anche per quello aveva sposato Nela, un tempo ginnasta. Si erano conosciuti in ospedale, dove tutt’e due erano finiti, ricoverati per un infortunio.

Bella storia, compagni, socialisti e vincenti e L’Urss si rispecchiava narcisamente in loro. Prima di essere sovietico, Rinat era un tartaro. Nato ad Astrachan, la città che Tamerlano rase al suolo. Quando il mondo si accorse di lui ai Mondiali di Spagna, aveva già vinto il bronzo alle Olimpiadi, sovietiche di Mosca, due anni prima.
La sua prima partita ai Mondiali, contro il Brasile, 2 a 1 per loro, fu un lungo assedio dopo il vantaggio dell'URSS con le sue parate a fece da scudo opponendosi valorosamente ai tiri di Falcao, Cerezo, Junior, Socrates e Zico, ma non bastò e il Brasile riuscì a portare a casa l'incontro, ma Rinat fu eroico.
 Fu, perfetto in campo al mondiale ’82. Perfetto per altri sei anni. In occidente lo chiamavano Cortina d’acciaio, i soliti giochi di parole sull’Unione sovietica. Il migliore portiere del mondo, così dicevano tutti. Il suo Spartak Mosca giocava come in un incanto. Piccoli passaggi, calciatori che si scambiavano il ruolo. Una via di mezzo fra l’Ajax di un tempo e il Barcellona di oggi.
Le sfide con la Dinamo Kiev erano fantastiche. Qualsiasi partita contro di loro era come se fosse l’ultima, era come vincere la coppa del mondo. Nel 1979 dopo aver battuto la Dinamo Kiev Dassaev e i suoi compagni fecero festa un mese intero. Ne valeva la pena.
Diventò il migliore nonostante quella strana parata a gancio, col braccio incrociato, andava spesso a prendere la palla con la mano più lontana, non quella esterna. Come in Italia faceva Tancredi forse il più grande portiere della Roma di tutti i tempi.
Poi arriva il 1988. L’Urss elimina l’Italia e gioca la finale dell’europeo contro l’Olanda.
 
 
E’ il giorno in cui Marco Van Basten si inventa un gol che non si dimentica. Ecco. Quel gol l’ha subito lui. Bravo Van Basten. E però. Quello è il giorno in cui sollevò il braccio, tende la mano e scopre di non farcela più. Era un segno anche quello, era l’Unione Sovietica che non ce la faceva più. Glasnost e perestrojka. Gorbaciov.
Il Comitato Centrale del Partito Comunista decise l’introduzione di un sindacato giocatori, i presidenti dei club di prima divisione chiesero la formazione di una Lega professionistica e una riforma. Era la prima volta che il Comitato Centrale si occupava di calcio. “Abbiamo bisogno di più democrazia. Dobbiamo liberare lo sport dal monopolismo dell’apparato e lasciare lo sport agli sportivi”, disse Ligaciov, il numero due del Pcus ed invece di consegnarlo agli sportivi lo lasciò ad una banda di gangster pieni di soldi sporchi.
Una prima forma di professionismo era stata introdotta l’anno prima a Dnepropetrovsk, oggi Ucraina: il Dnipro decise di mettere sotto contratto i giocatori e di autofinanziarsi con gli incassi. Per i calciatori significava via libera, professionisti, si poteva finalmente uscire dal Paese.
Sul punto Rinat si era espresso in pubblico molto chiaramente. Non solo auspicava la possibilità di andare a giocare nel resto d’Europa per guadagnare quello che l’Urss non poteva garantirci, ma sperava anche nell’arrivo di qualche tecnico straniero, sperava che qualcuno portasse idee nuove nel calcio sovietico.
Il Siviglia versò 180 milioni di pesetas al Cremlino e 150mila a lui. Era libero di andare a prendere una barca di gol in Spagna.
 
 
Furono anni tremendi. Quando arrivò a Siviglia aveva 31 anni, ma si sentiva un ragazzino. Non nel fisico, dico nella testa. Non riusciva a spiegare ai compagni cosa volesse, forse non lo sapeva neanche lui. Perse anche il mio posto in nazionale.
Nel ’90, al mondiale italiano, non avrebbero voluto portarlo. Lobanovski pensava di escludere tutti quelli che se ne erano andati. Non era una cosa che riguardava solo lui. Piano piano lo stesso atteggiamento coinvolse Zavarov, Aleinikov e Khidiatullin. Lobanovski sapeva che erano abituati ad allenarsi in modo diverso, che la loro concezione del calcio era cambiata. Perciò emarginò tutti quelli che non aveva plasmato di persona nella Dinamo Kiev. Passò per un traditore, con Lobanovski non si sono parlati per dieci anni. Senza aver litigato.
A Siviglia finì per essere il quarto straniero quando in campo potevano andarne tre. La tentazione di tornare indietro, ogni tanto, si affacciava. Ma indietro non c’era più nulla. Il Rinat sovietico non esisteva più. L'URSS non c'era più, il sogno e l'ideale socialista sostituito dalla pazzia ed amoralità capitalista C’era solo più il Rinat tartaro.
Un giorno finisce con l’auto fuori strada e si rompe una mano. Quella che un tempo faceva miracoli dentro guanti bianchi e viola. Il Siviglia voleva mandarlo in Svizzera. Avevano scoperto che dietro l’incidente c’erano delle bottiglie d’alcol. Ma Rinat si oppose. Al trasferimento, non all’alcol. E finì una seconda volta con la macchina contro un muro. Sua moglie non ce la faceva più. Chiese il divorzio, portò con sé pure la bambina, lo lasciò con un mucchio di casse di bottiglie. E lui le svuotava, le svuotavo tutte. Una dietro l’altra.
Ha aperto un negozio di articoli sportivi, all’inizio andava bene, ma non era fatto per gli affari e per il mondo capitalista. La sua vita era il calcio.
Quando il negozio fallì, è sparito per anni. La Pravda lo rintracciò, i giornalisti scoprirono che viveva in uno stato di indigenza che nessuno sospettava. Allora si decise a tornare in Russia, almeno lì era ancora Dasaev. Gli amici lo chiamavano e giuravano che era cambiato tutto.
Era davvero cambiato tutto, tornò e scopri di non capirci niente. Quando esisteva l’Urss, almeno, era un privilegiato e tutti avevano un'occupazione ed una dignità ora non c'era più niente solo povertà e prepotenza.
Non si guadagnava chissà quanto, ma tutti potevano godersi la vita, ma dopo l’Urss no, era tagliato fuori dal benessere come tanti altri. Un pensiero oggi lo tormenta. Se fosse tornato prima in Russia, non avrebbe smesso a 35 anni. Avrebbe potuto continuare fino a 38 o come Zoff fino a 40.
Un vecchio amico dello Spartak Mosca lo ha riportato nel calcio. Ha capito che poteva stare in piedi solo se li lanciavano addosso un pallone. Allungava le mani e parava.
 
 
Adesso insegna ai ragazzini come si fa, loro tornano a casa e dicono che Dasaev è un bravo maestro. Questo voleva per se una vita semplice che il capitalismo gli ha tolto. questa per lui era la felicità.
 
 
Danilo Crepaldi

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