venerdì 28 novembre 2014

THE OTHER FINAL

Chi di noi si ricorda cosa stava facendo il 30 giugno 2002? A meno che qualcuno non si sia sposato, abbia avuto un figlio o abbia compiuto gli anni, nessuno sa rispondere con precisione cosa stava facendo quel giorno. Ma poi perché proprio quel giorno? Molto semplice; era in programma la finale dei mondiali tra Brasile e Germania, dove, una doppietta di Ronaldo, consegnò al popolo Carioca il 5° titolo mondiale. Adesso sì che forse ci ricordiamo cosa stavamo facendo.
Quel giorno però, era in programma anche un'altra partita, molto probabilmente seguita solo dai 20.000 presenti allo stadio. Quella partita era Bhutan-Montserrat, meglio conosciuta come "The other final"


Ma perché proprio Bhutan e Montserrat? La risposta è molto semplice: se in quel momento Brasile e Germania erano considerate ed avevano dimostrato di essere le prime due forze, il piccolo stato ai piedi dell'Himalaya e la piccola isola dei Caraibi altro non erano che le ultime due nazionali del ranking FIFA.
L'idea di far disputare questa partita fu di Johan Kramer, un giornalista olandese che nel vedere la propria nazionale fuori dalla rassegna nippo-coreana, decise di produrre un documentario proprio sulle piccole nazionali; un'idea alquanto bizzarra ma che aveva raccolto molti consensi sia a livello globale che dei singoli paesi.
Il Bhutan è un piccolo stato facente parte della catena dell'Himalaya, conta circa 700.000 abitanti e la sua particolarità è quella di avere una tassa di soggiorno molto alta che tiene lontano un qualsiasi turista a meno che non sia ricco sfondato.
Montserrat è invece una piccola isola dei Caraibi di circa 100 chilometri quadrati che le qualificazioni ai mondiali le abbandona abbastanza presto; nonostante sia sconosciuta a molti di noi, sull'isola erano presenti vari studi musicali di proprietà di George Martin, il produttore dei Beatles. Negli anni d'oro sbarcarono a Montserrat i Duran Duran, i Police e tanti altri gruppi per registrare le proprie canzoni.


Il teatro di questa particolare sfida era lo stadio Changlimithang di Thimphu, capitale del Bhutan che per l'occasione vide arrivare circa 20.000 persone con la nazione ospite che ci mise quasi una settimana per arrivare, bloccata dalle forti piogge cadute sull'India che hanno fermato diversi voli.
Si decise di giocare senza alcuno sponsor, né sulle magliette, né sugli spalti, né tanto meno sul pallone proprio in contrapposizione alla finale mondiale che guarda caso metteva di fronte due colossi come Nike ed Adidas.
Arbitro della sfida Steve Bennett, uno abituato ad arbitrare le più grandi sfide della Premier League e che a fine gara dirà: "E' stata una bella partita, in Inghilterra sarebbe un livello da lega dilettanti, ma è stato entusiasmante".
Le difficoltà climatiche hanno di certo penalizzato gli ospiti, non abituati ai 2.300 metri di altitudine ed a corto di ossigeno già dopo una mezz'ora di gioco. La partita si risolse con un netto 4-0 a favore del Bhutan grazie alla tripletta del capitano Wangyel Dorji.
In un clima assolutamente amichevole ma di grande competizione i piccolo himalayani portano a casa il trofeo ed il primo ministro Wangchuk, preso dall'entusiasmo, proclamò un giorno di festa per le scuole.


Tra preghiere scaramantiche, visite ai templi, interventi ai limiti del cartellino rosso ed un cane sul terreno di gioco, è andato in scena un vero spot per il calcio, formato da due nazionali che non sapevano dell'esistenza reciproca dell'altra ed entrambe formate da giocatori non professionisti (il portiere di Montserrat, Cecil Lake, era impegnato nell'edilizia popolare).
Nelle parole di Roberto Baggio tutta l'umiltà di questo grande evento: "In un momento dove il calcio è commercializzato, questo è stato un progetto molto semplice che ha messo al primo posto l'amore per il gioco. E' stato capace di dimostrarci che il calcio è una lingua che tutti possono parlare".
Il documentario di Kramer è stato poi premiato al Film festival di Avignone nel 2003, a conferma che anche il calcio può regalare veri momenti di condivisione sociale.


Matteo Maggio

lunedì 24 novembre 2014

UN'INCOMPIUTA SORPRESA

Più volte ci siamo occupati di piccole rappresentative nazionali che si sono rese protagoniste di grandi tornei, con specifico riferimento alla Coppa del Mondo.
Il termine “piccole” non fa riferimento solamente alla dimensione del paese in questione, ma soprattutto al livello calcistico che tali squadre hanno solitamente espresso nella loro storia sportiva.
Ancora più nel dettaglio le analisi vertono maggiormente sul continente africano, terra che negli anni recenti ha visto le proprie squadre salire di livello, con le relative nazionali che hanno saputo fornire grandi prestazioni e giocare qualche brutto scherzo anche a blasonate compagini.
Una in particolare, nel 1994, ha davvero impressionato per doti tecniche e per il livello di gioco espresso durante il Mondiale americano.
Scopo di questo articolo è quello di mettere in evidenza come la Nigeria possa essere vista come una delle migliori squadre al suddetto torneo, puntando l’attenzione sui singoli protagonisti, mettendone in luce la carriera e qualche aspetto particolare.
Ovviamente tutti abbiamo negli occhi  la precisa traiettoria con la quale Roberto Baggio ha rimesso in sesto la nazionale di Sacchi negli ottavi di finale, quando gli azzurri avevano ormai più di un piede sull’aereo di ritorno. Successivamente un rigore dello stesso “Divin Codino” nei supplementari ha posto fine all’avventura dei ragazzi di Clemens Westerhof.
Tuttavia occorre dare merito al tecnico olandese di aver costruito una grande nazionale, che avrebbe davvero potuto portate il calcio africano a livelli mai raggiunti.


La compagine dell’Africa occidentale si presenta negli Usa con il titolo di Campione d’Africa conquistato nell'aprile dello stesso anno e con la nomea di migliore delle squadre africane presenti al Mondiale. 
Proprio durante la rassegna continentale, le “Super Aquile” si pongono all’attenzione internazionale per un'interpretazione tattica particolare e per l’esplosione di un gruppo di talenti davvero notevoli.
A sorprendere maggiormente più di un osservatore è la sicurezza e la sfrontatezza con la quale la Nigeria si disimpegna sul campo, tenuta in considerazione la giovanissima età della selezione; alcuni dei protagonisti sono poco più che ventenni e sono comunque alla prime esperienze in contesti globali.
Capacità atletiche fuori dal comune ed un pizzico di follia sono gli ingredienti aggiuntivi di una squadra che sembra poter fare qualsiasi cosa sul terreno di gioco.
Tali grandi qualità li portano a volte ad esagerare, magari a guardarsi un po' allo specchio, mancando di tanto in tanto di quella razionalità decisiva per il salto di qualità.
Rispetto alla vittorioso torneo africano, Westerhof cambia solamente tre giocatori (Semitoje, Ugbade ed Ederma), dando fiducia a forze nuovi quali Emeka Ezeugo, Michael Emenalo e Chidi Nwanu.
Queste ultime scelte non cambiano più di tanto le preferenze a livello di singoli, lasciando inalterato l'ottimo connubio tra qualità degli interpreti e le intuizioni tecniche del tecnico di Beek.


A prima vista lo schieramento in questione sembra esageratamente sbilanciato, ma quando tutto funziona al meglio la corsa instancabile dei giocatori africani sopperisce ad un'impostazione tattica volutamente offensiva.
La Nigeria gioca a tutta velocità, sfruttando al meglio la tecnica elevata presente sulla trequarti, per innescare al meglio l'unica punta, che a sua volta apre spazi invitanti per gli inserimenti dei compagni, tutti abili nel tramutare in rete tali opportunità
Tra i pali troviamo uno dei giocatori più esperti e non per caso capitano della rappresentativa, Peter Rufai. Principe ereditario di una tribù Idimu, ha da subito rinunciato alla successione nobiliare a favore del calcio, avendo esperienza iniziali in Benin, per poi approdare al calcio europeo nel 1989. All'epoca del Mondiale gioca nei Go Ahead Eagles, squadra che abbandona dopo un anno per approdare a compagini spagnole e portoghesi.
Si dimostra portiere dai grandi mezzi fisici, riuscendo a fare tesoro dell'esperienza europea per affinare la tecnica tra i pali.
Westerhof imposta la fase difensiva con una difesa a 4 composta da giocatori dal fisico prestante, che fanno della potenza la dote migliore.
I due centrali sono insuperabili sulle palle alte e, nonostante le corporatura, si dimostrano sufficientemente dinamici. Gli esterni assicurano un notevole appoggio alla fase di costruzione del gioco e presidiano le relative corsie con impeto e buona attenzione.
La possibilità di approdare in Europa in giovane età ha permesso ai difensori nigeriani di limare le imperfezioni a livello tattico e di assimilare quella mentalità e quella concentrazione che talvolta notiamo latenti nei difensori di origine africana.
Uche Okechukwu in particolare diventa una delle bandiere del Fenerbahce, per il quale gioca quasi 200 partite in campionato, vincendo due titoli nazionali. Durante le sua permanenza ad Istanbul ottiene anche la cittadinanza turca, con il nome di Deniz Uygar.
Augustine Eguavoen, si rende suo malgrado protagonista del fallo da rigore su Benarrivo che determina l'eliminazione della Nigeria dal Mondiale. Per tale fatto viene pesantemente criticato in patria ed additato come colpevole dell'eliminazione. Anche per lui l'esperienza europea si dimostra profiqua, specie con la maglia dei belgi del Kortrijk.
Come anticipato il calcio del vecchio continente diventa palcoscenico anche per Stephen Keshi e Michael Emenalo, con quest'ultimo che si ritaglia esperienze anche negli Stati Uniti e nel campionato israeliano.
Valide alternative ai citati giocatori sono Chidi Nwanu e Benedict Iroha, proposti anche come titolari durante la rassegna statunitense.
Il reparto di centrocampo ha come ago della bilancia la presenza o meno di uno dei giocatori tecnicamente più dotati della storia del calcio, Jay-Jay Okocha (vero nome Augustine Azuka).
Quest'ultimo è un vero e proprio freestyler prestato al calcio, capace di numeri tecnici incredibili, caratterizzati da una dribbling efficacissimo e da un controllo di palla da vero fuoriclasse.


Come molte volte succede, certi giocatori non hanno la necessaria continuità e mentalità, soprattutto in giovane età: all'epoca Okocha ha solo 19 anni e viene impiegato solo a partita in corso, salvo l'ultimo impegno contro l'Italia, dove parte titolare.
Non perde mai una certa avversione al sacrificio ed al gioco di squadra, che non gli permette di cogliere la miglior opportunità della sua carriera: nel 2002 crede in lui Alex Ferguson, ma il giocatore nigeriano non scende mai in campo con il Manchester United, finendo ben presto in prestito al Bolton.
In precedenza si mette in mostra con le maglie di PSG, Eintracht di Francoforte e Fenerbahce, squadra dove mette in mostra maggiormente il suo enorme talento.
Quando Okocha non gioca il commissario tecnico predilige inserire o un giocatore offensivo come Samson Siasa oppure un secondo mediano come Mutiu Adepoju. La scelta dipende dal tipo di partita, ma la preferenza va quasi sempre su Siasa, brillante jolly offensivo che in Europa non riesce a dimostrare in pieno il proprio talento.
Nello schema precedente notiamo che l'unico centrocampista centrale è Sunday Oliseh, mediano ancora non ventenne nel 1994.


Reduce da una sfortunata esperienza in Italia con la Reggiana, culminata con la retrocessione, è uno dei centrali di centrocampo maggiormente di prospettiva del periodo, sapendo coniugare prestanza fisica a qualità tecniche, con insospettabile sapienza tattica.
Dopo un positivo mondiale si conferma ad alti livelli con la maglia di Colonia e Ajax, prima di avere una seconda chance in Italia, con la maglia della Juventus, sicura di acquisire le prestazioni di uno dei migliori centrocampisti del calcio europeo
In questo caso alcune divergenze tattiche lo mettono ai margini della squadra, con la quale scende in campo solo 8 volte. Dopo una stagione approda al Borussia Dortmund dove ritorna ad apprezzabili, vincendo anche un campionat.
Sulla destra troviamo un altro grande talento, Finidi George, insolitamente conosciuto ai più proprio con il nome di battesimo.


Ala di 190 centimetri è dotato di grande falcata che lo rende in grado di superare con facilità l'esterno avversario.
Dimostra inoltre una grande capacità di puntare la porta avversaria ed un ottimo tempismo negli inseriementi.
Nonostante il fisico è temibilissmo anche negli spazi stretti e nel 1994 è in assoluto uno degli esterni più forti a livello mondiale.
Tali qualità le affina maggiormente nelle file dell'Ajax, dove vince da protagonista anche la Champions League 1994/1995.
Nel 1996 viene attratto dalle pesetas del Betis Siviglia, dove continua a dimostrare la sua abilità, ma in un contesto meno rilevante rispetto agli anni precedenti.
Arrivati a questo punto dello scacchiere tattico troviamo un elemento che rappresenta un fondamentale collante tra la traquarti ed il reparto offensivo, vale a dire Emmanuel Amunike, calciatore africano dell'anno nel 1994.
Tale riconoscimento gli spetta sia per la decisiva doppietta nella finale di Coppa d'Africa contro lo Zambia, sia per un Mondiale giocato da protagonista.
Nella sfida con l'Italia è lui a realizzare la rete del momentaneo vantaggio nigeriano, dimostrando ancora una volta la sua notevole prontezza negli inserimenti.
In tutta la carriera si dimostra abile a svariare su tutto il fronte offensivo, dimostrando tecnica elevata ed un buon feeling con il gol.


Il suo grande limite è rappresentato dai continui problemi al ginocchio che ne limitano anche l'esperienza al Barcellona, per il quale gioca solo 19 partite in tre anni.
La chiamata nel club blaugrana arriva grazie a quanto fatto nello Sporting Lisbona, dove diventa un idolo dei tifosi locali.
L'impostazione del tecnico olandese prevede la presenza di un esterno sinistro particolarmente avanzato, abile a giocare come seconda punta o ad abbassarsi come esterno alto.
La scelta per tale ruolo ricade su Daniel Amokachi, giocatore esplosivo dotato di grande corsa e di un sinistro potente.
La sua crescita calcistica avviene in Belgio, dove si mette in luce nel Bruges con il quale vince un campionato e segna il primo storico gol della neonata Champions League nel 1992.
Anche per lui il positivo Mondiale funge da ottima vetrina, tanto da venire ingaggiato dall'Everton prima e dal Besiktas dopo. Con entrambe le compagini vince la coppa nazionale ed in particolare nella Coppa d'Inghilterra si rivela decisivo in semifinale con una doppietta al Tottenham.
Vari problemi fisici ne minamo più volte l'attività, tanto che dal 1999 fatica a trovare ingaggi a causa di essi.
Talvolta le scelte di Westerhof portano all'impiego di Viktor Ikpeba, classica seconda punta dotata di buono spunto e notevole tecnica, che con la maglia del Monaco conquista da protagonista il campionato nel 1997 prima di perdersi tra diversi infortuni.
Terminale offensivo della squadra è Rashidi Yekini, 190 centimetri di potenza uniti ad un notevole senso del gol.

Molto stimato in patria, vince per due volte il titolo di capocannoniere della Coppa d'Africa (1992 e 1994) ed il Pallone d'oro africano nel 1993. Con le sue 37 realizzazioni con le Super Aquile è ancora il maggior realizzatore di sempre, ritagliandosi uno spazio considerevole nella storia della sia nazionale.
Fino al 1994 gioca per il Vitoria Setubal dove segna ben 90 gol in 108 partite di campionato, segnalandosi dopo il Mondiale come uno dei profili offensivi più interessanti d'Europa.
Su di lui scommette l'Olympiakos, dove però si palesano per Yekini alcuni problemi fisici che non gli permettono di rendere al meglio anche nelle numerose esperienze successive.
Affetto da problemi neurologici e da bipolarismo, muore nel 2012 a soli 48 anni, venendo ricordato con grande commozione dai tifosi nigeriani.
Al termine di questa analisi ci accorgiamo di come la Nigeria del 1994 sia una squadra di grande livello, uscita dal Mondiale in modo anche episodico e solo in parte a causa dell' inesperienza.
A livello assoluto la maggior parte dei giocatori avrebbe potuto avere ben altra carriera, se non fossero stati limitati da personalità difficili, corsa ai facili guadagni e da persistenti problemi di natura fisica.
Non sembra azzardato asserire che alcuni di essi possano essere inseriti tra i migliori giocatori del periodo, tenuto conto di quanto dimostrato in campo e considerato l'interesse che anche i migliori club europei hanno dimostrato nel loro confronti.
La nazionale nigeriana vincerà il titolo olimpico nel 1996 con 6 reduci del Mondiale di due anni prima ed uscirà dal Mondiale del 1998 sempre agli ottavi, ma la generazione che ha fatto sognare nel 1994 sembra davvero di un altro livello.
Un'incompiuta sorpresa sicuramente, ma che ci ha fatto divertire!!!


Giovanni Fasani

venerdì 21 novembre 2014

ALLA FACCIA DEL WEEKEND

Come avrete sicuramente notato il nostro blog tratta sempre argomenti del calcio passato, fatto salvo per qualche eccezione nei nostri primi articoli, dove il Sivasspor (sgonfiatosi con l'andare del tempo) ed il Pallone d'Oro erano argomenti d'attualità.
Per questo nuovo capitolo, facciamo un'altra eccezione ed andremo a parlare di una serie di partite, racchiuse in un weekend, che passeranno alla storia del calcio; senza mettere le mani avanti saranno partite che finiranno nel dimenticatoio nel giro di qualche mese (ad essere ottimisti). Proviamo quindi oggi ad anticipare la storia.
Ho sempre pensato che nel calcio ogni squadra, giocatore, allenatore e qualsivoglia addetto ai lavori, abbia il proprio obiettivo, rappresentato da un trofeo o da una semplice salvezza ottenuta magari all'ultimo minuto dell'ultima partita. Francamente trovo abbastanza fuori luogo quando un arbitro che dirige male una partita debba "essere mandato nelle categorie minori", cosicché il calcio "dei grandi" possa andare avanti senza particolari intoppi. Ma trovate giusto che se un arbitro è scarso debba andare ad arbitrare campionati non di primo piano? Io lo trovo ingiusto, ma è una semplice opinione personale.
Vi starete anche chiedendo come mai mi sono soffermato su questo argomento; la risposta è molto semplice: in questo pezzo andremo a parlare di 5 nazionali che nell'ultimo weekend hanno ottenuto qualcosa di importante pur sapendo che l'obiettivo finale sia praticamente irraggiungibile. Ciò che hanno regalato le compagini di Gibilterra, San Marino, Malta, Liechtenstein e Far Oer nella tre giorni del 14-15-16 novembre, valevole per le qualificazioni all'Europeo di Francia 2016, ha davvero dell'incredibile.



GIBILTERRA


Nello stesso weekend in questione era in programma a Genova l'amichevole rugbystica tra Italia ed Argentina con in secondi che si sono imposti per 20-18. Molti giornalisti si sono prodigati in commenti del tipo "una sconfitta onorevole", ma Martin Castrogiovanni, decano della nazionale italiana (di origine argentina), ha prontamente ribadito dicendo che a lui le sconfitte onorevoli non piacciono. Probabilmente tutti i torti non li ha.
Ma quando di fronte si trovano la squadra campione del mondo ed una nazionale inserita ufficialmente nella UEFA il 23 maggio 2013, probabilmente anche una sconfitta onorevole non può che far piacere alla nazionale che la subisce.
La piccola nazionale biancorossa arrivava da tre sconfitte consecutive con ben 17 gol al passivo, di cui 7 presi da Polonia ed Irlanda e 3 dalla Georgia. Le azioni offensive di Gibilterra si contavano sulla punta delle dita; ed un gol l'avrebbero anche fatto (alla Georgia) se l'arbitro austriaco Lechner non avesse annullato il regolare gol segnato da Joseph Chipolina, 27enne centrocampista del Lincoln Red Imps, squadra che ha partecipato ai preliminari della Champions League ed eliminata al primo turno dal HB Torshavn, compagine delle Far Oer.
Le due gare casalinghe sono state disputate all'Estadio Algarve di Faro (Portogallo) visto che nessun impianto di Gibilterra è in linea con le regole UEFA.
E così non stento a credere che più di un tremolio dev'essere corso lungo la schiena della squadra allenata da Allen Bula quando ha imboccato il tunnel dello Grundig Stadion di Norimberga, al fianco della nazionale campione del mondo, un vero e proprio Davide contro Golia.
Il 4-0 finale costa qualche mugugno tra il pubblico di casa ed una grossa soddisfazione tra le file di Chipolina e compagni, scesi in campo con un più che prudente 5-4-1.



SAN MARINO


Può uno 0-0 passare alla storia del calcio? Sì può, eccome se può. Succede domenica 15 novembre allo stadio di Serravalle. Siamo nella piccola San Marino, 61 chilometri quadrati di paese col Monte Titano a vegliare sui suoi abitanti.
In campo Simoncini (portiere, autentico eroe di serata) e compagnia si scontrano con l'Estonia, reduce dalla bella vittoria in amichevole contro la Norvegia. Una partita che parrebbe già scritta, con la nazionale estone che pregusta già la vittoria nella partita numero 400 della sua storia. Ma la serata andrà in tutt'altro modo; i baltici dominano la gara ma sbattono più volte sulle parate di Simoncini e sul muro eretto dalla difesa sammarinese. Lo 0-0 finale regala il primo storico punto nella qualificazioni ad un campionato europeo, mettendo per altro fine ad un filotto di ben 61 sconfitte consecutive.
I giocatori sammarinesi sono tutti semiprofessionisti, durante il giorno lavorano in altri settori ed il tempo per amalgamarsi sul campo è sempre poco; ma ultimamente qualcosina è cambiato nella testa della nazionale del Monte Titano dove sono stati intensificati gli allenamenti a discapito di qualche ora passata in meno con le famiglie.
Un sacrificio che ha pagato e che ha regalato questo storico risultato, bissando quanto fatto nel marzo del 1993, quando la Turchia non andò oltre lo 0-0 in una gara valevole per le qualificazioni al mondiale americano.
Commovente poi la dedica a Federico Crescentini, ex giocatore della nazionale tragicamente scomparso 8 anni fa in Messico.
Il prossimo passo sarà quello di infilare un gol nella porta avversaria, sfruttando magari meglio le occasioni comunque create nel match in questione.



MALTA


Che qualcosa stava cambiando a Malta era probabilmente nell'aria. Pur nella mediocrità che sta passando il calcio italiano, gli azzurri non erano andati oltre uno striminzito 1-0 al Ta'Qali con la nazionale crociata in 10 già dal primo tempo.
Prima di quella sfida i maltesi erano andati al Maksimir di Zagabria resistendo un tempo alla fortissima Croazia ed ottenendo uno 0-2 finale che la dice lunga sulla seppur flebile crescita del calcio maltese degli ultimi tempi.
A Malta il campionato è pressoché dominato, negli ultimi anni, dal Valletta (ne abbiamo parlato qualche articolo fa) e dal Birkirkara, due squadre mai andate oltre il secondo turno della Champions League, il più delle volte prendendo delle imbarcate anche abbastanza imbarazzanti.
Il 12 ottobre 2005 il gol di Barbara aveva regalato uno storico punto alla nazionale maltese. Tale segnatura pareggiò quella di Yankov che aveva portato in vantaggio la Bulgaria. Già, la Bulgaria, quella nazionale che lo scorso 16 novembre non è andata oltre lo stesso medesimo risultato, questa volta tra le mura amiche, lo stadio Vasil Levski di Sofia.
Dopo appena 6 minuti il gol dell'avellinese Andrej Galabinov aveva portato avanti i Leoni dando speranza ad una serata da goleada assoluta e che per altro sarebbe stata molto utile per il proseguio nella manifestazione visto che anche le terze classificate hanno chance di andare in Francia.
Invece la squadra dell'italiano Pietro Ghedin non si è disunita e ha ottenuto il pareggio ad inizio ripresa grazie al rigore trasformato da Clayton Failla, centrocampista da 24 gol in 54 partite con la maglia dell'Hibernians.



LIECHTENSTEIN


Se qualcuno avesse detto al piccolo Liechtenstein che dopo quattro gare di qualificazione sarebbe stato ad un solo punto dalla Russia, probabilmente tutti si sarebbero fatti una sonora risata, complice proprio la sconfitta 4-0 all'Arena Khimki dell'8 settembre. Quel giorno due sfortunate autoreti ed un rigore spianarono la strada alla squadra di Capello che vinse nettamente la partita. Autore della seconda autorete fu Franz Burgmeier, centrocampista 32enne in forza al Vaduz, squadra del Liechtenstein ma che milita attualmente nella massima divisione svizzera.
E proprio Burgmeier ha regalato la prima vittoria esterna nelle qualificazioni europee del nuovo millennio; ben inteso, l'avversario era la modesta Moldova ma è pur sempre avversario solitamente superiore ai Blue-Reds.
Come dicevo pocanzi, il Liechtenstein si trova ad una sola lunghezza dalla Russia attualmente terza ed a 2 punti dalla Svezia seconda; con entrambe dovrà giocare al Rheinpark di Vaduz e chissà... Sognare in fondo non costa nulla.
Ah dimenticavo; è ancora in attività un certo Mario Frick, attaccante visto in Italia con Arezzo, Verona, Ternana e Siena; è il recordman di presenze in nazionale (116) e talvolta gioca in posizione arretrata rispetto alla sua naturale, quella di finalizzatore e rifinitore.



FAR OER


Il risultato più sorprendente è forse quello che arriva dal Karaiskakis di Atene dove la Grecia di Claudio Ranieri deve perire per mano delle Isole Far Oer, altra nazionale poco avvezza alle vittorie, figuriamoci quindi a quelle esterne per di più contro una delle prime 16 squadre al mondo (per lo meno per quanto visto al mondiale brasiliano).
Qualcuno potrà pensare ad una Grecia-bis, invece Ranieri dovrà solo fare a meno di Mitroglu, spedendo in campo ben 6 giocatori militanti nel campionato italiano (il portiere Karnezis, i difensori Manolas, Torosidis e Moras più i centrocampisti Kone e Christodoulopoulos). Anche qui non c'è partita ed invece il team allenato dal danese Lars Olsen gioca un brutto scherzo che costerà la panchina al tecnico italiano.
Il gol di Joan Edmundsson al quarto d'ora della ripresa non è che la naturale conseguenza di una partita giocata ampiamente meglio dalle Far Oer. Prima del gol dell'attaccante 23enne erano state colpite due traverse con Brandur Olsen e Frodi Benjaminsen.
Edmundsson milita nel HB Torshavn e nel campionato terminato un mese fa ha realizzato 7 gol in 15 partite che però non hanno evitato il secondo posto finale.
Le Far Oer sono in un girone complicato dove la Romania sembra farla da padrone, lasciando a Finlandia, Ungheria, Irlanda del Nord e Grecia (ora ultima) la bagarre qualificazione, ma chissà mai che anche la piccola nazionale non possa dar fastidio.
Di certo qualcosa è cambiato anche a queste latitudini e se le Far Oer vorranno seguire (con le dovute proporzioni) l'esempio dell'Islanda, si potranno togliere in futuro altre bellissime soddisfazioni. Nel frattempo può partire la festa.



Sperando che queste imprese non vengano dimenticate, provate a trovare un'altro weekend del genere. 
Come si dice in questi casi, un weekend da raccontare ai nipoti, quei nipoti che forse un giorno vedranno una di queste nazionali lottare per un posto nelle manifestazioni più importanti.


Matteo Maggio

martedì 18 novembre 2014

CARLO BIGATTO

Come più volte sancito, la eterogeneità del calcio è visibile anche nelle differenti tipologie di personaggi che tale sport ci propone, tante volte perfettamente connesse al periodo storico considerato.
Più andiamo indietro nel tempo e più possiamo fare la conoscenza di calciatori davvero molto diversi dagli standard attuali, con specificato riferimento all'immagine che gli stessi offrivano.
La fase pionieristica del nostro amato sport mostra una realtà completamente diversa rispetto al calcio ultra tecnologico dei nostri giorni: ai tempi lo spirito era davvero amatoriale e non vi era tempo e denaro per dare agli atleti una preparazione fisica appena paragonabile all'attuale. 
Quando guardiamo le rare immagine dei tempi ci meravigliamo quindi dei ritmi bassi, delle giocate incomprensibili ed anche di un abbigliamento sportivo evidentemente non ancora fornito dalle grandi multinazionali del settore. 
In estrema sintesi potremmo affermare che all'inizio del 1900 si giocava uno sport estremamente diverso da quello che vediamo ora. Ed in modo più drastico potremmo dire che in tale epoca "embrionale" si giocasse a tutti gli effetti un altro sport.
Alla luce di queste precisazioni, perché interessarsi a tale periodo?
La risposta la possiamo trovare in personaggi come Carlo Bigatto, straordinario calciatore sul campo ed autentico simbolo del calcio italiano nei primi decenni del XX secolo.


Dalla foto precedente notiamo subito un aspetto che lo rende riconoscibile e particolare ai nostri occhi: durante tutta la carriera Bigatto gioca con un particolare copricapo con tanto di paraorecchie, che non gli crea nessun tipo di problema anche durante le fasi più combattute della carriera. Solo saltuariamente decide di indossare una fascia in luogo del suddetto berretto bianconero.
I colori dello stesso rimandano alla Juventus, squadra per la quale gioca dal 1913 al 1931, partecipando da protagonista ai primi campionati della "Signora".
La sua esperienza nella compagine di Torino è però interrotta della Prima Guerra Mondiale, al quale il calciatore partecipa arruolandosi nella Brigata Fanteria di Pinerolo.
La sosta forzata per il conflitto bellico ha degli effetti importanti anche sul suo ruolo in campo: dove essere cresciuto come centravanti, al suo ritorno dal fronte viene impostato come centrocampista, posizione che gli consente di imporsi con tutto il suo talento.
A tal proposito siamo di fronte ad un giocatore completissimo, dotato di buona tecnica, ma anche di una grande spirito battagliero.
Le cronache dell'epoca lo descrivono abilissimo con il pallone tra i piedi, dimostrandosi in possesso di un dribbling secco ed efficace, con il quale trascina le folate offensive della sua squadra.
Tuttavia la sua più grande qualità è quella dell'interdizione, con specifico riferimento alla sua capacità di rubare il pallone agli avversari: un giornale dell'epoca lo descrive come "giocatore dallo sgambetto gentile", a riprova di grande animosità agonistica, ma anche di lealtà.
Tali importanti valori li dimostra anche rispetto alla sua professione, che per sua scelta non diventa mai tale: nonostante in quel periodo Virginio Rosetta apre le porte del professionismo, Bigatto resta per sempre un dilettante, rinunciando ad un sicuro stipendio e mantenendo il suo legame alla squadra esclusivamente sulla parola.
In tal senso si dimostra fortemente legato alla maglia bianconera, alla quale non vuole essere vincolato da accordi contrattuali, tenuto conto anche di qualche sua abitudine non proprio da "professionista", che potrebbero creargli problemi con l' eventuale "datore di lavoro".
Per esempio ha un incrollabile dipendenza dal tabacco, che lo porta a fumare un numero impressionante di sigarette: le fonti dell'epoca parlano addirittura di 140 sigarette al giorno.


Tale negativo vizio non lo limita però in campo, dove mette in mostra grande corsa ed una resistenza notevoli.
Nello spogliatoio si rivela un grandissimo motivatore, tanto da essere nominato capitano della squadra sin da giovanissimo, a riprova di un carattere forte che lo rende rispettato da tutti i compagni e dai dirigenti
Gli elevati valori morali lo rendono il vero simbolo della squadra in quegli anni, nonostante debba aspettare il 1925 per vincere il primo dei suoi due scudetti conquistati come calciatore.
Il secondo scudetto arriva nella sua ultima stagione di attività, che rappresenta il primo dei cinque scudetti consecutivi vinti dalla Juventus negli anni '30 (il famoso Quinquennio d'Oro). 
A tal proposito, nella suddetta stagione 1930/1931 gioca una sola partita, essendo ormai limitato da persistenti problemi ai tendini.
Relativamente a tale periodo partecipa anche alla conquista del tricolore del 1934/1935, questa volta nelle vesti di allenatore, sostituendo Carlo Carcano durante il campionato.
Purtroppo la sua carriera risulta davvero molto breve, essendo interrotta da gravi problemi di salute, che lo portano alla morte a soli 46 anni.
Se a livello di club diventa una leggenda, la stessa cosa non si può dire relativamente alla nazionale, per la quale gioca solamente 5 partite durante la sua lunga attività.
La prima convocazione arriva a 30 anni nel 1925, quando Vittorio Pozzo vince le sue diffidenze e gli concede una manciata di minuti nella vittoria per 7-0 contro la Francia.
I dubbi del Commissario Tecnico sono relativi al carattere di Bigatto, il quale è abituato a dire quello che pensa e ad atteggiarsi come punto di riferimento della squadra.
Tale comportamento mal si sposa con la conduzione di Pozzo, impostata su toni marziali e basata sulla piena accondiscendenza di tutti i calciatori.
Se nella Juventus  Bigatto è il collante dello spogliatoio, in Nazionale rischia di diventare uno strumento di rottura dello stesso.
Per questo motivo viene convocato con il contagocce, fino al 1927, quando al termine di una partita con il Portogallo il suo legame con la maglia azzurra si interrompe per sempre.
Delle sue poche apparizioni, una merita davvero una citazione: l'8 dicembre del 1925 l'Italia ottiene un prestigioso pareggio per 1-1 a Budapest e Bigatto gioca una partita straordinaria, venendo celebrato come migliore in campo dalla stampa.


Questa partita resta l'unica da lui giocata all'estero con la maglia azzurra e, sorprendentemente, l'unica da lui giocata lontano da Torino, sede delle altre sue quattro apparizioni.
Difficile aggiungere qualcosa su di un simile personaggio, capace di regalare grandi emozioni e di elevarsi come un simbolo positivo di un mondo del calcio ancora non viziato ed avvelenato come quello attuale.
Carlo Bigatto non deve essere ricordato solo come "il calciatore con il berretto", ma come un grande giocatore, che ha sempre giocato per il puro piacere di farlo, rappresentando fieramente un modo nobile di praticare un sport.
In fondo anche il calcio pionieristico ha un suo affascinante perché...


Giovanni Fasani

venerdì 14 novembre 2014

CASABLANCA

No non intendiamo il famoso film del 1943 con Humphrey Bogart e tanto meno del famoso ex locale milanese.
Quest'oggi parliamo di Casablanca città, importante centro nevralgico del Marocco che nel 1917 diede i natali ad uno degli attaccanti meno conosciuti del panorama calcistico mondiale e storico.
Negli anni 30 e 40 non si era soliti emigrare all'estero per giocare a calcio, la maggior parte delle frontiere erano chiuse e lo scotto della prima guerra mondiale era ancora vivo in alcuni popoli, unito al senso di disagio che da lì a poco avrebbe fatto scoppiare anche la seconda grande guerra.
Nato calcisticamente nell'Ideal Club Casablanca, Abd al-Qadir Larbi Ben Mbarek meglio conosciuto come Larbi Ben Barek può essere considerato a tutti gli effetti come il primo giocatore marocchino arrivato in Europa in club di blasone; all'epoca non una cosa da poco.


L'attaccante marocchino può forgiarsi anche del fatto di essere stato il primo a ricevere il soprannome di Perla Nera, passato poi nel corso degli anni ad uno dei giocatori più forti di tutti i tempi, tale Pelè.
Ben Barek arriva in Europa grazie all'Olympique Marsiglia dopo aver militato per 4 anni nell'US Marocaine. Con l'OM diventa idolo incontrastato dopo appena un paio di partite; i tifosi e gli addetti ai lavori notano subito nell'attaccante marocchino un innato senso del sacrifico ed una potenza in area di rigore tale da far prendere spesso le contromisure agli avversari. Nella sua unica stagione con la maglia bianco-azzurra realizza 10 gol in 30 partite regalando spesso alla platea giocate sublimi da vero ballerino di samba brasiliano.
Purtroppo per lui è costretto a tornare in patria a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Per i 6 lunghi anni che lo riportano in terra marocchina, Larbi decide di vestire nuovamente la maglia dell'US Marocaine.
Terminato il conflitto mondiale Ben Barek decide di tornare in Francia per vestire la maglia dello Stade Francais dove nella prima stagione fa ottenere alla propria squadra una storica promozione nella massima divisione.
L'impatto con la squadra capitolina è da subito notevole. Ben Barek dispensa grandi giocate segnando gol a raffica; solo il più basso livello dei compagni di squadra non sortisce traguardi ben più alti.


Il 1948 è l'anno del salto di qualità. I dirigenti dell'Atletico Madrid notano in Ben Barek caratteristiche fuori dal comune. Al momento dell'interesse dei Colchoneros e quando il trasferimento non era ancora completo, pare che un giornalista di un noto quotidiano parigino disse: "Si può vendere l'Arco di Trionfo o la Torre Eiffel, ma non si vende Ben Barek", a testimonianza di quanto fosse importante non solo a livello di gol e prestazioni. Larbi era un vero simbolo calcistico di Parigi.
Ma tant'è che le strade di Ben Barek e Stade Francais sono destinate a separarsi. Nella sua prima stagione nell'Atletico Madrid è circondato da una serie infinita di polemiche; non si presenta al ritiro e ci si chiede se la firma sul contratto non sia stata una bufala dei giornalisti. Nessuno ha sue notizie, neppure lo Stade Francais che lo aveva appena venduto. Una settimana dopo l'inizio del campionato arrivò un telegramma da Casablanca dove veniva comunicato dallo stesso Ben Barek che si sarebbe presentato il giorno dopo a Madrid. Con grande stupore di tutti (si erano perse le speranze e si temeva il peggio) dichiarò alla stampa: "Ho 31 anni ma mi sento benissimo sia fisicamente che tecnicamente. Mi sento come se avessi 20 anni". Più di qualcuno rise sarcasticamente a questa dichiarazione e si scoprì solo dopo che Ben Barek non era riuscito ad arrivare in Spagna per via della prematura ed improvvisa scomparsa della moglie.
A differenza di adesso, l'Atletico Madrid anni 50 era una squadra materasso, non c'erano nomi di primo impatto e Barcellona, Siviglia e Valencia si alternavano a vincere la Liga.
Come testimoniato dal suo debutto contro l'Espanyol (sconfitta 4-1), Ben Barek sembra avere una marcia in più rispetto ai compagni e qualche detrattore si dovette ricredere sulla forma fisica del marocchino. La stagione si chiude con la salvezza e la consapevolezza di aver trovato un giocatore simbolo della squadra
Nella stagione 1949/1950 l'Atletico ingaggia Helenio Herrera alla guida tecnica e tale Henry Carlsson (100 gol circa nell'AIK Solna in 200 partite) a fare da spalla a Ben Barek.


Da squadra materasso ci si accorse sin da subito che l'Atletico Madrid ha una marcia in più. Se ne accorge anche il grande pubblico che vede nella coppia Ben Barek-Carlsson una delle più forti dell'epoca, addirittura qualcuno (non a torto) la considera la coppia straniera più forte di tutti i tempi della squadra colchonera.
Insieme a giocatori quali Juncosa, Escudero e Perez Paya i due forti attaccanti formarono quella che fu definita la "Delantera de cristal", ossia l'attacco di cristallo, proprio in omaggio a questi cinque giocatori che fanno del gioco collettivo una vera delizia per le platee.
Nel primo anno di Herrera arrivarono campionato e Coppa del Re, il gioco era diventato all'improvviso sciolto e tutti sapevano cosa fare. La grande corsa e l'organizzazione di gioco portarono Ben Barek nell'olimpo; il marocchino segnava in tutti in modi e quelli che all'inizio ridevano dovettero ricredersi nel giro di poche partite. Nel suo secondo anno arrivò un altro scudetto e rimase all'Atletico fino al 1954 mettendo in rete 56 palloni in 113 partite disputate.

L'anno successivo tornò al Marsiglia con cui rimase un anno prima di appendere le scarpe al chiodo; nonostante i 37 anni realizzò 13 gol in 30 partite regalando ancora una volta al pubblico francese un saggio delle sue qualità.
Meno fortunata l'esperienza con la nazionale transalpina (all'epoca il Marocco non era ancora indipendente) dove segnò solamente 3 gol in 19 partite.
Una piccola nota curiosa: nella partita di addio ad un monumento quale Alfredo Di Stefano, Ben Barek entusiasmò non poco gli spettatori addirittura offuscando la prestazione della Saeta Rubia.
Nel 1957 divenne selezionatore della nazionale marocchina, il primo dalla storica indipendenza; la sua carriera da Commissario Tecnico durò 3 anni prima di decidere di smettere definitivamente col calcio.
Da molti è considerato il più grande giocatore marocchino della storia del calcio, lui che partì in una squadra di seconda divisione del proprio paese per arrivare agli altissimi livelli della Liga spagnola. Nel cuore di ogni tifoso colchonero ci sarà sempre un posto per la prima Perla Nera del calcio.
Morì in solitudine il 16 settembre 1992 a Casablanca e 6 anni dopo la FIFA lo insignì con la Medaglia di Ordine al Merito, il giusto premio per un grandissimo campione del passato.


Matteo Maggio

martedì 11 novembre 2014

ASSO DI... KOPA

Quasi tutti i grandi campioni sono unanimemente celebrati in ogni angolo del mondo, ed alcuni di essi vengono considerati tali sin dai primi anni di attività. 
Tuttavia ve ne sono altri che sono rivalutati solo a carriera finita, quando risulta possibile fare un bilancio della stessa e quando, magari, vengono superati certi luoghi comuni che per anni li hanno messi sotto cattiva luce.
Talvolta tali giocatori vengono bistrattati o mal considerati durante il loro periodo agonistico, per ragioni che spesso vanno oltre il contesto sportivo, confluendo nel contesto politico e sociale.
Gli appassionati di calcio sanno trasmettere grande passione e sono a tutti gli effetti il vero motore di questo sport, ma, alcune volte, possono essere miopi censori di alcuni giocatori; la maggior parte delle volte retaggi e convinzioni molto lontane dello sport, condizionano i giudizi e possono creare involontari capri espiatori.
Un classico esempio di questa non piacevole tendenza è Raymond Kopa, autentico fuoriclasse degli anni 50  e 60, il quale ha sempre dovuto lottare per veder riconosciuto il suo formidabile talento.


La vita per lui e per la sua famiglia non è facile, essendo i suoi genitari emigrati dalla Polonia con la possibilità di lavorare nelle miniere transalpine. A tal proposito il suo cognome originario sarebbe Kopaszewski, divenuto poi Kopa una volta stabilitosi nella sua nuova nazione.
Il giovane Raymond inizia a lavorare in miniera a 14 anni , dove a causa di un incidente perde anche un dito di una mano. Nonostante la non facile esistenza  si dedica anche al calcio, nel quale eccelle sin da subito, tanto da mettersi in mostra ai vari osservatori che da sempre setacciano la zona alla ricerca di nuovi talenti.
Dopo vari provini viene finalmente tesserato dall'Angers, il quale gli da la possibilità di fare il calciatore a tempo pieno e di affinare le doti che appaiono immediatamente quelle di un fenomeno. 
Nella valle della Loira resta solo due anni, perché nel frattempo gli osservatori dello Stade Reims restano folgorati dal suo fulgido talento.
Nel 1951 si trasferisce quindi nelle provincia della Champagne, dove la dirigenza dei “biancorossi” sta costruendo una squadra capace di imporsi anche in Europa, soprattutto dopo la vittoria del primo storico campionato avvenuta nella stagione 1948/1949.
Kopa si dimostra un giocatore dalle qualità tecniche eccelse, che ama partire da destra per accentarsi, mettendo in mostra una velocità formidabile, abbinata ad un dribbling secco ed efficace. 
Alto solamente 169 centimetri, risulta imprendibile nell’uno contro uno, sfruttando le indubbie doti naturali ed un livello tecnico in continuo miglioramento.
Con la palla al piede riesce sempre a fare la cosa giusta, scegliendo con estrema perizia se lanciarsi in azioni personali o fornire precisi assist ai compagni di squadra.
A tal proposito sorprende per come riesce a mettere il suo purissimo talento a disposizione del collettivo, tanto da diventare un vero specialista nello scovare invitanti pertugi per i compagni di attacco.



Nello Stade Reims trova il tecnico Albert Batteaux, che gli permette di rendere al meglio, lasciandolo libero di esprimere la sua “arte calcistica” in una compagine di grande livello: la squadra può contare sul grande sostegno dato da centrocampisti come Hidalgo e Glowacki, così come su attaccanti come Meano e Templin, perfetti terminali di una compagine che funziona a meraviglia.
Ovviamente non tardano ad arrivare i successi, come il campionato 1952/1953 e, soprattutto la Coppa Latina del 1953. In questa ultima competizione Kopa si dimostra decisivo, segnando una doppietta nella finale vinta per 3-0 contro il Milan.
Nel 1954 la sua fama internazionale può essere ampliata dal Campionato del Mondo da disputarsi in Svizzera, ma tale prestigiosa vetrina, importante per tanti campioni, ha per lui un effetto negativo.
La Francia viene eliminata al primo turno e molte critiche piovono sulla preparazione fisica dei giocatori, apparsi fuori forma e svogliati durante le partite del girone iniziale, nonostante l’ultima vittoria con il Messico. Le critiche maggiori vanno ai giocatori di diversa origine, come Glowacki ed appunto Kopa, che vengono invitati a "tornare in miniera", accanendosi fortemente contro la loro origine polacca. Kopa in particolare viene pesantemente attaccato dalla stampa e dai tifosi, che lo reputano il primo colpevole della fallimentare spedizione in terra elvetica, creando un forte distacco tra le due parti. Nonostante il polverone mediatico, il forte centrocampista contribuisce alla vittoria del campionato 1954/1955 ed al raggiungimento della finale di Coppa Latina, persa per 2-0 contro il Real Madrid
La grande occasione di riscatto per la squadra transalpina arriva nella stagione 1955/1956, dove viene introdotta la Coppa Campioni, massima espressione tecnica del calcio europeo.
Lo Stade Reims si rende protagonista di una grande competizione, tanto da approdare con merito alla finale di Parigi. Ad attenderlo ancora il Real Madrid, che si conferma una costante nella carriera di Kopa. Le due squadre danno vita ad un’emozionante gara, che gli spagnoli si aggiudicano per 4-3, portandosi a casa la prima edizione del torneo.
Anche in questo caso la stampa polemizza su di un già esistente accordo tra il giocatore e i “Los Blancos”, criticando la tempistica e l’atteggiamento in campo del giocatore.
Come anticipato, la squadra madrilena è sempre nel destino del calciatore, tanto che alla fine della suddetta stagione accetta la faraonica offerta del presidente Santiago Bernabeu e si trasferisce in Spagna, confermando le voci presenti alla vigilia della finale.


Iniziano anche a circolare le cifre inerenti a tale nuovo contratto, che scatenano inevitabili polemiche volte ad etichettare il centrocampista come “mercenario”.
Al di là della cospicua componente economica, il progetto tecnico è di altissimo livello, specie nel reparto offensivo, dove accanto al suddetto giocatore trovano spazio Mateos, Rial, Gento ed Alfredo Di Stefano.
Analizzando la sua esperienza madridista non si può che restare impressionati dal numero di vittorie: in quattro stagioni vince per due volte la Liga (1956/1957 e 1957/1958), una Coppa Latina (1957) e per ben tre volte consecutive la Coppa dei Campioni (1956/1957, 1957/1958 e 1958/1959).
L'ultima vittoria nella rassegna continentale ha un sapore speciale, perché viene ottenuta proprio a spese dello Stade Reims di Just Fontaine, formidabile cannoniere transalpino.
Considerando quindi i numeri, sembra che la scelta di accettare le pesetas madrilene sia stata azzeccata, ma in realtà Kopa non si sente appagato tecnicamente.
Nello schieramento offensivo non ha la consueta libertà di svariare, essendo relegato sulla fascia destra, senza possibilità di spostarsi al centro, dove Di Stefano ha il dovere ed il piacere di fare ciò che vuole. Relegato al classico "compitino", si adatta comunque con grande dedizione, sebbene in alcune circostanze il suo talento appaia come ingabbiato.
Nonostante questi limiti tattici gioca, nel 1958 la sua miglior stagione in assoluto, in concomitanza con i Mondiali giocati in Svezia.
La nazionale è guidata dal suo "mentore" Batteaux, che confida nella voglia di riscatto di Kopa, desideroso di mettere fine alle critiche nate dopo il precedente Mondiale e di dimostrare ai connazionali di essere un vero fuoriclasse, senza più differenze di origine.
In realtà già nel 1955 si guadagna credito dalla stampa trascinando la Francia ad una storica vittoria in terra iberica, segnando un gran gol e favorendo il raddopio per il definitivo 2-1. In tale situazione, grazie alla superba prestazione, la stampa internazionale lo chiama "il Napoleone del calcio".
Tuttavia la sua volontà è quella di riscattarsi nel contesto mondiale, tanto da presentarsi al meglio già dell'esordio contro il Praguay
In tale torneo si mette al servizio proprio di Fontaine, incantando il pubblico svedese e gli addetti ai lavori con assist precisissimi e serpentine inarrestabili, nobilitando il tutto anche con due marcature.
La Francia termina la rassegna al terzo posto, battuta dal Brasile in semifinale, mentre Fontaine si aggiudica la classifica marcatori, segnando addirittura 13 reti, ancora oggi record assoluto del Mondiale.
Buona parte di queste realizzazioni sono facilitate dalle "magie" di Kopa, che nello stesso anno viene premiato da France Football con il Pallone d'Oro.
Nel 1959, appagato dai trionfi e desideroso di poter essere una vera stella anche in un club, decide di ritornare allo Stade Reims, forse anche alle luce delle polemiche legate al suo precedente addio.  La sua seconda esperienza a Reims è alternata da luci e ombre: il forte centrocampista è vittima di alcuni infortuni alle caviglie che ne limitano la proverbiale velocità, permettendogli solo saltuariamente di fare in pieno la differenza. Nonostante tutto partecipa al meglio alla conquista di due titoli nazionali e di una Supercoppa di Francia. L'impressione di trovarsi di fronte ad un Kopa in fase calante viene cancellata dalle sue prestazioni durante il primo Europeo per nazioni del 1960, dove ritorna a far ammattire come ai bei tempi le difese avversarie, permettendo alla squadra di arrivare alla fase finale. Purtroppo non prende parte a questa seconda competizione per i già noti problemi fisici, privando di fatto la squadra delle sue decisive e spettacolari giocate. Nel 1962 la Francia non si qualifica per i Mondiali in Cile, mettendo di fatto fine all'esperienza di Kopa con i "galletti", per i quali segna 18 reti in 45 partite e dispensa un numero infinito di passaggi vincenti. Durante laa sua seconda esperienza nello Stade Reims cambia sensibilmente anche il suo modo di giocare, sopperendo alla calante atleticità con un notevole senso tattico,che lo porta anche ad arretrare la sua posizione.
Con i bianco rossi subisce anche l'onta delle retrocessione in seconda divisione, ma si dimostra in questo caso fedele ai propri colori, decidendo di giocare in una categoria davvero lontana rispetto al suo smisurato talento.
Chiude la carriera nel 1967, quando gli acciacchi ed i quasi 36 anni lo convincono ad appendere le scarpe al chiodo.


Raymond Kopa è uno dei grandi artisti della storia del calcio, perché ha interpretato il suo ruolo come ha voluto, giocando come il talento gli ha sempre suggerito e dimostrandosi comunque generoso e disponibile al gioco di squadra.
Le sue straordinarie doti tecniche non lo fanno mai apparire fine a se stesso, permettendogli di essere sempre concreto, considerata anche il numero di reti da lui segnato in carriera (ben 117 solo a livello di campionato nazionale).
Difficile invece dire quanti attaccanti dovrebbero ringraziarlo per avergli fornito palloni semplicemente da spingere in porta.
Alla faccia dei detrattori....


Giovanni Fasani