martedì 31 marzo 2015

SUL FILO DI LANA

La nazionale di calcio è l’unica rappresentativa che riesce a riunire ed a mettere d’accordo tutti gli appassionati della penisola, troppo volte divisi da campanilismi o da accese rivalità tra squadre di club.
Solo quando l’Italia scende in campo si può far affidamento sul tifo incondizionato di tutti i tifosi, che magari solo per 90 minuti sono disposti ad applaudire e ad incitare giocatori che storicamente ritiene rivali, solo perché militanti in squadre antagoniste.
Le grandi imprese della nostra squadra sono negli occhi di tutti i tifosi e quando le partite sono importanti, il pubblico italico le vive ancora con maggior passione e dimentica del tutto campanilismi ed astiosità.
Andando a ritroso nel tempo è possibile portare alla mente grandi partite consegnate alla leggenda, per sempre presenti nei ricordi di chi le ha vissute o nella memoria di chi magari non era ancora nato.
Pochi si ricordano però quando e come la nostra nazionale abbia fatto il proprio esordio nel contesto internazionale, essendo passato più di un secolo da tale storico evento.
Più precisamente la compagine italiana gioca la sua prima partita ufficiale il 15 maggio del 1910, confrontandosi con quella che storicamente può essere indicata come una sua storica rivale: la Francia.
All’Arena Civica di Milano le due squadre scendono in campo per tale primo scontro, con i giocatori italiani in maglietta bianca, essendo la tanto ambita maglia azzurra ancora lontana dall’essere introdotta.
La federazione italiana punta molto su questo incontro e decide di nominare una commissione tecnica per selezionare gli undici titolari. Quest’ultima programma addirittura una doppia sfida tra possibili titolari e probabili riserve, proprio al fine di essere sicuri che la formazione titolare sia la migliore in assoluto (tenuto conto che i forti rappresentanti della Pro Vercelli non possono partecipare causa squalifica).


L’incontro termina con un altisonante 6-2 per l’Italia, che proprio in questo contesto fa la conoscenza di Pietro Lana, autore del primo storico gol dell’incontro e mattatore dello stesso con una formidabile tripletta.
Il commissario tecnico indicato dalla federazione, Umberto Mezza, lo propone in un tridente con il compagno di squadra Aldo Cevenini ed Arturo Boiocchi della US Milanese, regalando al 4000 presenti un apprezzabile spettacolo, nonostante Lana sia l'unico attaccante in campo ad andare a segno.
Tale exploit si colloca alla perfezione nella carriera di questa piccola e guizzante mezzala sinistra, che in campo si distingue per una tecnica elevata e per la grande rapidità.
Soprannominato “Fantaccino”, proprio per il fisico minuto, Lana spende la quasi totalità della sua attività nel Milan, del quale diventa uno dei giocatori simbolo ad inizio carriera.
I primi tifosi della squadra rossonera hanno la fortuna di ammirare un giocatore dal passo veloce e dal tiro preciso, in grado di mettere in difficoltà l’avversario diretto e di far divertire la “platea”.
In questo periodo dove il calcio necessita di acquisire popolarità, le sue giocate sono un involontario quanto piacevole veicolo pubblicitario.
In lui è innato un certo gusto per il numero ad effetto, tanto che le cronache dell’epoca lo descrivono come improvvisato giocoliere sulle spiagge italiche, dove con piacere intrattiene grandi e piccoli con giocate e calibrati tiri indirizzati verso le finestre delle cabine balneari.
Non si tratta di un autentico uomo gol, considerato che nelle sei stagioni giocate nel Milan segna 18 reti in 51 apparizioni di campionato, facendosi apprezzare maggiormente come rifinitore per i compagni, magari dopo fulminee iniziative personali o con precisi ed inaspettati passaggi.



Sulla base di questi numeri, la sua tripletta all’esordio con la nazionale assume ancora di più i contorni dell’impresa.
Tuttavia non è nuovo a segnare in partite importanti, come dimostra il primo storico gol da lui segnato in un derby di Milano: la partita si gioca in Svizzera ed il Milan vince per 2-1, con Lana che sblocca il risultato con un gol che la Gazzetta dello Sport definisce da "sicario".
Appare chiaro che il personaggio è sicuramente particolare e la sua personalità emerge anche nella famosa “fuga” di giocatori milanisti dissidenti, che nel 1908 abbandonano il club per formare i futuri rivali dell’Internazionale.
Come era prassi all'epoca, la maggior parte dei giocatori sono anche soci del club nel quale militano e nel suddetto anno insieme ad altri 44  "colleghi" scontenti mette il suo nome tra quelli dei fondatori dei futuri "cugini".
Lana si pente quasi subito di questa scelta e conferma il suo affetto per la compagine rossonera rientrando dopo poco nei ranghi della società, dimostrando grande senso di appartenenza e fedeltà alla società che ha contribuito a consolidare nel panorama italiano.
In quei tempi potenziali giocatori o dirigenti alle prime armi hanno la possibilità di fondare nuove squadre con assoluta facilità, ignari che le nuove squadre da loro create diventeranno nel tempo tra le più importanti del panorama calcistico italiano.
La grande prestazione alla sua prima uscita con la nazionale non diventa però viatico per un’eccelsa carriera con la stessa, che termina esattamente 12 giorni dopo la sonora sconfitta per 6-1 in amichevole contro l’Ungheria.
Il calcio pionieristico è quanto di più lontano ad un’idea di professionismo e moltissimi calciatori sono impegnati in altre principali professioni che sottraggono tempo ed energie al calcio.
Anche Lana non sfugge a questa tendenza, interpretando come “un passatempo per gentiluomini” l’attività calcistica.
In anni nei quali è difficile codificare e dare un senso al nascente movimento calcistico, anche per un commissario tecnico non è facile trovare giocatori liberi da impegni e costruire un vero e proprio gruppo di riferimento.
Nonostante le prime cronache sportive lo propongano come uno dei primi nomi altisonanti del calcio italiano, la sua esperienza con la nazionale si ferma a queste due esperienze.


L’imminente conflitto bellico si impone ovviamente come altro pesante ostacolo alla sua carriera, che subisce varie pause durante gli orrori prodotti dai campi di battaglia
Proprio durante i duri anni della guerra decide di mantenersi in un buon livello di forma fisica, trasferendosi al Brescia, dove però gioca solo alcune partite amichevoli, essendo precluse le attività ufficiali nel suddetto periodo.
Questi incontri sono gli ultimi da lui disputati a livello di club e dal 1917 non è dato sapere di così si occupi, anche se la sua passione per l’alpinismo possa essere considerata una valida possibilità.
La nascita del movimento calcistico italiano ci mette di fronte a personaggi come Lana, che, involontariamente, sono i fautori del calcio che tanto ci appassiona ai nostri giorni.
Nonostante possa essere dimenticato o poco considerato, il suo nome resta a carattere indelebile nella storia della nostra nazionale.
Magari alla prossima gara dell'Italia ci ricorderemo tutti di Fantaccino e realizzeremo che quanto stiamo vedendo lo dobbiamo anche a lui.

Giovanni Fasani

venerdì 27 marzo 2015

ATTIMI FINALI

Quante emozioni ci regala il calcio? Tante, tantissime... Ad ogni partita apprezziamo una giocata, una disposizione tattica, una bella azione corale; insomma, sono tanti gli aspetti nell'arco di una partita.
Le emozioni più grandi le viviamo ovviamente quando in campo c'è la nostra squadra del cuore, quella per cui ogni "domenica" siamo disposti a sacrificare un paio d'ore del nostro tempo.
La storia del calcio poi, ci racconta molto spesso emozioni che vanno oltre l'immaginario regalandoci momenti di gioia (o dolore) che mai se ne andranno dalla nostra memoria.
Qualsiasi tifoso non coinvolto direttamente dev'essersi parecchio divertito nei minuti finali di una delle partite più assurde che la storia ha partorito.
La sera del 26 maggio 1999 Bayern Monaco e Manchester United si affrontarono per portare a casa la 44° edizione della Coppa Campioni (o Champions League).


Per entrare a far parte del tabellone principale, agli inglesi fu sufficiente un 2-0 ad Old Trafford per sbarazzarsi dei polacchi del Widzew Lodz, mentre i tedeschi erano stati decisamente meno buoni rifilando un sonoro 4-0 agli jugoslavi dell'Obilic.
Ironia della sorte entrambe furono sorteggiate nello stesso gruppo, il D, considerato uno dei più ostici vista la poco comoda presenza del Barcellona; a completare il quartetto i danesi del Brondby.
E proprio in terra vichinga inizia la sciagurata avventura del Bayern Monaco che all'esordio deve arrendersi 2-1 in una sfida rivelatasi decisamente più complicata del previsto.
Nell'altro incontro il pirotecnico pareggio 3-3 tra inglesi e spagnoli fa capire che per guadagnarsi la qualificazione ci saranno da sudare le proverbiali sette camicie.
Nella seconda gara un insolito autogol di Sheringham fa pari e patta sul 2-2 nella prima delle tre sfide tra Red Devils e Die Roten..
Il 21 ottobre 1998 il Manchester United decide di dare un chiaro segnale alle rivali andando a vincere 6-2 a Brondby in una partita stradominata dai ragazzi di Ferguson e dove trova la via della rete anche Roy Keane, solitamente poco avvezzo a presentarsi dalle parti della porta avversaria.


Nella doppia sfida al Barcellona, i tedeschi si prendono 6 punti frutto dell'1-0 dell'Olympiastadion e del 1-2 del Camp Nou dove vanno a segno Alexander Zickler (12 anni in Baviera) e Hasan Salihamidzic (breve passato anche alla Juventus).
Mentre i bavaresi spendono parecchie energie per conquistare lo scalpo blaugrana, lo United ne rifila altri 5 al Brondby con David Beckham ad aprire la festa dell'Old Trafford.
Un altro spettacolare match è quello del 25 novembre dove nella serata spagnola Rivaldo ed Andy Cole realizzano le doppiette che fissano il secondo 3-3 tra Barcellona e United. Alla fine della competizione risulterà essere una delle più belle partite andate in scena nella massima competizione europea.
La vittoria 2-0 del Bayern sul Brondby qualifica di fatto tedeschi ed inglesi (questi ultimi come miglior seconda), lasciando al Barcellona una deludentissima terza piazza che le costa l'uscita dalla manifestazione.
La seconda sfida tra le due future finaliste si risolve con un altro pareggio firmato, ancora una volta, da Keane e Salihamidzic.


Dopo la consueta pausa invernale, la Champions League riapre i battenti il 3 marzo 1999 con le sfide dei quarti di finale.
Entrambe vincono il rispettivo incontro 2-0 con Dwight Yorke a realizzare la doppietta che sconfigge l'Inter, mentre nella sfida tutta tedesca al Kaiserslautern Elber ed Effenberg realizzano i gol che stendono i campioni di Germania in carica.
Nella gara di ritorno il Bayern esagera rifilando 4 sberloni ai Teufel e nella gara di San Siro basta un 1-1 con gol di Scholes a spedire i Red Devils in semifinale.
Nelle gare di andata vanno in scena due pareggi; certamente il più spettacolare è quello dell'Olimpiyskiy di Kiev dove i bavaresi soffrono non poco la doppietta di un giovane Andriy Shevchenko che trascina gli ucraini al 3-3 finale. Ancora una volta è Stefan Effenberg a realizzare uno dei gol tedeschi. Lo United invece pareggia 1-1 all'Old Trafford contro la Juventus.
Certamente più clamorosa la gara di ritorno dove dopo 11 minuti la Juventus è già avanti di due gol per merito di Filippo Inzaghi che spacca la difesa presidiata da Stam e Johnsen.
Uno frastornato United non si perde comunque d'animo e prima del 45' perviene al pareggio grazie a Keane e Yorke. Con la Juventus rivolta all'attacco, i Red Devils chiudono la sfida a 7 minuti dalla fine grazie ad Andy Cole che realizza nella porta sguarnita.
Un gol di Mario Basler regala lo striminzito quanto utile 1-0 del Bayern sulla Dinamo Kiev.


Il 26 maggio sono ben 90.000 le persone che gremiscono gli spalti del Camp Nou, un campo che entrambe conoscono molto bene e dove non hanno lasciato che le briciole al Barcellona.
Non c'è una favorita, entrambe arrivarono all'atto finale con la consapevolezza di poter far bene e vincere la sfida.
Lo United non può schierare Keane e Ferguson si vede costretto a spostare Giggs sulla destra con Beckham a fare il centrale accanto a Nicky Butt; la fascia sinistra è affidata allo svedese Blomqvist. Per il resto tutto confermato con Schmeichel tra i pali, Irwin e Gary Neville sulle corsie, Stam e Johnsen in marcatura e davanti i Calypso Boys Cole e Yorke.
Il Bayern dal canto suo può schierare la formazione titolare con Kahn in porta, Matthaus a fare il libero, Tarnat e Babbel sulle fasce con Linke e Kuffour ad arginare le scorribande dei Calypso Boys. La coppia Effenberg-Jeremies a fare diga e gioco davanti alla difesa; il tridente d'attacco vede Basler e Zickler in appoggio di Carsten Jancker.


Chi comincia meglio sono i bavaresi che dopo appena 5 minuti si ritrovano in vantaggio grazie alla punizione di Basler su cui Schmeichel si fa trovare (una volta tanto) impreparato.
Per tutti i primi 45 minuti lo United non riesce a reagire e non pervengono pericoli dalle parti di Kahn.
L'intervallo non rinvigorisce i ragazzi di Ferguson che nonostante l'ingresso di Sheringham non si rendono mai propositivi concretamente, lasciando al Bayern le opportunità migliori come nell'occasione capitata a Mehmet Scholl che colpisce il palo o Jancker che centra la traversa da pochi passi.
A 10 minuti dalla fine Ferguson tenta il tutto per tutto inserendo Ole Gunnar Solskjaer, sinora un solo gol nella manifestazione nella tennistica trasferta di Brondby. Hitzfeld risponde togliendo Matthaus per buttare nella mischia Torsten Fink.
Quando tutto sembra ormai archiviato, con Hitzfeld che regala a Basler la standing ovation, ecco che gli dei del calcio decidono di entrare in campo con la maglia dei Red Devils.
Al minuto 91 Neville butta in mezzo il cross della disperazione con Effenberg che spazza in calcio d'angolo.
A saltare arriva anche Peter Schmeichel, la palla è indirizzata verso di lui ma la difesa bavarese riesce a liberare... Sui piedi Giggs che caccia in mezzo il pallone trovando nel nulla Teddy Sheringham che fa 1-1. Il settore presieduto dai tifosi dello United non ci può credere, partita riacciuffata a pochi minuti dal termine.
A questo punto al Bayern tremano le gambe; lo United riconquista palla, Irwin pesca in profondità Solskjaer che viene anticipato da Kuffour. Ancora calcio d'angolo con i decibel della curva inglese che si fanno sempre più assordanti.
E' ancora Beckham a calciare in mezzo e trovare la testa di Sheringham che spizza verso la testa di Kahn, i bavaresi sono immobili ed a quel punto si materializza Solskjaer che con un tocco di assoluta furbizia manda in estasi la curva dietro alla porta.
Con i tedeschi praticamente sulle gambe ed in preda alla disperazione, Collina mete il fischietto in bocca per sancire il treble del Manchester United che si laurea Campione d'Europa per la seconda volta nella sua storia.



Ci vorrà molto tempo prima che il Bayern dimentichi la tremenda notte di Barcellona, una tragica fatalità ha tolto ai tedeschi la conquista del massimo trofeo continentale.
Agli appassionati neutrali come noi resterà sempre il ricordo di un finale di partita davvero memorabile.
Con tutta onestà: chi non avrebbe voluto essere un tifoso dello United quella sera?


Matteo Maggio

martedì 24 marzo 2015

FINALMENTE LA COLOMBIA!

Il calcio colombiano ha sempre prodotto grandi giocatori ed in alcuni periodi si è distinto come uno dei più importanti e trainanti di tutto il contesto sudamericano.
Nel continente i risultati non sono però arrivati, ed anche in Copa America si può ricordare il secondo posto nell'edizione del 1975 e qualche altro successivo piazzamento.
Chi ha buona memoria si ricorda della nazionale colombiana degli anni '80, che sull'ossatura del Nacional Medellin ha costruito una forte quanto sfortunata nazionale.
Addirittura alla vigilia del Mondiale del 1994 Pelè conferisce alla suddetta nazionale il titolo di favorita assoluta della competizione, salvo ricredersi a seguito della precoce eliminazione di Valderrama e compagni nel girone eliminatorio.
Proprio il periodo tra gli anni '80 e gli anni '90 sembra essere il migliore in termini di giocatori prodotti, ma i risultati non arrivano.
Possiamo quindi dire che tutta la storia della rappresentativa colombiana si fonda su di un "vorrei ma non posso" che è diventata anno dopo anno una filastrocca ripetitiva e poco felice in quel di Bogotá.
Negli anni recenti se si pensa alla nazionale colombiana non si può non fare riferimento a Francisco Maturana, vero e proprio guru del calcio del suo paese, ma al cui nome sono legati gli insuccessi appena ricordati.
Nel 2001 la federazione colombiana decide di organizzare la quarantesima edizione della Copa America, nonostante le palesi difficoltà sociali nelle quali versa il paese, dilaniato da una delinquenza dilagante e da un aspro conflitto con i guerriglieri delle FARC, che fino all'ultimo mette in dubbio la disputa della competizione. A tal proposito Canada ed Argentina decidono di non prendere parte al torneo, suscitando più di una polemica, mentre Brasile ed Uruguay propendono per presentare formazioni prive dei giocatori principali.
Lo scopo del governo è quello di rivalutare l'immagine della Colombia nel contesto internazionale nonché quello di vincere il torneo, per regalare una grande soddisfazione al caloroso pubblico locale.
In tal senso, quando si tratta di scegliere il commissario tecnico la federazione opta ancora per Francisco Maturana, l'unico in grado di gestire al meglio la grande tensione e gestire al meglio tutti i dettagli tecnici ed umani.
La scelta si rivela vincente, perché la Colombia vince effettivamente la Copa America 2001.


Il tecnico di Quibdo non ha a disposizione i precedenti campioni come in altre sue esperienze, ma costruisce un gruppo compatto e tignoso, composto in prevalenza da giocatori ancora in forza a squadre colombiane.
Sul campo chiede l'applicazione delle sue teorie e chiede grande sacrificio e predisposizione alla fase difensiva.
La squadra viene impostata con un elastico 4-3-1-2, particolarmente flessibile ed interpretabile, assolutamente mutabile durante la gara.


Tra i pali il titolare è Oscar Cordoba portiere di buona affidabilità in forza al Boca Juniors. Nel 2002 giocherà 15 partite con la maglia del Perugia, prima di avere esperienze nel campionato turco.
Agli esterni bassi viene chiesto di accompagnare l'azione con continuità, alzando continuamente la propria posizione, ma al tempo stesso devono essere pronti a proporsi come disciplinati terzini in fase di non possesso.
Sia Ivan Lopez che Gerardo Bedoya sono in possesso anche di buoni fondamentali tecnici, tanto che quest'ultimo è impiegato come centrocampista nelle varie squadre di club di appartenenza. L'impiego di Jersson Gonzalez assicura una maggior corsa, essendo il laterale, al momento all'America de Cali, un autentico "motorino" sulla corsia di riferimento.
Nello schema tattico le sovrapposizioni dei due laterali sono fondamentali per garantire una proficua gestione della palla e per avere la superiorità numerica su entrambe le corsie
La coppia di centrali è rappresentata da due difensori davvero di vecchio stampo, ai quali viene chiesto di francobollare i centravanti di riferimento con marcature arcigne .
Mario Yepes è un difensore completo in tutti i fondamentali ed anche in Europa si impone per attenzione e grande carisma. Nonostante l'età avrà positive esperienze anche nel campionato italiano.
Ivan Cordoba è il vero leader del reparto e della squadra, tanto da esserne il capitano; la sua importanza al centro del reparto è fondamentale e l'esperienza acquisita nelle file dell'Inter lo rende un valore aggiunto. Pur non essendo altissimo è in possesso di una strepitosa elevazione che gli permette di fronteggiare al meglio attaccanti meglio piazzati fisicamente. Inoltre si dimostra velocissimo, riuscendo a tenere il passo anche di mezzepunte rapide e sguscianti.
Maturana chiede alla sua squadra grande rapidità nei passaggi e grande densità nella zona mediana. La palla deve quindi circolare con grande precisione e velocità, tanto che Fabian Vargas, Freddy Grisales e Juan Carlos Ramirez sono chiamati a garantire un continuo movimento per proporsi come costanti punti di riferimento. I primi due in particolare sono soliti variare di continuo la propria posizione, mettendo in luce anche buone soluzioni offensive, grazie in particolare ad un buon senso dell'inserimento.
Giovanni Hernandez viene proposto in un utile ruolo di trequartista, chiamato sia a puntare la porta centralmente, sia a defilarsi per sfruttarne al meglio l'abilità nel dribbling.
Lo scopo principale è quello di non dare punti di riferimento agli avversari, diversificando lo sviluppo della manovra e coinvolgendo più giocatori possibile per lo sviluppo della stessa.
La maggior parte di tale mole di gioco è volta a rifornire la punta centrale, Victor Aristizabal, attaccante dalla tecnica elevata e assolutamente letale nei sedici metri avversari.


In aera di rigore dimostra un tempismo perfetto ed è abilissimo nel liberarsi al tiro, sfruttando una grande coordinazione ed un formidabile fiuto nel gol. A tal proposito risulta ancora essere il miglior realizzatore di tutti i tempi del campionato colombiano, oltre ad essere il miglior realizzare straniero del campionato brasiliano, in virtù delle esperienze con San Paolo, Santos, Vitoria, Coritiba e Cruzeiro.
Accanto a lui si alternano Elkin Murillo ed Eudalio Arriaga, entrambi dotati di ottimo dribbling e perfettamente funzionali a garantire sostegno ad Aristizabal. Anche a loro viene chiesto un continuo movimento, al fine di rendere imprevedibile gli intenti costruttivi, perfettamente coordinati con il dinamico reparto di centrocampo.
I "Cafeteros" sono inseriti nel girone A con Cile, Ecuador e Venezuela, con il quale gioca la sua gara d'esordio. Quest'ultima termina 2-0 per la squadra di Maturana, grazie ad un gran tiro da fuori di Grisales e ad un rigore di Aristizabal.
Tre giorni dopo viene battuto l'Ecuador, grazie ad un guizzo ancora di Aristizabal, abile a trovare la porta dopo una corta respinta del portiere.
L'ultima partita contro il Cile vale il primo posto nel girone e per l'occasione il commissario tecnico schiera per la prima volta nel torneo il secondo portiere Miguel Calero.
La Colombia si dimostra ancora una volta superiore, vincendo il match per 2-0 grazie ad un rigore a "cucchiaio" del solito Aristizabal e ad un'azione solitaria di Arriaga nel recupero.
Nei quarti di finale l'avversario da affrontare è il coriaceo Perù allenato da Uribe, qualificatosi come seconda miglior terza.
Ad Armenia i padroni di casa giocano una partita perfetta, dominando letteralmente l'incontro, vinto per 3-0. Ancora grande protagonista risulta Aristizabal con una pregevole doppietta, inframezzata dal gol di Hernandez
La semifinale mette di fronte i padroni di casa all'Honduras di Amado Guevara, autentico trascinatore della "Bicolor" nelle precedenti partite e nominato al termine del torneo come miglior giocatore di tutta la competizione.
Ancora una volta la squadra colombiana ha la meglio, portandosi in vantaggio già al 6° minuto con Bedoya, che con un gran tiro di sinistro da posizione defilata trova l'incrocio dei pali. Il raddoppio arriva nel secondo tempo, ad opera nuovamente di Aristizabal, pronto a concludere a rete un traversone proveniente dalla destra.
Ad attendere la squadra di Maturana per la finale del 29 luglio c'è il Messico di Javier Aguirre, squadra estremamente pratica, che viene da una combattuta semifinale contro l'Uruguay, battuto 2-1.
La compagine messicana per tutto il torneo si dimostra squadra solida e "scorbutica", in grado di adattarsi tatticamente al gioco avversario: la riprova la si può trovare nella vittoria per 1-0 ottenuta contro il Brasile nel girone iniziale.
L'atto finale della Copa America 2001 si decide al 65° minuto quando Ivan Cordoba è abile a deviare di testa una calcio di punizione di Ivan Lopez dalla destra, decretando la vittoria finale.
Al di là del risultato, la Colombia domina la partita e costruisce più di un'occasione, nonostante l'infortunio di Arisitizabal al 30° minuto e solo le parate di Oscar Perez tengono in corsa il Messico fino alla fine.
Le sei vittorie consecutive dei "Cafeteros" rappresentano un ruolino di marcia straordinario, ottenuto grazie al preciso canovaccio tattico creato da Maturana.




Il primo dato che balza all'occhio analizzando la cavalcata della Colombia è quello relativo alla totale impermeabilità difensiva: nelle sei partite disputate Oscar Cordoba non subisce nemmeno un gol, a riprova di come il collettivo sia alla base del successo descritto.
Il commissario tecnico ottiene da ogni singolo giocatore il massimo possibile ed ogni incontro della rappresentativa colombiana sorprende in positivo per agonismo e sincronismi tattici perfetti.
A livello di singoli non si può non citare il capocannoniere della suddetta Copa America, Victor Aristizabal, apparso nel torneo al top della carriera.
I giudizi negativi vertono sul basso livello medio della Copa America 2001, priva delle stelle uruguaiane e brasiliane ed orfana dell'Argentina; tale analisi è indubbiamente veritiera, ma non rende merito alla prestazione della squadra vincitrice, meritevole di lodi per quanto mostrato sul campo.
Senza celebrati campioni ed in un periodo apparentemente di transizione del proprio movimento calcistico, la Colombia nel 2001 dimostra che la tattica, le motivazioni e lo spirito di squadra sono ancora fondamentali per vincere.


Giovanni Fasani

venerdì 20 marzo 2015

DOS ES MEJOR QUE UNA

Il calcio moderno si sa, è ormai troppo spesso comandato da televisioni ed emittenti varie, con la naturale conseguenza che ogni giorno, sugli schermi di tutto il mondo, ci sia per lo meno una partita di calcio.
Qualche tempo fa fu coniato l'appellativo di "calcio spezzatino" per definire una giornata di campionato distribuita su più giorni; passi insomma che una squadra anticipi il proprio impegno in vista dell'impegno europeo, ma purtroppo siamo sempre più abituati a vedere un turno del locale torneo distribuito in almeno tre giorni.
"Si gioca praticamente ogni tre giorni". Già, tre giorni, ormai la classica (e più che veritiera) frase che gli allenatori tirano fuori ogni qual volta i carichi di lavoro risultano quasi insostenibili.
Alla comunque buona organizzazione europea, fa da contraltare la proverbiale disorganizzazione sudamericana che vede nel torneo argentino di quest'anno l'ultima diavoleria di Julio Grondona, ex presidente dell'AFA (la federazione argentina) scomparso nel luglio scorso all'età di 83 anni.
L'idea di quest'ultimo è stata quella di organizzare una Primera Division con ben 30 squadre al via, con il non trascurabile particolare che al termine di questo, ancora non si sa (al momento di scrivere) chi prenderà parte alla Copa Libertadores 2016 e come sarà l'eventuale formula del successivo campionato, visto che più di un malumore è stato sollevato dagli addetti ai lavori.
Insomma, anche in Argentina (come nel resto del continente) si gioca ogni tre giorni anche se con una ben diversa "organizzazione" dei campionati.
Ma ciò che successe domenica 2 marzo 1997 ebbe ancora più dell'incredibile: erano in programma la 2° giornata del torneo Clausura e la 3° giornata dei gironi di Copa Libertadores, con la conseguenza che Racing e Velez dovettero giocare due partite nello stesso giorno.



Entrambe impegnate nella massima competizione continentale (per di più nello stesso girone, il 2), Racing e Velez dovettero affrontare una doppia trasferta in Ecuador e giocare l'una contro l'altra nel proprio paese. La follia più completa.
L'Academia era impegnata a Quito contro l'El Nacional, mentre il Fortin doveva vedersela contro l'Emelec in quel di Guayaquil.
Ma com'è possibile una cosa del genere? Non si poteva spostare (ragionevolmente) la partita per il Clausura? No, perché purtroppo il calendario era così fitto che nessun altro giorno poteva essere impiegato per recuperare una delle partite.
Le due squadre presero decisioni opposte: il Racing mandò le riserve a giocare la Libertadores, mentre il Velez decise di scendere in campo con i titolari per affrontare l'Emelec in testa al raggruppamento.
Con la squadra quindi farcita di giovani riserve, la squadra di Alfio Basile perse il proprio match per 2-0.



Non c'è tempo però per rimuginare sulla sconfitta, esattamente un'ora dopo i titolari devono scendere in campo contro il Velez, prendendosi un'alquanto strana rivincita per 2-0 grazie alle marcature di Claudio Marini e Marcelo Delgado.



A questo punto manca l'impegno del Velez a Guayaquil a completare una delle giornate più strane che l'intera storia del calcio abbia mai vissuto.
Giusto il tempo di una cerveza per los hinchas de la V e si torna a soffrire per i propri colori; i ragazzi di Osvaldo Piazza centrano una spettacolare vittoria per 3-2 grazie alla doppietta di Patricio Camps ed al gol di Martin Posse.


A testimonianza di quanto sia strano il destino, entrambe furono eliminate dallo stesso avversario: i peruviani dello Sporting Cristal, che prima ebbe la meglio sul Velez negli ottavi e poi battè in semifinale il Racing.
Il torneo Clausura andò invece al River Plate che dominò per tutto il semestre.
Ricordando questo episodio sembra quasi utopistico "lamentarsi" per le tante partite ravvicinate, ma siamo pur sempre in Sudamerica, futbolisticamente (e non solo) il continente più strano ed incredibile.


Matteo Maggio

martedì 17 marzo 2015

JAN TOMASZEWSKI

Il rapporto dell'Inghilterra con la Coppa del Mondo è stato da subito particolare ed a tratti tormentato: la sua prima partecipazione avviene nel 1950, dopo che per anni si era crogiolata su di una presunta e poco veritiera superiorità.
La pessima figura rimediata in Brasile ha costretto la federazione inglese ad un lungo lavoro di ricostruzione  che ha portato all'organizzazione del torneo del 1966, conclusosi proprio con la vittoria della selezione guidata da Alf Ramsey.
Da quello storico successo i "Leoni" hanno fatto fatica a rinverdire quei meravigliosi fasti, non ottenendo in alcune occasioni nemmeno la qualificazione alla fase finale.
Molto clamore ha destato la mancata partecipazione al Mondiale del 1974, sia per il valore della rosa e sia per come tale nefasto risultato è maturato.
Ad di là delle ovvie colpe della squadra inglese, la qualificazione in questione va appannaggio della sorprendente Polonia, che nello decisivo scontro diretto trova in Jan Tomaszewski un eroe inaspettato e da lì in poi uno dei più grandi portieri della storia del calcio.
 
 
Già da giovanissimo si mette in evidenza come una sorta di predestinato del ruolo, grazie ad un fisico imponente (193 cm) al quale abbina grande reattività ed una incredibile agilità.
Le sue doti naturali gli consentono di essere titolare di tutte le rappresentative giovanili e nel 1971 a 23 anni ha la grande opportunità di esordire nella nazionale maggiore.
Alla vigilia di un match contro la Germania Ovest sia il titolare Jan Jimola che il suo secondo Piotr Czaja risultano infortunati, lasciandogli di fatto la possibilità di difendere i pali della Polonia.
Quella che sembra una fortunata casualità si trasforma in una sfortunata prestazione da parte del giovane estremo difensore, additato come maggiore colpevole della sconfitta per 1-3.
Nonostante il brutto esordio e le inevitabili critiche, Tomaszewski non si perde d'animo e grazie alle brillanti prestazioni con il Lodz, sua squadra di club, resta nel giro della nazionale e si conferma titolare durante le qualificazione per il Mondiale del 1974.
Il sorteggio inserisce la Polonia nel girone 5 con il Galles ed appunto la favorita Inghilterra.
Alla vigilia dell'ultima giornata la rappresentativa polacca è prima con un punto di vantaggio sulla compagine inglese, in attesa che si disputi a Wembley proprio Inghilterra-Polonia.
Pubblico e stampa inglese sono sicuri di ottenere i due punti necessari per il passaggio del turno, non credendo nel valore della squadra allenata da Gorsky.
Le critiche non risparmiano nemmeno Tomaszewski, che nelle ore prima della partita viene etichettato come "clown" da Brian Clough, nelle vesti di opinionista televisivo.
L'inghilterra fa da subito la partita ed attacca con continuità, ma è la Polonia a passare in vantaggio grazie a Domarski, prima di subire il pareggio inglese ad opera di Clarke su calcio di rigore.
Da lì in poi la porta della Polonia viene presa d'assalto ed in tale contesto Tomaszewski sale in cattedra con formidabili parate, che mantengono il risultato in parità e valgono la sospirata qualificazione alla fase finale.
 
 
Nella partita in questione il portiere polacco mette in mostra un grande senso del piazzamento, che gli permette di essere sempre sicuro nelle respinte.
In più stupisce il pubblico per come vola da un palo all'altro a dispetto dell'altezza, deviando in più di un'occasione i precisi tiri dei giocatori inglesi.
Stilisticamente non sembra perfetto, ma è tremendamente efficace, tanto da respingere il pallone con ogni parte del corpo, senza mostrare nessun timore a buttarsi a capofitto in temerarie uscite.
Un'altra sua proverbiale caratteristica è la grande tranquillità con la quale gestisce ogni momento critico, trasmettendo sicurezza a tutta la retroguardia, messa sotto pressione dagli attacchi inglesi.
La grande personalità ed un certa propensione alla spacconeria lo accompagnano da sempre e lo rendono un personaggio particolare ed abile a gestire qualsiasi delicato momento della sua carriera.
In una sola gara diventa l'idolo calcistico del proprio paese, che ha ormai dimenticato il non positivo esordio e gli rende stavolta merito come principale artefice del sofferto risultato.
A fine partita viene rivelato un particolare che rende ancor di più leggendaria la prestazione del portiere polacco: a circa venti minuti dalla fine la sua mano viene calpestata da Clarke, provocandogli un intenso dolore ad un dito. Tomaszewski continua a parare sopportando il dolore e solo a fine gara gli viene diagnosticata la rottura del suddetto dito.
Quanto da lui fatto in quella storica notte a Wembley non sorprende invece Gorsky, che ben conosce le eccelse qualità del suo portiere, nel frattempo cresciuto sotto tutti i punti di vista.
La partita con l'Inghilterra lo rende più sicuro e gli conferisce quella consapevolezza nei propri mezzi che gli permette di costruire una carriera di altissimo livello.
Nella rassegna del 1974 è ovviamente uno dei portieri più attesi e le sue prestazioni non tradiscono le rosee attese, tanto da consentirgli, in aggiunta, di stabilire un prestigioso primato.
La Polonia si conferma subito come una delle nazionali emergenti a livello calcistico, tanto da vincere il suo girone a punteggio pieno, battendo Argentina (3-2), Haiti (7-0) e l'Italia (2-1).
La squadra di Gorsky attira su di se ammirazione e simpatia ed anche nel secondo girone vende cara la pelle, giocandosi fino alla fine la possibilità di disputare la semifinale.
Dopo aver battuto Svezia (1-0) e Jugoslavia (2-1) l'ultima giornata la mette di fronte alla Germania, anch'essa a punteggio pieno.
I futuri campioni del Mondo si dimostrano nei 90 minuti superiori ed hanno la meglio per 1-0.
Tomaszewski è tra i migliori in campo e tiene in partita i compagni parando un calcio di rigore ad Uli Hoeness.
 
 
Nel corso della rassegna è già riuscito nella medesima prodezza, intercettando il penalty dello svedese Staffan Tapper. Queste due parate lo rendono il primo portiere ad aver parato due calci di rigore nello stesso Mondiale.
Nell'Olimpiade del 1976 c'è ancora la Germania Ovest sul cammino della Polonia e di Tomaszewski: in questo caso la partita vale la medaglia d'oro e la squadra tedesca si impone per 3-1, con il portiere polacco che resta in campo solo per 16 minuti, con il risultato già sul 2-0.
Nonostante sia considerato uno dei portieri più forti in circolazione, viene costretto a continuare la sua carriera in Polonia, essendo presente un regolamento che vieta agli atleti polacchi di lasciare il paese prima dei trent'anni.
Le offerte non mancherebbero, ma nonostante anche le insistenze del Lodz, che ben guadagnerebbe da una sua cessione, il governo polacco mantiene in essere le suddette e coercitive disposizioni.
Solo nel 1978 ha la possibilità di tentare l'esperienza oltre confine, per giocare con la maglia dei belgi del Beerschot, sorprendendo che si sarebbe aspettato il suo approdo in un grande club.
Nello stesso anno ha la possibilità di partecipare al suo ultimo mondiale, volando con la propria rappresentativa in Argentina, con la volontà di replicare quanto di buono mostrato quattro anni prima.
La squadra è affidata dal 1976 a Jacek Gmoch e può contare sulle prestazioni del giovane astro nascente Zbigniew Boniek.
La Polonia vince come prima il girone iniziale, subendo una sola rete contro il Messico, ma nel secondo raggruppamento subisce una sconfitta per 2-0 contro l'Argentina che costa anche il posto a Tomaszewski. Il tecnico polacco punta su Zygmunt Kukla, il quale dopo aver mantenuto la porta inviolata nella vittoria contro il Perù, prende tre gol contro il Brasile, che determinano l'eliminazione della rappresentativa polacca.
Tale torneo resta l'ultimo evento di grande livello al quale prende parte, tenuto conto anche delle scelte da lui fatte in termini di club che non gli permettono di mettersi nuovamente in mostra a livello internazionale.
Con la maglia del Beerschot vince la Coppa del Belgio 1978/1979, ma la successiva partecipazione alla Coppa delle Coppe si ferma al primo turno per mano del Rijeka.
Il rapporto con il commissario tecnico si conferma sempre problematico, tanto che non viene più proposto titolare e nel 1981 mette fine al suo rapporto con i "biancorossi" dopo 63 presenze, che lo rendono il portiere con più presenze della suddetta rappresentativa.


Nel 1981 passa all'Hercules, ma l'integrità fisica risulta menomata e vive una stagione da comprimario, giocando solamente 12 partite.
Neanche il ritorno in patria nelle file del Lodz gli permette di riproporsi ad alto livello e dopo due stagioni tormentate dai problemi fisici decide di abbandonare l'attività nel 1984.
Gli ultimi anni non rendono merito ad una carriera vissuta ai massimi livelli, giocata per lo più in patria, salvo le brillanti prestazioni con la maglia della nazionale polacca.
Il suo grande carisma unito a grandi qualità fisiche lo rendono degno di attenzione laddove si voglia ricordare i portieri che hanno fatto la storia del calcio.
Per alcuni a lui è bastata la partita del 17 ottobre 1973, dove per tutti è diventato "The Man That Stopped England".


Giovanni Fasani
 

venerdì 13 marzo 2015

QUI-ROGA, A VOI ARGENTINA

Più volte ci siamo chiesti come sarebbe finita una determinata partita nel caso in cui ci fosse stato un protagonista in più, ossia quel giocatore che per infortunio o squalifica ha dovuto saltare un importante appuntamento con la storia.
Nel caso di Johan Cruijff l'aver saltato la finale del Mondiale 1978 non era per nessuna delle due cause sopracitate.
Il pluricampione olandese aveva deciso di non partecipare alla rassegna argentina in quanto in forte contrasto con l'allora dittatura del generale Videla, la quale aveva mietuto morte e terrore per circa 7 anni nel periodo compreso tra il 1976 ed il 1983.
Nel 1978 l'Argentina è la nazione designata per ospitare l'11° edizione del massimo torneo mondiale e l'occasione per fare bella figura agli occhi del mondo è troppo ghiotta per la dittatura che decise di investire un gran numero di soldi in televisioni, impianti e servizi vari. Tutto il mondo potè assistere quindi alla "perfetta" organizzazione di Videla e soci, senza sospettare che dietro a tutto quel denaro vi erano celati migliaia di imbrogli.
Il torneo entrò subito nel vivo sin dalle prime battute con la Germania campione che non andò oltre lo 0-0 nella gara inaugurale con la Polonia.
L'Italia vinse tre gare su tre (compresa la partita contro i padroni di casa grazie ad un bellissimo gol di Bettega) guadagnandosi l'accesso alla seconda fase dove troverà la forte Olanda, che pur priva di Cruijff è comunque squadra dura da battere.
Il Brasile strappò anch'esso il pass per la seconda fase grazie ad un gol di Roberto Dinamite che stese l'Austria già qualificata.
Al termine del primo girone l'Albiceleste allenata da Menotti, fu vittima di qualche critica da parte di alcuni tifosi che mal digerirono la sconfitta contro l'Italia; tuttavia i padroni di casa accedono al turno successivo in un girone che li vede uniti a Polonia, Brasile e Perù.
Il regolamento vuole che la vincitrice del girone acceda alla finalissima, mentre la seconda dovrà accontentarsi della finalina di consolazione.
Nella prima gara il Brasile strapazza 3-0 il Perù, mentre una doppietta di Mario Kempes spezza i sogni di gloria polacchi.
La seconda gara mette di fronte le storiche rivali, ma la partita tra l'Albiceleste e la Selecao si trasforma ben presto in un rodeo dove la fanno da padroni calci e pugni, il tutto risolto nello 0-0 finale.
Per uno strano fatto le ultime due partite del girone non vengono giocate allo stesso orario, con il Brasile che affronta la Polonia prima che l'Argentina giochi il suo match contro il Perù; a nulla servono le proteste brasiliane, così è deciso; da chi non si stenta a crederlo.
E' ancora Roberto Dinamite a decidere la sfida di Mendoza contribuendo con una doppietta al 3-1 finale dopo il momentaneo pareggio di Lato.
A questo punto i giochi sono chiari: all'Argentina servirà vincere con 4 gol di scarto contro il Perù per andare in finale ed affrontare l'Olanda che nel frattempo ha battuto l'Italia 2-1 nell'altro girone.
Alle 19:45 l'Estadio Gigante de Arroyito di Rosario è gremito da quasi 40.000 argentini pronti a spingere i propri beniamini verso il poker più importante della loro vita.


La porta peruviana è presieduta da colui che diventerà il principale sospettato della marmellata ordita per qualificare l'Argentina alla finale: Ramon Quiroga è difatti naturalizzato peruviano, ma nato in Argentina, ironia della sorte proprio a Rosario.
Quiroga è soprannominato El Loco per via di un carattere alquanto fumantino e bizzarro (ma efficace) tra i pali; inizia la sua carriera proprio nel Rosario Central per poi accettare, nel 1977, il secondo contratto con lo Sporting Cristal (squadra peruviana della capitale Lima).
Los Celestes però fanno di più: gli garantiscono anche il posto in nazionale qualora lui accetti di ottenere la cittadinanza peruviana.
Di buon grado Quiroga accetta, consapevole che nell'Albiceleste avrebbe avuto poche chance di partire titolare, chiuso da Fillol dopo che Menotti aveva volutamente rinunciato ad un altro Loco, Hugo Orlando Gatti.


Dopo un timido inizio dove il Perù colpsce un palo con Munante, l'Argentina passa dopo 21 minuti grazie ancora a Mario Kempes che si infila nella debole difesa avversaria per battere Quiroga con un preciso rasoterra.
Con l'andare della partita il Perù scompare praticamente dal campo, lasciando ampio spazio alla manovra argentina che raddoppia sul finire del primo tempo con Roberto Tarantini.
Nella ripresa la festa argentina è completata dalla doppietta di Leopoldo Luque, da un altro gol di Kempes e da René Houseman che fissano il 6-0 finale.
La sensazione è però lampante: il Perù ha fatto di tutto pur di tirarsi indietro e lasciare spazio alla vittoria, una vittoria premeditata e frutto di una dittatura che poco ha a che vedere con il calcio giocato.
Il Brasile deve arrendersi a questa goleada accontentandosi della finalina (vinta 2-1) contro l'Italia.


I sospetti di un complotto non furono mai del tutto confermati, solo a distanza di tempo la verità piano piano venne a galla.
E fu un libro a raccontarne i più interessanti particolari, El hijo del Ajedrecista, scritto da Fernando Rodriguez Mondragon, figlio di Gilberto Rodriguez Orejuela, capo del cartello di Calì, uno dei più feroci legato alla malavita colombiana.
Nel libro si racconta di un'ingente somma di denaro offerta ai peruviani pur di far passare l'Argentina; questo denaro fu finanziato appunto, dal cartello di Calì, che si sospettava avesse rapporti con il regime argentino.
Altro particolare fu quello raccontato dal centrocampista peruviano José Velasquez che, nonostante negasse qualsiasi tipo di complotto, ammise che fu strano ricevere la visita di Videla e Kissinger (foto sotto in un'immagine dell'epoca) nello spogliatoio prima dell'inizio della gara.
Ma il primo sospetto in assoluto lo si ebbe circa un anno dopo, quando Quiroga, sotto gli evidenti fumi dell'alcool, rivelò di non essere stato impeccabile (per così dire) nella partita in questione, con la federazione argentina che avviò un'indagine dove però tutti furono assolti, spedendo ben presto il caso nel dimenticatoio.


Molte cose furono dette a proposito di questa particolare sfida con la netta sensazione che del marcio c'era sin dall'inizio, da quando furono decisi gli orari delle sfide dell'ultima gara del secondo turno; un Mondiale nato sotto una stella sbagliata, figlio di una sporca dittatura che ha sempre agito nell'ombra e che si è fatta bella agli occhi del mondo.
Sportivamente parlando avremo sempre il dubbio di come sarebbe poi potuta andare la finale con gli olandesi se in campo ci fosse stato Johan Cruijff, da sempre sensibile alle cause democratiche, a tal punto di dire no anche alla regina Giuliana che lo implorò di partecipare a quel Mondiale.


Matteo Maggio

martedì 10 marzo 2015

LARSEN ELKJAER

Lo scudetto vinto dal Verona nel 1985 è sicuramente uno dei più inattesi della storia recente del calcio italiano, tanto che a riguardo ci sono state le più differenti analisi.
Tutte le volte che si ricorda tale storico evento si menzionano il sorteggio arbitrale, giocatori desiderosi di rifarsi dopo essere stati "scartati" dai  grandi club, la lezione di tattica impartita da Osvaldo Bagnoli e la fortuna.
Tali fattori sono sicuramente veritieri e di fondamentale importanza, ma l'accento andrebbe messo sulla coppia di stranieri ingaggiata proprio alla vigilia di quella vincente stagione.
Con Hans Peter Brigel il Verona acquista un portentoso mix di potenza ed efficacia, ma con Preben Larsen Elkjaer il presidente Celestino Guidotti porta nella città di Giulietta e Romeo un autentico fuoriclasse.
 
 
Il giocatore danese muove i primi passi proprio in patria, dove con la maglia del Vanlose esordisce in prima squadra, mettendosi da subito in mostra per le sue naturali qualità.
Dotato di una grandissima potenza, ha nella progressione la sua dote migliore, che gli consente di superare con facilità il diretto marcatore e di creare lo scompiglio nelle retroguardie avversarie.
Il suo ruolo naturale è quello di seconda punta, dove riesce a sfruttare al meglio le sue straordinarie doti fisiche ed atletiche.
Agli albori della sua carriera si guadagna il soprannome di "Cavallo Pazzo", proprio per la sua vocazione nel partire palla al piede, senza rispettare schemi o raccomandazioni.
All'inizio questa sua tendenza lo porta ad essere poco lucido nei pressi della porta, dove arriva con facilità, anche grazie ad una tecnica di base in continuo miglioramento.
Alcune voci lo vogliono anche dedito all'alcol e sembra che non si faccia molti problemi a concedersi qualche serata di troppo.
Su di lui scommette il Colonia, che nel 1976 decide di investire su questo talentuoso diciannovenne ancora da sgrezzare, ma dal sicuro talento.
In Germania resta due stagioni, ma, nonostante la vittoria di una Bundesliga e di una coppa nazionale, vive ai margini della prima squadra, giocando solo 9 partite nel biennio in questione.
Il suo atteggiamento non è però quello di un vero professionista ed il suo utilizzo è fortemente penalizzato da infortuni e squalifiche.
Molto chiacchierata è la sua vita notturna, tanto che le malelingue sostengono che sia il tecnico  Weisweiler a sollecitarne la cessione, in quanto stufo degli atteggiamenti del danese.
Fatto sta che nel 1978, a soli ventuno anni, prende la decisione di lasciare Colonia, per avere la possibilità di giocare con continuità e di mettere in mostra tutto il suo talento.
Passa quindi al Lokeren, per il quale diventa un giocatore cardine e grazie al quale compie quell'auspicato salto di qualità.
In cinque stagioni segna 98 reti in 190 partite e diventa un vero incubo per tutte le difese, impossibilitate a contenere la potenza e l'estro della punta danese.
Diventa anche l'idolo della locale tifoseria, che stravede per lui per quanto fa in campo, ma anche per il suo stile di vita: anche in Belgio non disdegna qualche bicchiere di troppo e pare sia avvezzo a presentarsi al campo di allenamento a cavallo. A seguito di tutto ciò si guadagna in terra belga il nomignolo di "Pazzo di Lokeren".
Si rende protagonista di grandi imprese, come di una clamorosa tripletta contro lo Standard Liegi, decisiva per ribaltare l'iniziale 0-3 in un trionfale 5-3.
Inoltre in più di una partita si carica letteralmente la squadra sulle spalle, dimostrandosi un leader ed affinandosi maggiormente in zona gol.
Nel 1984 ha la possibilità di giocare il primo grande torneo con la Danimarca, dopo aver esordito con detta rappresentativa già nel 1977.
 
 
L'occasione è il Campionato Europeo in Francia, dove la squadra scandinava arriva fino alla semifinale e Larsen Elkjaer si mette all'attenzione dei più grandi club europei.
L'attaccante del Lokeren segna due reti nel girone: una nella vittoria per 5-0 contro la Jugoslavia ed una decisiva nel successo per 3-2 contro il Belgio.
 
 
L'avventura della squadra di Piontek termina per mano della Spagna, che ha la meglio solo ai calci di rigore: ironia della sorte, è proprio Larsen Elkjaer a sbagliare il quinto e fatale tentativo.
Al termine della rassegna alcune importanti squadre si rivolgono al Lokeren per guadagnarsi le prestazioni del poderoso attaccante. Tra compagini del calibro di Tottenham e Paris Saint Germain la spunta l'ambizioso Verona, che vede in Larsen Elkjaer il giocatore ideale per scardinare le difese italiane.
Le indicazioni di Osvaldo Bagnoli si dimostrano di vitale importanza per la definitiva consacrazione dell'attaccante danese: il tecnico milanese riesce a disciplinarlo tatticamente, ottenendo da lui un maggior contributo al gioco corale, ma lasciandogli comunque sufficiente libertà per le consuete cavalcate.
In particolare Bagnoli lo  rende più continuo, evitando che si faccia trascinare dall'umore e che si abbandoni ad atteggiamenti non proficui per l'economia della squadra.
Con Giuseppe "Nanu" Galderisi forma una coppia offensiva molto affiatata, che nella stagione 1984/1985 trascina a suon di gol il Verona alla conquista del campionato.
Le difese italiane fanno davvero fatica a contenerlo, essendo poco avvezze ad avere a che fare con attaccanti così potenti ed inclini a partire da lontano.
In tal modo riesce ad aprire molti spazi per i compagni, per i quali si impegna con grande generosità e dai quali riceve comunque palloni invitanti.
Larsen Elkjaer mette a segno 8 reti in campionato, una delle quali diviene addirittura storica, perché segnata alla Juventus e per giunta senza una scarpa.


Tale episodio gli regala il simpatico soprannome di "Cenerentolo", anche se nella città scaligera diventa per tutti "Il Sindaco", a riprova del suo carisma e del suo fondamentale contributo alla causa.
Nonostante sembri più tranquillo fuori dal campo, si fa notare per un suo atteggiamento nell'intervallo delle partite: i suoi compagni confermano che sia solito fumare una sigaretta negli spogliatoi, soprattutto per lenire la tensione del match.
La sua esperienza a Verona continua però senza altre vittorie, ottenendo solo mediocri posizioni in campionato.
Il suo contributo in termini di gol si ferma a 32 in 91 partite di campionato, ma sono almeno altrettanti quelli che favorisce più o meno direttamente.
La stagione successiva la squadra di Bagnoli fa il suo esordio in Coppa dei Campioni, interrompendo la sua corsa negli ottavi contro la Juventus.
In tale torneo Larsen Elkjaer realizza quattro reti, corrispondenti a due doppiette nella sfida contro il Paok Salonicco.
Anche alla luce di queste ottime prestazioni in campo europeo si piazza al secondo posto nel Pallone d'Oro 1985 alle spalle di Michel Platini, confermandosi sul prestigioso podio del trofeo dopo il terzo posto dell'anno prima.
Nel 1986 ha la possibilità di partecipare al suo primo Mondiale, grazie alla prima storica qualificazione della Danimarca ad una fase finale.
La squadra danese si mette in luce come una delle più positive sorprese della rassegna, tanto da vincere il girone a punteggio pieno. Larsen Elkjaer  segna nella gara d'esordio contro la Scozia, regalando il successo per 1-0 agli scandinavi e nella seconda gara rifila una tripletta all'Uruguay, contribuendo al clamoroso 6-1 finale.


Nonostante le positive indicazioni fornite, negli ottavi di finale la Danimarca perde addirittura 1-5 contro la Spagna, trascinata dal poker Emilio Butragueno.
La delusione è tanta, nonostante Larsen Elkjaer venga considerato uno dei giocatori migliori dell'intera rassegna.
Nella 1987/1988 la punta del Verona riesce a mettersi ancora in luce nel contesto internazionale, disputando un'ottima Coppa Uefa con il club scaligero: in tale contesto trascina i compagni fino ai quarti di finale, grazie alle solite giocate condite da 5 reti.
Al termine della stagione partecipa al deludente Europeo in Germania, conclusosi con tre sconfitte per la rappresentativa allenata da Piontek. Conclusosi il torneo considera conclusa la sua esperienza con la nazionale, chiudendo con un bottino di 38 reti in 69 partite.
Nella stessa estate decide di lasciare il Verona ed anche il calcio italiano, accettando di buon grado di ritornare in patria, per giocare per due stagioni nel Vejle.
La scelta è dettata da una condizione atletica non più al massimo e dal fatto di ritenere conclusa la sua esperienza con l'Italia; a tal proposito rifiuta altre offerte da parte di altre squadra italiane, dichiarando che per lui esiste solo la maglia del Hellas Verona.
Quest'ultima dimostrazione di affetto lo rende ancora di più un mito agli occhi della tifoseria gialloblu, che mai dimenticherà le giocate del Sindaco.


Nel 1990 a soli trentatré anni decide di chiudere la carriera, lasciando la sensazione di aver avuto di fronte un giocatore difficilmente ripetibile.
Tra generosità ed un pizzico di incoscienza, va ricordato come uno dei giocatori più forti del periodo, dimostrandosi molte volte immarcabile per le retroguardie avversarie.
I numeri non lo consacrano come un cannoniere, ma la sua importanza all'interno di una squadra è probabilmente superiore a quella di un vero e proprio bomber.
Difficile trovare difetti in una calciatore che da cavallo pazzo è diventato sindaco...


Giovanni Fasani