Josè Mourinho è sicuramente uno dei tecnici migliori degli ultimi anni, essendosi cucito addosso la sacrosanta nomea di vincente. Le sua spiccata personalità ha attirato su di lui anche qualche antipatia, ma non vi è dubbio che sia uno dei migliori nella difficile impresa di assemblare una squadra.
Al momento è un manager da top club ed il suo nome basta talvolta per attirare grandissimi campioni, desiderosi di essere allenati dal tecnico portoghese.
La sua scalata ai massimi livelli inizia in patria, dove dopo varie esperienze passa al Porto, con il quale vince praticamente tutto.
Nella stagione 2002/2003 ottiene il suo primo Triplete, mettendo in bacheca il campionato, la coppa nazionale e la Coppa Uefa.
Come tutti sappiamo lo Special One è altamente ambizioso e la stagione successiva riesce addirittura a superarsi, vincendo con il Porto la Champions League.
I Draghi riescono nell'impresa dopo un entusiasmante torneo, vinto dopo aver eliminato turno dopo turno avversari sulla carta superiori o più blasonati.
Il tecnico di Setúbal costruisce una squadra a sua immagine e somiglianza, perfettamente organizzata, determinata e dal profilo tecnico notevole.
Ci sono giocatori che sono passati alla storia per aver dato il proprio nome ad un particolare gesto tecnico, garantendosi così l'immortalità.
Ovviamente la stragrande maggioranza di questi atleti può essere insignita dell'appellativo di campione, perché solamente i grandi giocatori possono creare una giocata nuova o un nuovo modo di interpretarne altre.
Ancora più difficile è inventare qualcosa in epoca più o meno moderna, quando i fondamentali del calcio sono perlopiù definiti e grandi campioni hanno già visto e rivisto gli stessi.
Terza parte del nostro percorso attraverso piccoli aneddoti del passato calcistico. Ringraziamo ancora una volta Adriano Meazza ed il giornale Nduma Insà.
Anni dispari…
favorevoli
– Curiosità: Juan Alberto Schiaffino, uno dei più grandi calciatori di tutti i
tempi, vinse lo scudetto col Penarol in Uruguay nel 1949-’51 e ’53 e col Milan
nel ’55, ’57 e ’59. Definizione datagli dal grande Gianni Brera e tratta da
internet: “Forse il più grande regista che sia mai esistito. Aveva nei piedi
due fari con i quali inventava e illuminava il gioco,”
Rinunce forzate: Le rappresentative
danubiane rinunciarono in massa ai mondiali del 1950. La caotica situazione in
cui versavano i paesi dell’Europa centrale non permise loro di allestire
formazioni adeguatamente strutturate. Oltre a ciò, le condizioni economiche
delle nazioni non permisero il compiersi di vari progetti. Morale: Austria - pur
dopo una regolare iscrizione alle qualificazioni - Cecoslovacchia ed Ungheria
se ne rimasero a casa. Soprattutto i magiari avrebbero potuto recitare da
protagonisti: erano i tempi di una superba fioritura di campioni, con i vari
Puskas, Kocsis, Czibor e Hidegkuti pronti a mettersi in mostra.
Banks saracinesca: Inghilterra,
Mondiale 1966 – Il portiere della nazionale inglese Gordon Banks stabilisce il
record di imbattibilità iniziale. Per 442 minuti la sua porta non capitola; a
superarlo per primo in semifinale è il portoghese Eusebio, ma soltanto su
calcio di rigore. Banks migliora il record stabilito da Gilmar ai mondiali del
1958, quando il portiere brasiliano fu battuto dopo 369 minuti di gioco dal
centravanti francese Fontaine.
Portieri dormienti: Nel corso di una partita
di fine anni ’40, Milan-Sampdoria, disputata a Marassi, lo svedese Nils
Liedholm colse impreparato l’estremo difensore blucerhiato con un tiro da metà
campo, Non ricordo però il nome del malcapitato portiere doriano (Bonetti?). E
sempre a proposito di Liedholm, per un passaggio sbagliato, dopo ben mille e
passa minuti di calcio giocato senza incorrere nel benchè minimo errore in fase
di appoggio, ricevette affettuosamente uno scrosciante applauso dal pubblico
per questa… sua disattenzione.
Promesse non
mantenute;
Guillermo Stabile fu acquistato dal Genoa, rivale della Pro Vercelli ai tempi
dei pionieri del calcio, al termine dei mondiali del 1930 svoltisi in Uruguay e
nei quali fu capocannoniere con 8 reti. Il regime fascista impose subito alla
società ligure di italianizzarne il nome. Era soprannominato “el filtrador” per
la sua facilità di infiltrarsi in area di rigore palla al piede. Ebbe una discontinuità di rendimento causata, oltre
che da dissapori con l’allenatore, anche da infortuni di gioco (nel ’31, tentando
di scavalcare il portiere alessandrino Rapetti, si ruppe la gamba destra).
Giocò in seguito nel Napoli e nel Red Star in Francia prima di rientrare in
Argentina, dove rimase alla guida della Seleccion per vent’anni, fatto
clamorosamente insolito per quel calcio.
Fughe clamorose: Jimmy Greaves,
attaccante inglese del Chelsea, venne ingaggiato dal Milan nella stagione 1961-62,
ma dopo alcune partite nelle quali aveva fatto intravedere indiscusse qualità,
se ne ritornò in Inghilterra. Emulò, una dozzina di anni dopo, in questa sua
fuga improvvisa e che colse tutti di sorpresa, l’argentino Boyè, attaccante del
Genoa che piantò tutti in asso andandosene alla chetichella.
Il
Milan non lo rimpianse più di tanto, in quanto la sua sostituzione con il
“classico” brasiliano Dino Sani in cabina di regia si rivelò una mossa
azzeccatissima che portò alla conquista dello scudetto. Calcarono i
palcoscenici italiani in quegli anni, seppur per un breve periodo, alcuni
calciatori provenienti d’oltre Manica: Hitchens (centravanti
dell’Inter), Law e Baker, entrambi attaccanti scozzesi del Torino.
Tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900 si assiste in molte nazioni europee alla rapida diffusione del gioco del calcio, caratterizzata dal moltiplicarsi degli appassionati e dalla nascita delle prime società sportive.
Il passo successivo non può che essere la creazione di rappresentative nazionali, creando così i presupposti per le prime sfide internazionali tra squadre di stati diversi, creando le pionieristiche basi per le grandi competizioni che oggi stiamo ammirando.
A quei tempi l'Ungheria è una delle nazioni più attiva dal punto di vista calcistico, tanto da far esordire la sua nazionale già nel 1902, in una sfida contro l'Austria.
Viene da se che la nazione magiara è da subito considerata come un riferimento per buona parte dell'Europa, ammirata dalla sua applicazione tecnico-tattica e dai primi grandi giocatori che detta nazione propone.
A tal proposito a partire dal 1906 tutto il vecchio continente fa la conoscenza di un eccezionale centravanti, dalla media realizzativa portentosa e dallo straordinario palmares.
Imre Schlosser può essere definito come uno dei primi campioni del calcio europeo, alla luce di una lunga e strabiliante carriera.
Nato a Budapest nel 1889 si appassiona subito al gioco del calcio, tanto da esordire a soli 17 anni con la maglia del Ferencvaros, per il quale gioca fino al 1915.
Con le Aquile Verdi vince ben 6 campionati ed altrettanti titoli di capocannoniere, realizzando complessivamente 258 reti in 155 partite di campionato.
I numeri sono come sempre frutto degli scarsi dati disponibili, ma certificano comunque la figura di un eccezionale attaccante d'area, temuto da tutte le difese in quanto micidiale in fase di conclusione. Non è però un semplice finalizzatore, ma anche un giocatore intelligente in grado di muoversi in modo arguto ed utile al gioco della squadra.
Alla luce del suo leggendario fiuto per il gol diventa anche il realizzatore principale della nazionale, per la quale fa il suo esordio nel 1906 in una pareggio per 4-4 contro la Boemia e per la quale segna il primo gol un mese più tardi contro l'Austria. Si fa conoscere anche dal pubblico italiano a seguito della seconda partita ufficiale della nazionale italiana: a Budapest l'Ungheria vince 6-1 e Schlosser segna una doppietta.
Nel periodo considerato non esistono ancora i grandi tornei per nazionali e sono quindi i Giochi Olimpici a rappresentare il palcoscenico calcistico più prestigioso ed ambito.
Schlosser partecipa all'edizione del 1912, dove l'Ungheria viene eliminata già al primo turno per mano della forte Inghilterra.
La rappresentativa ungherese vince comunque il torneo di consolazione ed il suo prolifico centravanti realizza una tripletta in semifinale contro la Germania ed apre le marcature nella vittoria finale contro l'Austria per 3-1.
Come anticipato nel 1915 cambia squadra di club, passando all'MTK Hungaria, squadra con la quale vince altri 6 campionati ed il suo settimo ed ultimo titolo di miglior marcatore.
Anche in questo contesto i suoi gol realizzati sono superiori alle presenze: in 125 apparizioni va a segno 141 volte, risultando in assoluto il miglior giocatore della squadra biancoblu.
Nel 1922 decide a sorpresa di interrompere la sua carriera agonistica per dedicarsi a quella di allenatore ed ancora più a sorpresa opta per un trasferimento in Svezia.
Diventa infatti l'allenatore del Norrkoping, squadra con la quale non riesce però a vincere nulla, ottenendo solamente un sesto ed un quinto posto nelle due stagioni trascorse in Scandinavia.
Nella stagione 1924/1925 si propone nel medesimo ruolo nel Wisla Cracovia, dove, nonostante vinca il girone regionale, viene eliminato nel torneo finale volto a determinare il campione nazionale.
Al termine di questa esperienza decide di riprendere l'attività calcistica, spostandosi dalla Polonia all'Austria, per giocare con il Wiener Sport Club.
Per la squadra austriaca allena anche le formazioni giovanili e scende in campo 17 volte, realizzando comunque 6 reti.
La rinnovata volontà di essere un calciatore lo spinge nel 1926 a ritornare in patria per giocare nuovamente con la maglia del Ferencvaros.
Con la squadra di Budapest gioca una sola stagione, ma risulta assolutamente decisivo per il successo finale in campionato, segnando 11 reti nelle 14 partite disputate. Tale convincente prestazione gli permette di ritornare anche in nazionale, per la quale gioca le sue ultime tre partite, dove, peraltro, non riesce ad andare a segno.
Con la rappresentativa magiara chiude con l'invidiabile bilancio di 59 reti in 68 apparizioni: per anni risulterà il miglior realizzatore di tutti i tempi e sarà Ferenc Puskas a superarlo nel 1953, segnando nella vittoria per 3-6 contro l'Inghilterra.
L'anno successivo approda al Kanzum dove chiude definitivamente la carriera, dopo 9 partite giocate ed una rete realizzata. Riassumendo il suo bilancio finale non si può non notare i ben 13 campionati vinti da giocatore, ai quali ha partecipato con un numero ancora impressionante di gol. Quando si parla di giocatori di quell'epoca la domanda è sempre la stessa: "Ma quanti esattamente?". Le statistiche più attendibili parlano di 411 reti in 309 partite di campionato ungherese, con una media realizzativa che nessun altro calciatore magiaro riuscirà più nemmeno ad avvicinare. I gol segnati nell'era pionieristica vanno sempre tarati considerando il livello di tale epoca e valutando la scarsa attitudine difensiva che le squadre erano solite avere. Tuttavia se tale idioma è valido, allora risulta valido anche quello che asserisce che "fare gol è sempre difficile e farne tanti ancora di più". Considerato tutto questo non si può che considerare Imre Schlosser come uno dei primi grandi campioni della storia del calcio e, considerando un termine successivo alla sua epoca, un autentico bomber.
Seconda parte degli aneddoti dal passato calcistico, ringraziamo ancora una volta l'autore Adriano Meazza ed il giornalino Nduma Insà.
Si diceva che Boniperti, ai premi in denaro
corrisposti dalla Juventus a fronte delle partite vinte, preferisse quelli “in
natura” e cioè mucche selezionate, scelte negli allevamenti degli Agnelli. Così
la sua tenuta nel Novarese si allargò, diventando un’azienda modello.
Vessillo bianconero di tutti i tempi, viene
subito adottato dai tifosi, ripagandoli con tutti gli sprazzi della sua genuina
classe: illuminanti aperture per le punte, cross dal fondo calibrati al
millimetro, nervosi guizzi verso la porta avversaria, tiri secchi e improvvisi
che non lasciavano scampo ai portieri. Incarnò,”Boni”, due Juventus altrettanto
belle: quella sul finire degli anni quaranta-inizio cinquanta con i superlativi
danesi J. Hansen e Praest e, sempre sul finire del medesimo decennio, quella
con lo strepitoso Sivori e il poderoso centravanti gallese J. Charles che,
oltre a realizzare caterve di gol, riusciva, grazie alla statura supportata da
una notevolissima stazza fisica, a togliere dalla propria porta, in fase
difensiva, palloni che sembravano destinati in fondo al sacco. Merita una
particolare menzione il gallese poiché, come il centravanti milanista Nordahl,
era, sul campo, di una correttezza
esemplare (da qui l’appellativo di “gigante buono”).
“Coniglio” Altafini. E’ stato tra i più
completi attaccanti approdati in Italia. Vi giunse alla fine degli anni ’50 nel
campionato 1958-59, con scudetto vinto dalla compagine rossonera avvalendosi
degli ultimi sprazzi della genialità di Schiaffino e della classe dell’altro
“vecchio drago” Nils Liedholm e portandosi appresso il soprannome di “Mazzola”,
datogli dal padre in segno di ammirazione per il grande centrocampista del
Torino Valentino Mazzola, a seguito di una tournée fatta in brasile dalla
squadra granata. Giocò fino a trentotto anni indossando le casacche di Milan,
Napoli e Juventus. E’ rimasto negli annali calcistici l’appellativo di
“coniglio”, affibiatogli dal general manager Gipo Viani, poiché, nelle mischie
d’area, si “nascondeva” preoccupandosi unicamente della incolumità delle
proprie gambe.
“Tacchino Freddo”. In verità il nomignolo è
alquanto divertente e originale e venne affibbiato dai tifosi nerazzurri, a
causa della sua proverbiale lentezza, a Eddie Firmani, centravanti di origine
inglese e di provenienza sampdoriana. Venne acquistaso sul finire degli anni
’50 assieme al “lungagnone” svedese Lindskog, calciatore che non lasciò traccia
nella storia del club nerazzurro (quest’ultimo proveniva dall’Udinese).
Carattere di … acciaio. Obdulio Jacinto
Varela, formidabile stopper della nazionale “Celeste” (Uruguay) e suo vero
trascinatore in campo e nello spogliatoio, per scuotere i suoi compagni sotto
di 0 – 1 al termine del primo tempo della finalissima con il Brasile (1950)
così si rivolse nello spogliatoio al centravanti Miguez: “ Non vedi che faccia
da stupido ha il loro portiere?! Vorresti farmi credere che proprio tu non sei
in grado di segnargli almeno due gol?” E al difensore Gambetta: “Tu devi
marcare Chico. Se gli fai toccare anche un solo pallone dovrai vedertela poi
con me”. Come se le sue parole fossero state profetiche, nelle ripresa ci fu la
rimonta uruguagia.
Un’ultima curiosità: non perse mai un
confronto mondiale; nella gara contro l’Inghilterra del 1954 si infortunò e non
disputò il successivo incontro perduto contro l’Ungheria.
Corsi e ricorsi calcistici. L’Inter
nell’annata 2001-02 vide sfumare lo scudetto all’ultima giornata perdendo in
casa della Lazio per 4 – 2, mentre la Juventus vinceva a Udine per 2 – 0.
Esiste un analogo precedente fra le due squadre e risale al campionato 1934-35.
All’ultima giornata bianconeri e nerazzurri si trovavano a pari punti ed
entrambe dovevano giocare in trasferta: la Juve a Firenze e i nerazzurri
(guarda caso) a Roma con la Lazio. Finì che la Juve vinse a Firenze per 1 – 0,
mentre l’Inter fu sconfitta per 4 – 2. Incredibile come da lassù una regia
irridente e beffarda si sia divertita a far uscire dal magico bussolotto i
quasi identici punteggi.
Liedholm, che allenò il Milan, la Roma e
altre formazioni, aveva “il pallino” di scegliere i rinforzi per le sue squadre
in base ai loro … segni zodiacali.
L'Italia degli anni '50 è un paese in forte ripresa economica con il calcio a fare da splendido intrattenimento.
L'interesse intorno ad esso spinge diverse abbienti persone ad investire nelle squadre italiane, rendendole in grado di acquisire le prestazioni dei giocatori più forti a livello internazionale. Gli anni '60 si aprono però all'insegna dell'austerità ed anche al pianeta calcio è chiesto di limitare le spese per i giocatori stranieri
L' Europa ed il Sudamerica restano comunque terra di conquista per i dirigenti italiani, alla ricerca di grandi campioni o presunti tali.
Ovviamente i mezzi per visionare i giocatori sono molto limitati e molte volte solo le recensioni di qualche addetto ai lavori risulta disponibile per il completamento della trattativa.
Decisivo in tal senso è il fiuto dei presidenti, nell'incertezza di fare un affare o di prendere una cantonata.
Nel 1959 i dirigenti della Roma, nonostante il clima votato al risparmio, decidono di tesserare un prolifico attaccante argentino, Pedro Manfredini, ancora oggi osannato dai tifosi giallorossi.
Il giocatore si guadagna il suo storico soprannome di Piedone ancora prima di scendere dall'areo che dall'Argentina lo porta nella capitale.
Tale nomignolo è però fonte di un equivoco: poche persone lo avevano visto fisicamente in precedenza e quando scende dalla scaletta dell'areo gli viene fatta una foto con il suo piede in primo piano, che per la prospettiva appare grandissimo.
In realtà i suoi piedi sono normalissimi, ma basta la foto in questione a scatenare un pizzico di ilarità e di dubbiosità sul valore del calciatore.
Tali chiacchere non tengono conto di quanto da lui fatto in patria con la maglia del Racing Club, dove ha vinto il campionato nel 1958 e dove ha segnato 28 reti in 39 partite.
Prima di accettare l'offerta della Roma partecipa alla Copa America con la nazionale, giocando tre partite e segnando un doppietta nella gara inaugurale contro il Cile.
Stranamente quelle risultano essere le sue uniche presenze con la maglia Albiceleste, nonostante le sue qualità ed una media realizzativa altissima nei migliori anni della carriera.
Per dissipare completamente i dubbi sul suo valore impegna solamente cinque minuti, sufficienti per trovare il suo primo gol nella gara d'esordio.
Si mette subito in luce come un centravanti dalla gran classe e dalle movenze rapide, in grado di trovare la rete in molti modi.
E' dotato di un ottimo spunto personale e davanti al portiere dimostra grande freddezza e lucidità nel scegliere sempre la soluzione giusta.
Detta alla perfezione il passaggio ai compagni e dentro l'area si muove alla perfezione, mostrando un gran controllo palla ed anche un dribbling efficacissimo.
Ama partire anche da lontano e la sua falcata gli permette di avere la meglio anche al cospetto di difensori veloci e rapidi nei movimenti.
Tali doti fisiche sono leggermente menomate da un infortunio subito in patria, causato da una brutta entrata di Jorge Griffa che gli rompe il menisco e gli lesiona il legamento.
Nonostante la lunga degenza si presenta a Roma in ottime condizioni e nel primo campionato realizza 16 reti.
L'anno dopo si migliora, portando le sue segnature a 20, realizzando addirittura quattro triplette nelle prime otto giornate.
Tuttavia è nella Coppa delle Fiere 1960/1961 dove il centravanti argentino risulta maggiormente decisivo per la propria compagine.
La Roma vince il torneo dopo la doppia finale contro il Birmingham, trascinata dai gol di Manfredini, che vince la classifica cannonieri con 12 reti. Molto importanti risultano le due segnate in Inghilterra nell'atto finale, che permettono alla squadra italiana di impattare per 2-2.
Le sue prestazioni continuano ad essere molto positive e nella stagione 1962/1963 vince per la prima ed unica volta la classifica dei marcatori della serie A con 19 reti.
Nelle stesso anno risulta essere il miglior realizzatore della Coppa delle Fiere in coabitazione con il brasiliano Waldo del Valencia, anche se la Roma abbandona la competizione in semifinale.
La stagione successiva arriva la prima Coppa Italia, conquistata a seguito di un'equilibrata finale contro il Torino. Manfredini è decisivo nei vari turni eliminatori e con 4 reti risulta il miglior marcatore del suddetto torneo.
E' proprio a questo punto che i descritti problemi fisici iniziano maggiormente a farsi sentire e nelle successive due stagioni gioca in pratica la metà delle partite in calendario.
Nel 1965 decide di abbandonare la Roma, con un bottino complessivo di 104 reti in 164 partite, la maggior parte delle quali realizzate nelle prime quattro stagioni.
Si trasferisce così al Brescia, dove ancora una volta viene limitato dai problemi fisici, che gli consentono di scendere in campo solo 8 volte in campionato, dove segna una rete.
L'anno successivo accetta l'offerta del Venezia neopromosso in A, per il quale gioca solamente 14 partite segnando 3 gol.
La squadra lagunare retrocede al termine della stagione e Manfredini accetta di scendere nella seria cadetta per aiutare la squadra in difficoltà.
Il ginocchio però non gli dà tregua e riesce a scendere in campo solo 8 volte, non riuscendo ad impedire la retrocessione della squadra in serie C.
A questo punto a 33 anni decide di interrompere la carriera, limitata solo nella parte finale dai già citati acciacchi.
Ancora oggi i più attempati tifosi della Roma non hanno dubbi: Manfredini è il più forte centravanti della storia giallorossa.
Ovviamente nel tempo la squadra capitolina ha avuto la fortuna di avere autentici fenomeni nel ruolo, ma il ricordo e le gesta di Piedone lo rendono immortale, anche perché alle sue segnature sono legati i primi successi.
Il suo legame con la Roma lo porta a restare in Italia al termine dell'attività, decidendo di aprire un bar che porta il suo storico e fortunato soprannome: Piedone. Giovanni Fasani