venerdì 31 ottobre 2014

ALLA FACCIA DEL RECORD

Nella mente di ogni appassionato di calcio, la parola "record" stuzzica sicuramente la fantasia. Si possono citare i 5 titoli mondiali del Brasile, le 10 Coppe Campioni del Real Madrid oppure i diversi titoli vinti dai Rangers e dal Celtic in Scozia. Insomma, la nostra mente può tranquillamente spaziare da una grande impresa ad un'altra senza scervellarsi più di tanto.
Ma ci sono anche dei record che in pochi conoscono perché mai arrivati sui nostri giornali o se ci sono arrivati sono ovviamente state cose di un giorno che facilmente si dimenticano.
Per esempio, se qualcuno vi domandasse chi è il giocatore che ha segnato più gol in una partita ufficiale? Pelè? Maradona? Van Basten? Messi? Uno dei due Ronaldo? Nulla di tutto ciò, colui che ha segnato più gol di tutti in una partita è Panagiotis Pontikos, attaccante cipriota classe 1979, che fino al 7 maggio 2007 era un perfetto sconosciuto a tutti i media europei (e forse pure ciprioti).

Quel giorno era in programma la partita tra l'Olympos Xylofagou (squadra di Pontikos) ed il S.E.K., squadra che occupava l'ultima piazza del campionato di terza divisione. Con gli ospiti già retrocessi, all'Olympos serviva una vittoria per festeggiare la promozione in quella che è la serie B della piccola isola del Mediterraneo.
Tale partita finì con un sonoro quanto estemporaneo 24-3 con Pontikos che realizzò due terzi delle reti della propria squadra. Di fatti, con 16 gol realizzati, l'attaccante cipriota ha scritto il proprio nome nella storia del calcio facendo spendere parole di elogio anche a Costakis Koutsokoumnis, presidente della federazione cipriota: "E' la prima volta da che sono nel calcio che mi capita di vedere una cosa del genere, anche perché si tratta di una goleada messa a segno da un unico giocatore in un'unica partita e questo è l'aspetto ancora più incredibile della vicenda".
Fonti mai confermate viste le scarse notizie dell'epoca, mettono Pontikos al fianco di Stephan Staniso, autore dello stesso numero di gol per il Racing Parigi in una partita di Coppa di Francia del 1942 contro l'Aubury Asturies.


Prima della coppia Pontikos-Staniso, il record di gol in una partita era detenuto da Archie Thompson, attaccante australiano, che l'11 aprile 2001 mise a segno 13 gol nella partita contro le Samoa Americane, valevole per le qualificazioni oceaniche al mondiale nippo-coreano del 2002.
In tale partita il record da citare non è quello di Thompson, bensì quella dell'intera nazionale australiana che mise a segno 31 gol contro gli 0 della piccola nazione polinesiana.
31-0 è record assoluto di scarto in una partita disputata tra nazionali.
I canguri si presentarono alla sfida lasciando fuori molti titolari per dare spazio a chi aveva giocato meno, nonostante la qualificazione non fosse cosa certa, serviva vincere.
Le Samoa Americane avevano sinora perso tutte le partite senza segnare nemmeno un gol, ma quella di Coffs Harbour fu una vera e propria debacle sportiva che mise in mostra tutte le differenze tecniche e strutturali tra le due nazionali.
Oltre al tredici di Thompson scrissero il proprio nome nel tabellino anche David Zdrilic (8 gol), Con Boutsianis (3 gol), Aurelio Vidmar, Tony Popovic, Simon Colosimo (tutti 2 gol a testa) e Fausto De Amicis (1 gol).
Una vera e propria valanga lenita solamente da un tiro del centrocampista samoano Pati Feagiai al minuto 87, parato da Michael Petkovic, spettatore non pagante per tutta la partita.



Ma perché è il maggior distacco in partite tra nazionali e non compresi i club? Perché il record di gol segnati in una partita è di 149, sì avete letto bene: 149 gol realizzati in una sola partita da una singola squadra a livello di club.

In effetti sembra impossibile una cosa del genere. Facendo bene i calcoli sono stati segnati la media di 1,65 gol al minuto. Tutto ciò è accaduto il 31 ottobre 2002, quando allo Stade Mahamasina di Antananarivo andava in scena l'incontro tra l'AS Adema ed il SO de l'Emyrne valevole per l'ultima giornata del campionato malgascio. Fortunatamente la partita non valeva granché ai fini della vittoria finale e per cercare il motivo di questa particolare goleada bisogna tornare indietro di una settimana: nella gara precedente, il SO de l'Emyrne pareggiò 2-2 contro il DSA a seguito di un contestato rigore negli ultimi minuti; il pareggio consegnò il titolo proprio all'Adema (prima volta nella storia) e fu così dunque che la squadra ospite decise di segnare un autogol via l'altro sotto lo sguardo giustificatamente perplesso di tifosi (alcuni chiesero il rimborso del biglietto), avversari ed arbitro in segno di protesta contro la federazione per quel maledetto rigore concesso qualche giorno prima.
A seguito di tale bravata, furono squalificati quattro giocatori e l'allenatore dell'Emyrne, quest'ultimo per ben 3 anni. All'arbitro Benjamina Razafintsalama non venne comminata alcuna sanzione.



Tre record divertenti e sicuramente curiosi, figli di un calcio non di primissimo piano ma comunque parte della storia di questo meraviglioso sport.



Matteo Maggio

martedì 28 ottobre 2014

SAIT ALTINORDU

In un mondo del calcio dove i giocatori cambiano squadra con la stessa facilità con la quale cambiano auto o fidanzata, il concetto di bandiera sembra essere davvero obsoleto e fuori da ogni contesto.
A volte celebriamo grandi giocatori per il fatto di aver speso anni nella stessa squadra, nella quale diventano miti assoluti ed immortali idoli per i tifosi.
Questi campioni sono davvero delle "mosche bianche", proprio per il senso di appartenenza e per l'alchimia che hanno saputo sviluppare nel proprio club.
I detrattori potranno sempre obiettare che lo stipendio da questi percepito è comunque copioso, trattandosi in molte occasioni anche di veri e propri fuoriclasse; in tale senso tale scelta sarebbe comunque ricompensata da un notevole introito garantito dalla dirigenza in questione.
Andando indietro nel tempo è facile imbattersi con più facilità in atleti che hanno legato la loro carriera e la loro vita ad un sola maglia, essendo anche i guadagni del tempo inferiori a quelli attuali.
Proprio negli anni addietro era molto semplice per una giocatore decidere di avere una sola maglia, essendo parecchio complicato andare all'estero ed esistendo un fortissimo campanilismo, che mal sopportava i trasferimenti di giocatori tra rappresentative dello stesso paese.
Sicuramente compaiono nella nostra mente nomi indimenticabili a proposito, perfettamente ed eternamente associati ad una particolare squadra di club.
Nell'analisi in questione non ci occupiamo però di una vero e proprio campione, ma di un giocatore per così dire normale, che detiene però il record di stagioni consecutive con la stessa compagine.
Infatti Sait Altinordu gioca per 27 anni consecutivi con la maglia della squadra turca dell'Altinordu Spor Kulubu , facendo suo un incredibile primato, probabilmente conosciuto da pochissimi.


In effetti non è molto facile reperire informazioni su tale recordman, dal momento che ha sviluppato la sua lunga carriera tra il 1926 ed il 1953, per giunta in una squadra per  sempre militante nelle serie minori turche.
Da quello che si apprende si tratta di un difensore tignoso ed efficace, capace di mettersi in mostra sin da giovanissimo, tanto da avere il suo esordio in prima squadra addirittura a 14 anni.
Ovviamente in 27 anni di partite e scontri ha visto cambiare radicalmente il gioco del calcio, riuscendo ad adattarsi sempre con grande flessibilità, sopperendo con la grande esperienza alle lacune fisiche apparse nelle ultime stagioni disputate.
Con la compagine di Smirne gioca complessivamente 847 gare di campionato, nobilitate anche da 29 realizzazioni, a riprova di una comunque apprezzabile completezza tecnica.
Durante la sua pluriennale esperienza si aggiudica per ben 12 volte l'Amator League, torneo relativo alle basse categorie del calcio turco.
Non vi è alcun dubbio di come ogni anno il suo nome fosse un punto fermo per impostare il nuovo progetto agonistico, riconoscendo in lui un grande leader ed un punto di riferimento immancabile anche per i tifosi rosso-blu.
Sorge spontaneo la domanda di come mai nessun club di livello maggiore non abbia provato a guadagnarsi le sue prestazioni, trattandosi comunque di un valido marcatore e di un sicuro talento, data anche l'età del precoce esordio.
Non si hanno in effetti notizie di trattative o rifiuti, ma vi è comunque traccia di una sua apparizione nel calcio "che conta".
Tale unica esperienza gli si prospetta addirittura ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936, dove scende in campo nella netta sconfitta della rappresentativa turca contro la Norvegia per 4-0.
Al termine di questa prestigiosa opportunità sembra sparire dall'orbita nazionale, trovando soddisfazioni sono nell'omonima squadra di club.
A Smirne viene ancora ricordato con tutti gli onori, tanto da dedicargli una piazza (Sain Altinordu Meydani), nella quale è possibile ammirare anche un suo busto.


Non sempre un giocatore può essere ricordato solo per doti tecniche o per i contesti nel quale ha giocato: in talune circostanza il cuore, la mentalità e la fedeltà ad una maglia meritano lo stesso riconoscimento che si dà ai fuoriclasse.
Con ogni probabilità Sait Altinordu non lo era in termini di classe, ma lo è diventato per la strepitosa continuità che lo rende fiero possessore di un difficilmente battibile record.
E magari potrà servire da esempio a qualche suo attuale ed esimio collega....


Giovanni Fasani

venerdì 24 ottobre 2014

UN TAXI PER SAINT-ETIENNE

Spesso e volentieri siamo soliti chiamare alcuni calciatori con il soprannome che gli viene affibbiato per le proprie caratteristiche tecniche o semplicemente per abbreviazione del nome. Quanti di noi hanno chiamato una volta nella vita pibe de oro il grande Diego? Credo bene o male tutti.
Se spostiamo la nostra attenzione sul continente nero (tanto per usare un "soprannome") sono diverse le cosiddette pantere nere, alcune di queste si perdono ben presto, altre rimangono nella memoria di appassionati e tifosi. In quest'ultimo caso non si può non fare il nome di Salif Keita, primo giocatore a vincere il pallone d'oro africano nel 1970.


Il vero soprannome di Salif era Domingo, ma ben presto la rapidità ed il fiuto del gol fecero dell'attaccante maliano, classe 1946, la prima pantera nera del calcio africano.
Le giovanili le passa in una squadra minore del calcio maliano, i Pionniers de Ouolofobougou, ma ben presto ci si accorge che il talento è di quelli da accaparrarsi al più presto ed è così che nel 1964 viene ingaggiato dallo Stade Malien, una delle due squadre principali della capitale Bamako.
Nel frattempo Salif debutta anche in nazionale nel 1963, quando all'anagrafe ha appena 17 anni; se a livello personale è una bella soddisfazione, non si può dire lo stesso a livello di club. Nel 1964 viene giocata la prima edizione dell'attuale CAF Champions League e lo Stade Malien raggiunge la finale dopo aver superato 4 turni in cui è compreso un pirotecnico 6-4 ai danni degli ivoriani dell'ASEC Mimosas (ve li ricorderete in un nostro precedente articolo). Ma il 2-1 nella finale del 7 febbraio premia i camerunensi dell'Oryx Douala.
La rivincita si presenta l'anno successivo, quando l'attaccante maliano passa ai rivali cittadini del Real Bamako con cui raggiunge un'altra finale. Questa volta a contendere l'ambito trofeo ci sono gli ivoriani dello Stade d'Abidjan che si impongono sia all'andata che al ritorno. Per Salif la non trascurabile soddisfazione di aver realizzato 14 gol in 8 partite, diventando capocannoniere della manifestazione.
Dopo aver conquistato 3 campionati con la maglia bianconera, accetta, nel 1967 il contratto offerto dai francesi del Saint-Etienne.


Tanto grande è l'entusiasmo di approdare in Europa che Salif si imbarca clandestinamente alla volta di Parigi; una volta arrivato all'aeroporto di Orly, il maliano prende un taxi e comunica allo sbigottito tassista l'indirizzo dello stadio Geoffroy Guichard che dista circa 500 chilometri dalla capitale francese. "Pagherà il club" dirà Keita. Ed il club effettivamente ha pagato. Con la squadra bianco-verde è amore a prima vista, vince 3 campionati consecutivi, 2 coppe nazionali e mette a segno la bellezza di 120 gol in 149 partite, diventando idolo indiscusso della tifoseria Verts. A testimonianza della gratitudine nei confronti del calciatore africano, la dirigenza decise di adottare una pantera nera come simbolo del club. Il felino è tutt'ora uno dei simboli della squadra, nonostante non compaia né sulle magliette né sullo stemma. In terra francese si dimostra anche giocatore di una classe fuori dal comune, come testimoniato dal video che vi proponiamo.


In un periodo in cui i giocatori africani in Europa si contano sulla punta delle dita, ci pensa il particolare carattere di Salif a migrare per altre destinazioni. Nel 1972, appena dopo aver ottenuto un altro secondo posto nella Coppa d'Africa per nazioni, passa ai rivali dell'Olympique Marsiglia suscitando più di una polemica nell'ambiente bianco-verde; l'esperienza sembra essere positiva, la pantera nera mette a segno 10 gol in 18 partite, ma la dirigenza marsigliese propone all'attaccante di ottenere la cittadinanza francese per alcuni problemi amministrativi non meglio specificati. Il maliano rifiuta ed a fine stagione emigra in Spagna per vestire la maglia del Valencia; l'esperienza si rivela piena di alti e bassi, Salif alterna perle assolute a vuoti totali non vincendo nessun trofeo ed andando a rete "solamente" 23 volte in poco più di 70 presenze.
Nel 1976 decide di cambiare ancora aria, lo Sporting Lisbona è alla ricerca di un attaccante che sappia finalizzare le proprie azioni e Keita è l'uomo della provvidenza (evidentemente il bianco-verde gli porta fortuna). Dopo un primo anno di ambientamento, il forte maliano contribuisce con gol e giocate da fuoriclasse alla conquista della Taca Portugal, la coppa nazionale. Solo l'egemonia di Benifca e Porto, priva allo Sporting la gioia di conquistare il titolo.


Con la maglia dei Leoes torna anche una media-gol strepitosa, 32 centri in 63 partite; ma l'età "avanzata" (33 anni) fa prendere al forte africano una decisione che ha il sapore di un fine carriera.
Nel 1979 approda nella lega americana per vestire la maglia del Boston Team, non vince nulla ma realizza 17 gol in 39 partite regalando numerose perle al popolo che si affacciava al calcio proprio in quegli anni, una sorta di spot-campione per il futuro sviluppo del calcio d'oltreoceano.
La scarsa quantità di talento nel proprio paese, fa racimolare appena 13 presenze con la maglia delle Aigles du Mali mantenendo una "media Saint-Etienne" condita da 11 gol.
Terminata la carriera calcistica, Salif rimane impegnato in politica per un breve tempo, prima di dedicarsi alla gestione del suo albergo sulle sponde del fiume Niger.
Ha anche fondato la CSK, un centro di formazione giovanile che ha lanciato diversi giocatori approdati poi in nazionale. Molti di voi si saranno resi conti dell'omonimia con l'attuale centrocampista della Roma; ebbene, Salif è lo zio di Seydou, uno di quei giocatori usciti proprio dall'academie CSK.
E chissà se quel tassista non avesse accettato di buon grado la "scusa" del giovane africano... Probabilmente sarebbe arrivato lo stesso in Europa, ma così c'è ancora più gusto.


Matteo Maggio

martedì 21 ottobre 2014

OLDRICH NEJEDLY

Ci sono alcuni giocatori che legano il proprio nome ad un particolare ruolo, grazie al quale passano alla storia ed al quale restano per sempre connessi, anche a carriera finita.
Nonostante la continua evoluzione tecnico-tattica del calcio, i grandi campioni sono comunque sempre ricordati per la posizione coperta nel rettangolo di gioco, per cui sarà sempre possibile identificarli come portieri, difensori, centrocampisti o attaccanti.
Come sappiamo, però, all'interno di questa classificazione vi sono più sfaccettature, specificatamente connesse al compito che il giocatore si trova a svolgere in campo.
Cambiando le disposizione tattiche è variata anche la "nomenclatura", quindi è possibile imbattersi in ruoli che ai nostri giorni sembrano non esistere più.
Negli anni '30, con l'applicazione del cosiddetto sistema, diventa fondamentale la funzione dell'interno di centrocampo, posizione atta a garantire qualità al gioco, gol, inserimenti ed anche una buona dose di copertura.
Nella Cecoslovacchia di quegli anni, Oldrich Nejedly si cala perfettamente nella parte, passando alla storia come grande interprete del suddetto canovaccio tattico e scrivendo importanti pagine della storia del calcio.


Ad essere onesti potrebbe apparire riduttivo ritenerlo solo un interno, dal momento che si disimpegna costantemente sulla corsia di sinistra, dimostrando in più di un'occasione le caratteristiche di un'ala.
Inoltre la sua facilità di inserimento e di calcio lo rendono accumunabile anche ad un prolifico centravanti, evidenziandone i relativi movimenti.
Senza dilungarci in un inutile discorso su quale possa essere il suo vero ruolo, possiamo considerare Nejedly come un campione che dalla metà campo in su può davvero fare qualsiasi cosa.
Dotato di grande rapidità e di tecnica sopraffina, mette sempre in costante difficoltà il diretto avversario, riuscendo anche a calciare con uguale abilità con entrambi i piedi.
A livello assoluto la sua specialità è quella di fare gol e di questa straordinaria abilità ne approfitta lo Sparta Praga, squadra nella quale gioca per otto stagioni, dopo essere cresciuto nello Zebrak.
Nella capitale incanta sin dalla partita di esordio i tifosi presenti allo Stadion Letna, dove segna  addirittura 5 reti e si rende autore di giocate di altissimo livello. 
Chi è convinto di trovarsi di fronte ad un fenomeno non sbaglia di certo, se si considerano i suoi numeri ed il suo palmares in maglia granata.
A tal proposito vince per 4 volte il campionato cecoslovacco, formando con Josef Silny ed il belga Raymond Braine uno degli attacchi più forti del periodo considerato.
Con un tale potenziale offensivo lo Sparta vince anche la Mitropa Cup nel 1935, sconfiggendo nella doppia finale il fortissimo Ferencvaros.
Analizzando in numeri di Nejedly non si può che restare sbalorditi dal numero di gol da lui segnati in campionato: in 187 partite realizza ben 161 gol, cifra davvero significativa, se si considera che non stiamo parlando di un vero e proprio centravanti.
Tale funzione spetta a Braine, mentre Nejedly e Silny partono esterni, per poi accentrarsi e dialogare con il suddetto centravanti o tentare l'azione personale.
A conferma di una strepitosa confidenza con la rete, arriva nella stagione 1938/1939 il titolo di capocannoniere del campionato, segnando 21 reti complessive.
Se a livello di club appare essere un assoluto campione, quello da lui fatto con la maglia della nazionale lo etichetta come leggendario fuoriclasse.


Con la Cecoslovacchia esordisce nel 1931 a soli vent'anni e ne diventa subito un giocatore simbolo, in un squadra tra le più forti a livello europeo e mondiale.
Nel 1934 ha la possibilità di parteciapre al Mondiale giocato in Italia e lo fa alla grande, potendo contare su di una rosa di primissimo livello: nel solo reparto offensivo la squadra allenata da Petru può contare su giocatori del calibro di Antonin Puc, Jiri Sobotka, Frantisek Svoboda e Frantisek Junek, oltre all'ispiritatissimo Nejedly. Per rendere maggiormente l'idea del potenziale di tale compagine, basta considerare che a livello di nazionale questi cinque attaccanti hanno segnato complessivamente 100 reti durante la loro carriera.
In una squadra che meraviglia per qualità tecnica, Nejedly è subito decisivo nelle prime uscite: negli ottavi segna il gol decisivo nel 2-1 sulla Romania e si ripete nei quarti realizzando l'ultima rete nella vittoria per 3-2 contro la Svizzera.
In semifinale l'avversario da battere è la temibile Germania, squadra etichettata come una delle favorite per la vittoria finale. In tale contesto il fenomenale interno gioca una delle sue migliori partite di sempre, segnando tutte e tre le reti nel successo per 3-1.
La finale viene giocata contro i padroni di casa dell'Italia e termina con l'affermazione della squadra di Pozzo per 2-1, nonostante il vantaggio iniziale di Puc.
Nejedly iscrive comunque il suo nome nella storia del calcio, vincendo il titolo di capocannoniere della manifestazione con 5 reti e facendosi conoscere con merito a livello internazionale quale uno dei più forti giocatori in circolazione.
L'occasione per rifarsi arriva quattro anni più tardi, in concomitanza con i campionati del mondo da disputarsi in Francia.
La Cecoslovacchia parte bene, battendo per 3-0 i Paesi Bassi, con il suo giocatore simbolo che realizza la seconda rete.
Nei successivi quarti di finale l'avversario è il fortissimo Brasile di Leonidas, da tutti visto come l'avversario da battere in questa edizione. Proprio il formidabile attaccante brasiliano porta in vantaggio i suoi, ma un calcio di rigore di Nejedly pareggia il conto.
La partita termina 1-1 e secondo il regolamento dell'epoca va rigiocata due giorni dopo.
A sorpresa Nejedly non scende in campo nella ripetizione ed il motivo va ricercato nella precedente partita con il Brasile: i difensori sudamericani temono così tanto l'interno dello Sparta Praga che lo tartassano di falli e scorrettezze, non consentendogli di scendere in campo nella seconda sfida.
La squadra allenata da Pimenta vince 2-1 ancora trascinata da Leonidas ed elimina un'ottima Cecoslovacchia.
Al termine della rassegna Nejedly abbandona la nazionale e lo fa con la soddisfazione di aver segnato 29 reti nelle 44 apparizioni e con il vanto di essere il maggior realizzatore cecoslovacco nella fase finale di un Mondiale (record ancora imbattutto anche dopo la disgregazione del paese).
Tre anni più tardi termina la sua avventura con la maglia della Sparta Praga e nonostante non manchino le offerte decide di andare a giocare in una squadretta del suo paese natale, dove milita fino al 1951, quando a 40 anni appende definitivamente le scarpe al chiodo.


Grazie alla sua stupenda grande intelligenza tattica ed alle sue doti tecniche, Nejedly va sempre ricordato come uno dei simboli del calcio anni '30, del quale è stato un indiscusso campione.
Difficile trovare un punto debole in tale eccelso giocatore, capace di recepire i dettaggli di un ruolo per attargli un talento quasi irripetibile.


Giovanni Fasani

venerdì 17 ottobre 2014

IL "MIRACOLO" ALGERINO

Ho sempre avuto un particolare debole per le squadre meno quotate che partecipano alle grandi manifestazioni. Soprattutto, quando ogni 4 anni, arriva il tanto atteso mondiale a paralizzare milioni e milioni di appassionati.
I miei personali ricordi partono dalla rassegna casalinga del 1990, dove Emirati Arabi, Camerun, Egitto e Costa Rica stuzzicavamo le mie simpatie pur senza conoscere mezzo giocatore. Negli anni successivi Bolivia (1994), Iran, Tunisia e Giamaica (1998), Ecuador e Senegal (2002), Angola, Togo e Trinidad & Tobago (2006), Corea del Nord e Honduras (2010) hanno trovato in me un tifoso abbastanza particolare, ma di queste squadre solamente Costa Rica e Senegal hanno trovato la gloria oltre il primo girone ed a tal proposito la squadra africana ha addirittura sfiorato una clamorosa semifinale alla prima partecipazione.
Da semplice appassionato ho guardato decine e decine di filmati anche dei mondiali passati, letto libri e qualche articolo del passato, compresi anche un paio di ingialliti almanacchi che fanno capolino nella mia libreria.
Nel 1982 non ero ancora nato, ma a quel mondiale spagnolo le cosiddette "cenerentole" erano davvero tante, probabilmente avessi dovuto sceglierne una avrei optato per lo sconosciuto Kuwait, senza però disdegnare formazioni del calibro dell'Honduras o della Nuova Zelanda.
Sono arcisicuro, però, che un posto d'onore lo avrebbe ottenuto anche l'Algeria che faceva il suo esordio mondiale dopo aver superato nell'ordine Sierra Leone, Sudan, Niger e Nigeria nelle qualificazioni.


La squadra era allenata da Rachid Mekhloufi con l'aiuto di Mahieddine Khalef. Il primo ha ottenuto la sua massima gloria nelle file del Saint Etienne con cui vinse ben 4 campionati francesi a cavallo tra gli anni 50 e 60; mentre il secondo (di nazionalità marocchina) ha sempre avuto ruoli nella federazione algerina.
La rosa dei 22 era composta da giocatori pressoché mediocri, la maggior parte militanti nel locale campionato; insomma, non proprio una compagine di primo piano.
I due giocatori che si ricordano di più sono senza dubbio Lakhdar Belloumi, al tempo in forza al GCR Mascara, squadra che attualmente milita nella terza serie algerina e Rabah Madjer, divenuto ancora più famoso 4 anni più tardi per un geniale colpo di tacco che ha contribuito a regalare la Coppa Campioni al Porto.


Ma perché "ancora più famoso"? La risposta è abbastanza semplice a va ricercata nella giornata del 16 giugno a Gijon, quando all'Estadio Molinon la "piccola" Ageria è avversaria del "colosso" Germania nella gara di apertura del Gruppo 2 che comprendeva anche Austria e Cile.
La Germania vantava nomi da capogiro: Rumenigge, Kaltz e Breitner erano solo tre dei fantastici campioni della squadra allenata da Jupp Derwall. Dal canto suo la coppia Mekhloufi-Khalef rispondeva con un ordinato 4-4-2 con capitan Fergani a dettare tempi e ritmi al centrocampo nordafricano.
Dopo un primo tempo dove incredibilmente la Germania non segna, è a sorpresa la formazione biancoverde a sbloccare il risultato con il gol storico realizzato da Madjer (ecco perché è diventato famoso) dopo un tiro respinto di Belloumi ottimamente imbeccato da Djamel Zidane (omonino del più conosciuto Zinedine), uno che non ha mai risparmiato deliziosi assist nella sua carriera spesa per la maggior parte in Belgio.
Per la Germania è un colpo basso, ma Derwall decide comunque di non operare sostituzioni e viene premiato al minuto 67 quando Rumenigge spinge in rete un cross di Magath.
Ma quello del Molinon è destinato ad essere un pomeriggio che rimarrà nella storia. Appena un minuto più tardi, Assad vola sulla sinistra e mette un preciso cross basso per l'accorrente Belloumi che insacca nella porta sguarnita.
Il popolo algerino (e quello spagnolo) non credono ai loro occhi, segnare alla Germania era già impresa ardua, farne due di cui uno dopo aver appena subito il pareggio dev'essere da massima goduria.
Fatto salvo per un gol sfiorato da Madjer, gli ultimi minuti vengono giocati in totale apnea dalla nazionale maghrebina, ma Rumenigge e compagni si schiantano su difesa, traversa ed una bella parata di Mehdi Cerbah.


Per i tedeschi è uno shock terribile, per gli algerini è festa nazionale. Una partita vinta contro ogni pronostico, consapevoli di essere una nazionale di gran lunga inferiore a quella due volte campione del mondo. Tanto che Belloumi per la Spagna quasi non voleva neanche partirci vista la netta inferiorità tecnica, sia nei confronti dei tedeschi che nei confronti del Cile di Carlos Caszely o dell'Austria di Schachner e Krankl.
Il resto della rosa era composto da legnosi difensori come Guendouz e Merzekane, il secondo autore di una sgroppata che se avesse portato al gol, sarebbe stato paragonato poi ad Al-Owairan 22 anni più tardi, senza scomodare il Maradona del 1986.
Nella seconda gara les gazelles devono vedersela con l'Austria. La partita è diversa, l'Algeria non ripete la buonissima prova offerta contro la Germania e l'Austria chiude i conti nella prima metà del secondo tempo grazie ai gol dei giocatori sopracitati.
Nell'ultima partita del girone i nordafricani tornano a vincere liquidando con un 3-2 il Cile, nonostante non vengano schierati Belloumi, Dhaleb e Zidane; a regalare i 3 punti ci pensano una doppietta di Assad e Tedj Bensaoula, uno dei tanti che è dovuto fuggire con la propria famiglia a seguito della guerra di liberazione.
Il primo tempo algerino è pressoché perfetto, viene chiuso avanti di 3 gol dando la sensazione di aver raggiunto lo storico traguardo della seconda fase.
Nella ripresa un rigore di Neira ed un'azione personale di Letelier fanno tremare le gambe della squadra di Mekhloufi, che nonostante tutto porta a casa i 3 punti.


L'Algeria ha in mano la qualificazione, l'unico risultato che eliminerebbe i nordafricani dal mondiale sarebbe la vittoria della Germania sull'Austria per 1-0. "Il valzer della vergogna" com'è stato poi definito, va in scena il giorno dopo a Gijon. La Germania va avanti dopo appena 10 minuti con Hrubesch e poi non succede più nulla. Tedeschi ed austriaci non si fanno male, ne esce una partita ignobile che alla fine qualifica proprio le due formazioni europee.
Sia Derwall che Schmidt (i due allenatori) negano che via sia stato un complotto, lo negano tutti i giocatori, qualcuno neanche parla; ma la reazione algerina non si fa attendere e viene presentato un esposto alla FIFA, presumibilmente poi cestinato viste le parole di Havelange (prodigo nel non farsi trovare ai microfoni dopo la partita) qualche giorno dopo: "ma questi algerini cosa vogliono? Forse vincere i mondiali? Sono dilettanti, vadano alle Olimpiadi".
Addirittura Breitner e Schumacher lanciarono dall'ottavo piano del proprio albergo alcune secchiate d'acqua nei confronti di circa 600 spagnoli accorsi a protestare; i giornali di tutto il mondo parlarono di scandalo epocale. Un polverone quasi senza precedenti.
Si vocifera che anni dopo (era il 2005) durante un Qatar-Bahrein di coppa d'Asia che ha visto trionfare i primi, il CT bahraino Pieter Briegel (visto anche in maglia Verona) che era in campo in quel Germania-Austria, chiese scusa a Mehdi Cerbah, CT del Qatar, per quanto successo anni prima. Per alcuni è verità, per altri una semplice leggenda.
La cosa sicura è che Harald Schumacher, portiere della Germania, ha chiesto di essere ricevuto (sempre anni dopo) da Bouteflika, presidente algerino, per chiedere ufficialmente scusa. La notizia fece clamore su tutti i giornali algerini, neanche una riga su quelli tedeschi.
Mi rimarranno per sempre in testa le parole del centrocampista Mustapha Dahleb: "Avevamo paura della combine, correva voce che i due allenatori si fossero incontrati in un bar di Gijon. Io dicevo ai compagni: state tranquilli, è impossibile che due squadre di quel calibro si sporchino con certe manovre. Dieci minuti dopo il gol di Hrubesch ho capito che era finita, che avevamo lottato per niente, che avevamo battuto la Germania per niente. Ieri mi sono messo a piangere. Ma oggi dico che se questo è il grande calcio, è meglio starne fuori, c'è più dignità".


Matteo Maggio

martedì 14 ottobre 2014

ALLA CORTE DI ROI MICHEL

Molte tra le più grandi imprese della storia del calcio sono associate al nome di un singolo giocatore, identificato come autentico trascinatore ed assoluto protagonista del successo in questione.
Nelle classiche discussioni “da bar” si è soliti dire che un grande campione ha vinto “da solo” una competizione, volendo allo stesso tempo esaltarne le qualità, ma anche sminuire, in parte, il valore dei suoi compagni.
Tale tendenza è rilevabile a livello di squadre di club, ma soprattutto nell’ottica delle squadre nazionali, dove la relativa brevità dei tornei sembra maggiormente indicata per esaltare le decisive giocate di qualche fuoriclasse.
Ovviamente sono questi ultimi a creare le maggiori emozioni nel pubblico ed a consegnare alla leggenda le grandi competizioni continentali e mondiali: da un punto di vista prettamente “romantico”, l’attenzione sembra quindi focalizzarsi su chi è in grado di decidere personalmente il corso delle partite.
Tuttavia questa visione risulta palesemente miope, considerando che le grandi nazionali sono composte da grandi giocatori e che sembra davvero riduttivo non celebrare un intero collettivo, soprattutto quando si rivela vincente.
In merito a quanto detto, la nostra attuale analisi verte sull’affermazione della Francia agli europei del 1984, concentrandosi sul notevole contributo che i compagni di Michel Platini hanno dato alla causa.


Occorre precisare che senza la grande vena di “Roi Michel” il campionato europeo svoltosi in terra transalpina sarebbe finito in modo diverso: con 9 reti in 5 partite il fenomenale numero 10 prende per mano la squadra in tutte le partite, specialmente in semifinale contro il Portogallo, segnando ad un minuto dalla fine dei supplementari il gol del definitivo 3-2. Anche la finale con la Spagna è aperta da una sua maligna punizione, anche se è decisiva l’incertezza del portiere Arconada.
Come anticipato, il commissario tecnico Michel Hidalgo costruisce un ottimo gruppo di giocatori intorno a Platini, selezionando interpreti che possono essere considerati tra i migliori della storia calcistica transalpina.
Da 7 anni alla guida della nazionale e dopo i Mondiali del 1982, il tecnico francese imposta la sua squadra con un particolare 4-4-2, nel quale il giocatore della Juve ha libertà di movimento, in un qualitativo doppio compito di centrocampista di riferimento ed attaccante principale.
Grazie al terzo posto ottenuto due anni prima nella rassegna spagnola, la Francia rispetta i pronotistici che la vogliono favorita, trovando vantaggio dal sostegno del pubblico, ma anche dalla consapevolezza di essere una squadra forte e matura.
Il tecnico di Leffrinckoucke  cambia più di un inteprete rispetto al Mondiale, certo che la "nuova generazione" da lui selezionata possa dare un impulso decisivo per il successo finale.
La prima novità riguarda l'estremo difensore, ruolo che viene affidato Joel Bats, affidabile portiere dell'Auxerre preferito al precedente titolare Ettori. Dotato di ottima esplosività si rende protagonista di un ottimo Europeo, subendo solo 4 reti nelle 5 partite disputate.
E' considerato uno specialista dei calci di rigore ed anche in questa competizione riesce a pararne uno, nonostante tale prodezza venga annullata dall'arbitro: contro la Jugoslavia neutralizza effettivamente un penalty, ma il direttore di gara decide per la ripetizione del tiro, che viene realizzato da Stojkovic.
La sua spiccata personalità lo rende ideale a guidare dalla porta i compagni, che si dispongono secondo il seguente schema tattico:


La fase difensiva viene migliorata notevolmente, al punto che sono solo quattro le reti subite durante l'Europeo, per di più subite in due partite: le prime due contro la Jugoslavia nella vittoria per 3-2 ed altre due segnate dal portoghese Jordao in semifinale.
Nelle altre tre partite la porta di Bats resta inviolata ed il merito va in primis ad una rettroguardia affiatata ed efficace anche nelle situazioni di difficoltà.
Sulla fascia destra Patrick Battiston assicura allo stesso modo spinta e copertura, interpretando il ruolo in modo dinamico ed anche molto fisico.
Inoltre sembra essersi pienamente ripreso dal terribile scontro con il portiere Schumacher al precedente campionato del mondo, dove era uscito malconcio dopo un periodo di coma.
Nella disposizione tattica i due centrali sono Maxime Bossis ed Ivon Le Roux, entrambi difensori autori di un ottimo torneo, disimpegnandosi con merito nella marcatura dei centravanti avversari.
Il primo mette al servizio la sua esperienza e non sembra risentire dei postumi del rigore sbagliato nella semifinale contro la Germania nei precedenti Mondiali. Il secondo a soli 24 anni è uno degli uomini nuovi di Hidalgo, che lo sceglie titolare anche per cause di forza maggiore. Nella prima partita contro la Danimarca viene espulso Manuel Amoros, titolare da anni e capitano della Francia. La inevitabile squalifica lo esclude di fatto dalla formazione, andando in campo solo per una manciata di minuti nella finale contro la Spagna.
Nel settore di sinistra troviamo un altro esordiente ai grandi livelli, Jean François Domergue, esterno mancino del Lilla. Il suo nome resta nella storia dell'Europeo 1984 non solo per le brillanti prestazioni, ma anche per la decisiva doppietta realizzata contro il Portogallo, nella semifinale vinta in rimonta ai supplementari. La prima la segna con un potentissimo calcio di punizione, mentre la seconda con un prorompente inserimento, valido per pareggiare i conti in attesa del gol risolutore di Platini.
La sua doppia prodezza lo pone come precursore di quanto farà Lillian Thuram contro la Croazia al Mondiale 1998, tenuto conto che queste due reti risultano le uniche segnate da Domergue in nove apparizioni con i "Bleus".
Hidalgo compie le mosse giuste e la decisione o necessità di privarsi di colonne quali Tresor, Lopez e Janvion non intacca la solidità del suo pacchetto arretrato. 
Il centrocampo sembra essere il reparto più forte, dove sono presenti le individualità di spicco della selezione.
Platini ha dichiarato che nella Juventus potesse permettersi di fumare, perché l'importante è che non lo facesse Bonini, deputato a correre per lui.
Nella Francia ci sono mediani disposti a dargli la neccessaria copertura, ma non si tratta dei classici greagari, ma di alcuni tra i migliori interpreti del momento.
In mezzo al campo si muove Jean Tigana, centrocampista completissimo ed in grado di disimpegnarsi ai massimi livelli in ogni zona del campo. Durante l'Europeo il giocatore del Bordeaux, originario del Mali, mette in mostra tutte le sue qualità, dando un grande apporto alla fase di contenimento, ma accompagnando con classe e corsa la fase offensiva.
Nonostante non sia molto prolifico in zona gol (una sola rete in nazionale in 52 presenze) riesce a rendersi insidioso grazie ad una grande visione di gioco, che viene impreziosita da una corsa infinita e da una notevole tecnica individuale.


Ancora oggi viene considerato uno dei giocatori più forti di sempre della Francia ed il suo nome è ancora attuale qualora si voglia creare l'undici perfetto della rappresentativa trnsalpina di tutti i tempi.
Accanto a lui troviamo Luis Fernandez, altro instancabile centrocampista, vero e proprio motore anche del PSG. Così come tutti i compagni trova la massima consacrazione nel suddetto torneo, al quale partecipa con il consueto dinamismo ed il classico senso tattico.
Inoltre ha anche la soddisfazione di realizzare una rete nelle seconda partita del girone, nella vittoria per 5-0 contro il Belgio.
Sul settore destro troviamo un altro elemento fondamentale per Hidalgo, vale a dire Alain Giresse, giocatore rapidissimo in grado di garantire spinta e dribbling, così come un continuo moto perpetuo anche in fase di non possesso.


Risulta dotato di un tiro potente e preciso e di un'ottima capacità di inserimento, tanto da trovare con continuità la via della rete (173 reti per lui nella massima divisione francese). Nel torneo in questione si toglie la soddisfazione di mettere il suo nome nel tabellino nella partita contro il Belgio.
Analizzando questo fondamentale reparto, non si può non considerare la densità che esso riesce a garantire, fornendo un pressing continuo in ogni zona di competenza. Tale densità si conniuga alla perfezione con l'intensità con la quale i "galletti" sviluppano la propria azione offensiva: in alcune situazioni il ritmo di gioco è davvero tambureggiante, creando al meglio quelle situazioni che Platini trasforma in gol.
A tale fase partecipa, ovviamente, anche la coppia di attaccanti, che varia di partita in partita, ma che sembra trovare gli intepreti prediletti in Bernard Lacombe e Bruno Bellone.
Il primo è un'autentica istituzione in terra francese, essendo il secondo cannoniere di tutti i tempi della League 1, con 255 reti realizzate in carriera. I suoi numeri in nazionale sono inferiori (12 reti in 38 gare) e nel torneo analizzato non riesce ad andare a segno. 
Tuttavia il suo lavoro e la sua fisicità lo rendono utile al gioco della squadra, in un dispendioso lavoro di apertura varchi e di punto di riferimento centrale.
Bellone può essere definito come un attaccante esterno sinistro, dalla media gol non esaltante, ma idoneo al sacrificio e in possesso di buona velocità e di spunto imprevedibile. Il suo gol nella finale contro la Spagna rappresenta l'unico segnato da un attaccante durante la competizione.
Bernard Lacombe, Didier Six e Dominique Rocheteau si alternano ai due già menzionati, adeguandosi, con caratteristiche diverse, al lavoro che il commissario tecnico chiede loro.
Come attaccanre figura anche Daniel Bravo, giocatore molto giovane che nel corso della carriera arretra il suo raggio di azione, fino a diventare un centrocampista centrale. Per lui ci sarà anche un futura esperienza nel Parma nel 1996.
In conclusione la rosa francese del 1984 è di altissimo livello, dimostrandosi in grado di supportare al meglio il proprio fuoriclasse, ma contribuendo altresì con grande qualità al successo finale.


Forse il solo reparto offensivo è, per forza di cose, un po' penalizzato da tale  "ingombrante" presenza, mentre il resto della squadra è perfettamente a suo agio, valorizzando, inoltre, talenti di indiscutibile livello.
Con questo articolo non si vuole ovviamente sminuire la strepitosa prestazione di Platini, che risulta essere un record realizzativo ancora imbattuto e giustamente premiato con il Pallone d'Oro.
Si vuole invece mettere l'accento sul grande valore del collettivo, che ha messo in evidenza l'aurea del proprio numero 10, grazie all'indubbio valore di grandissimi calciatori.
Lunga vita al re, ma anche lunga vita a chi ha contribuito a renderlo tale.


Giovanni Fasani

venerdì 10 ottobre 2014

IL SILURO BRASILIANO

"Per avere del talento, dobbiamo essere convinti di possederne". Questa frase non è nient'altro che un aforisma di Gustave Flaubert, il noto scrittore francese dell'800.
Il mondo del calcio è stato, è e sarà pieno di giocatori talentuosi, l'elenco è infinito e potremmo stare a discuterne per ore intere davanti ad un paio di birre.
Tanti di questi calciatori sono consapevoli di avere un talento infinito, per fare due esempi dei giorni nostri, Cristiano Ronaldo e Messi rientrano in questa categoria a pieni voti; se pensiamo al passato non possono che saltare alla mente i nomi di Pelè e Maradona, piuttosto che di Zidane o Ronaldo o perché no quelli di Beckenbauer o Baresi, tutti nomi che la storia del calcio ricorderà a lungo.
Ma ci sono stati altri calciatori che nell'arco della loro carriera hanno avuto un particolare talento ma che ogni tanto fatichiamo a ricordare nonostante abbiano calcato anche i campi della nostra Serie A. In questa categoria non può che rientrare Claudio Ibrahim Vaz Leal, meglio conosciuto come Branco, fulmineo e pungente terzino sinistro brasiliano che ha speso la maggior parte della propria carriera negli anni 80 e 90.


Oltre ad una buona corsa che faceva di Branco un ottimo terzino sinistro (nel calcio moderno sarebbe un esterno nel 3-5-2), il suo particolare talento era quello di avere, nel suo piede sinistro, un autentico e proprio missile terra-aria che spesso bucava barriere e portieri avversari. Essere sulla traiettoria di un tiro del terzino verde-oro non era per niente un'ottima cosa, lo sguardo di chi si metteva in barriera era spesso di terrore e qualcuno ne fece anche le spese nel mondiale italiano del 1990.
La sua carriera ha inizio nell'Internacional di Porto Alegre, prima che il classe 1964 diventi un idolo indiscusso del popolo Tricolor del Fluminense negli anni dal 1982 al 1986 con cui vince 3 campionati carioca ed il Brasilerao del 1984.
Arriva così la chiamata del Brescia con cui rimane per due anni collezionando 50 presenze e 2 gol; per la verità l'esperienza con la maglia bianco-blu non è delle più entusiasmanti (arriverà una retrocessione in B), soprattutto per il netto cambio di stile di gioco e per un ambiente che è l'opposto di quello in Brasile.
Nel 1989 decide di tesserarlo il Porto, rimanendo comunque in Europa ma trovando un clima di certo più similare a quello brasiliano. Con i Dragoes mette insieme 60 presenze impreziosite da 7 gol, la maggior parte dei quali grazie al devastante sinistro che madre natura gli ha concesso. A testimonianza di un ambiente più adatto (sia calcisticamente che geograficamente) vince un campionato ed una supercoppa portoghese.
Oltre ai titoli, Branco cresce anche professionalmente, diventa un terzino completo in grado di garantire spinta e copertura in ogni fase della partita e ambientandosi in maniera netta ai dettami dell'allenatore Artur Jorge.


Il destino del terzino carioca si incrocia ancora con l'Italia, quando nel 1990, partecipa con la Selecao al mondiale di casa nostra.
Nella terza gara contro la Scozia, giocata a Torino il 20 giugno e vinta 1-0 grazie al gol di Muller, Branco si rende protagonista grazie al suo talento più spiccato. A seguito di un calcio di punizione fischiato da circa 25 metri, un siluro dell'asso carioca colpì in pieno volto Murdo MacLeod, centrocampista scozzese che a seguito del violento impatto finì in ospedale. Ci vollero alcuni giorni di terapie per far riprendere la normale vita al mediano allora in forza al Borussia Dortmund.
Passato il girone arrivò la sfida più sentita, quella contro l'Argentina, da sempre rivale arcistorico della Selecao brasiliana.
Era un pomeriggio molto caldo a Torino, la partita non si sbloccò e durante uno dei tanti stop con giocatori a terra, nella fattispecie Troglio, Giusti passò a Branco una borraccia "corretta". Il difensore brasiliano si sentì strano e quasi narcotizzato, denunciò il fatto ad arbitro e guardialinee ma non venne ascoltato. Anni dopo Maradona confesserà il singolare episodio, facendo prendere a Branco una parziale rivincita (la partita terminò 1-0 grazie al gol di Caniggia a 10 minuti dalla fine).


Conclusosi anzitempo il mondiale, per l'ormai 26enne nato a Bagè è tempo di prendere una decisione nel pieno della sua carriera. E fu così che nell'estate del 1990 l'allora presidente Aldo Spinelli lo portò al Genoa.
L'amore con la tifoseria rossoblu fu netto sin da subito, il suo micidiale sinistro continuava ad incantare ed il Grifone rastrellava vittorie sia in Italia che in Europa, dove Skuhravy (arrivato anch'esso nella stessa estate) ed Aguilera trascinarono la squadra di Bagnoli fino alla semifinale di Coppa Uefa del 1992 persa contro l'Ajax che poi battè in finale anche il Torino.
Per Branco tante prove di carattere, a differenza dell'esperienza bresciana, l'asso brasiliano si ambientò sin da subito nella realtà genoana, era più maturo e la fiducia nei suoi mezzi era tale da renderlo uno dei titolari inamovibili dello schema di Osvaldo Bagnoli.
Nella memoria dei tifosi genoani (ed anche di semplici appassionati di calcio) sono due le perle indelebili, quelle tatuate nel cuore e che per sempre si porteranno dentro. Il primo è un gol al Liverpool nell'andata dei quarti di finale della Uefa 91-92, il secondo è un gol alla Sampdoria, non un avversario a caso.



                                                                 

Con la maglia rossoblu colleziona in totale 71 presenze e 8 gol, prima di tornare in Brasile per vestire dapprima la maglia del Gremio, tornando poi al Fluminense con una piccola tappa anche dai rivali del Flamengo.
Nel 1994 vince il mondiale statunitense racimolando 3 presenze. Se ancora una volta ci fosse bisogno di capire se Branco era decisivo o meno basta dare un'occhiata al prossimo video. La partita era Brasile-Olanda, il punteggio era 2-2 ed il cronometro segnava 81 minuti. La posta in palio era l'accesso alla semifinale.


Dopo la massima conquista mondiale, Branco decise di tentare nuove esperienze, prima al Middlesbrough e poi ai Metro Stars di New York. Entrambe non diedero buoni frutti e decise quindi di tornare in Brasile per chiudere la carriera nel 1998 con la maglia della squadra che l'ha lanciato, quel Fluminense che sarà per sempre parte della sua vita.
Nel corso degli anni ho capito anche che Branco aveva altri talenti, diversi da quel siluro che possedeva e che hanno accompagnato la sua carriera. Era un grande professionista, dotato di correttezza e lealtà dentro e fuori dal campo.


Matteo Maggio

martedì 7 ottobre 2014

DOVE HO MESSO LE SCARPE D'ORO?

Il premio della "Scarpa d'oro" rappresenta il titolo che viene assegnato al giocatore che ha realizzato più reti in uno dei campionati europei.
Dal 1996 l'UEFA ha deciso di parametrare i campionati a seconda del coefficiente assegnato dallo stesso organo a ciascuno di esso, per attribuire maggior valore ai gol segnati nei tornei più competitivi.
In sostanza ogni gol segnato nel campionato dal primo al quinto posto di tale classifica vale 2 punti, dalla sesta alla ventiduesima vale 1,5 punti, mentre vale 1 per ogni posizione inferiore.
Così facendo il tanto ambito premio è appannaggio degli attaccanti militanti nei principali campionati continentali, lasciando ben poche speranze a chi gioca in campionati ritenuti secondari o, purtroppo, marginali.
Non è però stato sempre così, essendo in origine questo riconoscimento alla portata di tutti i giocatori militanti in Europa, senza considerare in quale livello medio venissero segnate le suddette reti.
Dal 1965 fino al 1991 possiamo vedere una grande alternanza tra i vincitori, dove troviamo campioni quali Eusebio, Gerd Muller, Van Basten, Hugo Sanchez e Stoichkov.
Ma accanto a queste celebrate stelle, l'albo d'oro presenta nomi per lo più sconosciuti o dimenticati, proprio perchè militanti in campionati non tanto in vista a quei tempi.
Tra qualche meteora e qualche sottovalutato centravanti, andiamo a descrivere le gesta e a snocciolare i notevoli numeri di questi meritevoli protagonisti, i quali, almeno per un anno, hanno segnato più di tutti in Europa.

Petar Zekov (Scarpa d'oro 1968/1969 con 36 reti): vince il titolo militando nel CSKA Sofia, con cui gioca per 7 anni, realizzando 144 gol in 184 partite di campionato.
In precedenza milita nel P.F.K. Beroe, dove mette a segno 101 segnature in 135 apparizioni.
Ottimo protagonista anche nella nazionale bulgara, dove realizza 25 gol in 44 apparizioni. In tale ambito si fa notare ai Giochi Olimpici del 1968, dove con 4 gol trascina la Bulgaria alla medaglia d'argento, dopo la sconfitta in finale per 1-4 contro l'Ungheria.
Con la maglia della nazionale partecipa anche a due Mondiali (1966 e 1970), senza però riuscire ad andare a segno.

Josip Skoblar (Scarpa d'oro 1970/1971 con 44 reti): giocatore jugoslavo, si aggiudica la classifica finale segnando per l'Olimpique Marsiglia, squadra dove milita prima nella stagione 1966/1967 e dopo dal 1970 al 1975. Con la compagine francese va a segno 151 volte in 184 partite, vincendo 2 campionati, 1 Coppa di Francia e per 3 volte la classifica cannonieri.
Tali strepitosi numeri gli valgono il soprannome di "Monsieur Gol", attribuitogli dai tifosi marsigliesi.
In patria si mette in mostra nell'OFK Belgrado, mentra la sua avventura in Francia è intervallata da tre stagioni all'Hannover 96.
Gioca 32 partite nella nazionaa jugoslava con 11 marcature, una delle quali segnata nella Coppa del Mondo del 1962.

Hector Yazalde (Scarpa d’Oro 1973/1974 con 46 reti): vince il riconoscimento con la maglia dello Sporting Lisbona, per il quale segna 104 reti in altrettante apparizioni.
Nella sua esperienza in Portogallo vince un campionato ed una coppa nazionale,vincendo per due volte consecutive la classifica cannonieri (1973/1974 e 1974/1975).
Di nazionalità argentina, si dimostra per tutta la carriera un vero e proprio attaccante di razza, come dimostrano le sua altre esperienze con Independiente, Marsiglia (23 gol in 44 presenze) e Newell’s Old Boys.
Meno felice in suo rapporto con la nazionale, per la quale scende in campo solo in 10 occasioni, segnando 2 reti. Tali marcature vengono messe a segno ai Mondiali del 1974, nella partita vinta 4-1 contro Haiti. 

Dudu Georgescu (Scarpa d’Oro 1974/1975 con 33 e 1976/1977 con 47 reti): centravanti che spende la sua intera carriera in patria, giocando nella Dinamo Bucarest dal 1973 al 1983 con ben 207 reti in 270 presenze.
Il suo ingaggio da parte della forte squadra rumena avviene dopo stagioni non altamente prolifiche al Progresul Bucarest ed al Resita, dove mette a segno soli 12 gol in 106 partite, dimostrando comunque qualità importanti.
A dispetto di un non prolifico avvio di carriera, nella Divizia A segna 252 reti in 370 partite, stabilendo a livello il record nazionale in termini di percentuale realizzativa.
In carriera vince per 4 volte il campionato e per altrettante volte la classifica marcatori.
Con la maglia della Romania disputa 44 partite segnano 25 reti, non avendo però la possibilità di partecipare a nessun Europeo o Mondiale.

Sotiris Kaiafas (Scarpa d'Oro 1975/1976 con 39 reti): l'attestato vinto sembra quasi essere un premio di fedeltà alla maglia, dal momento che spende l'intera carriera nelle file dell'Omonia Nicosia, con il quale vince ben 9 campionati, 6 Coppe di Cipro ed 8 titoli di capocannoniere.
Con i bianco-verdi segna 261 gol in 388 apparizioni in campionato, non riuscendo ad approdare in campionati più impegnativi anche per alcuni problemi di carattere politico. Per esempio nel 1984, a seguito dell'invasione turca dell'isola cipriota, decide di emigrare per un anno in Sud Africa.
Lo scarso livello della nazionale lo priva della ribalta internazionale, regalando alla rappresentativa di Cipro solo 18 apparizioni e 6 reti. 

Hans Krankl (Scarpa d’Oro 1977/1978 con 41 reti): vince il trofeo con la maglia del Rapid Vienna, squadra per la quale segna 267 reti in 346 partite; tale bilancio tiene conto delle tre esperienze da lui avute in maglia bianco-verde durante la sua carriera (1970/1971, 1972/1978 e 1981/1985).
La vittoria della Scarpa d’Oro lo rende appetibile per altri campionati e nel 1978 viene ingaggiato dal Barcellona, con il quale vince la Coppa delle Coppe 1978/1979 (suo il gol del definitivo 4-3 in finale contro il Fortuna Dusseldorf)  e la Coppa del Re 1980/1981. In maglia blaugrana vince il titolo di capocannoniere nella stagione 1978/1979 con 29 gol.
Dal 1986 gioca con il Wiener Sportklub, segnando 40 reti in 60 apparizioni in campionato.
Con la maglia della nazionale diventa un vero e proprio eroe nazionale, segnando la rete della prima vittoria austriaca contro la Germania della storia. Tale realizzazione avviene ai Mondiali del 1978, dove Krankl segna un doppietta nel 3-2 finale, regalando l’unico e storico successo all’Austria nella suddetta manifestazione.
Con la maglia del suo paese realizza 34 gol in 60 presenze. 

Kees Kist (Scarpa d’Oro 1978/1979 con 34 gol): si aggiudica il trofeo giocando per l’AZ Alkmaar, squadra per la quale realizza 196 reti in 323 gare , contribuendo alla vittoria di un campionato e tre coppe nazionali.
Nel 1982 passa al Paris Saint Germain dove resta una stagione vincendo una Coppa di Francia e realizzando 12 reti in  34 partite di campionato.
Dopo solo un anno passa al Mulhouse dove resta una stagione prima di ritornare in Olanda, per giocare con la maglia dell’Heerenveen (15 reti in 49 partite) e terminare la carriera ancora nell’AZ Alkmaar (17 reti in 39 apparizioni).
Con la nazionale gioca 21 partite con 11 reti realizzate, avendo l’opportunità di partecipare agli Europei del 1976 e del 1980. In quest’ultima occasione realizza la rete olandese nel pareggio per 1-1 contro la Cecoslovacchia. 

Erwin Vandenbergh (Scarpa d'Oro 1979/1980 con 39 reti): autentico specialista nel vincere le classifiche dei marcotori, essendoci riuscito per ben 6 volte nel campionato belga.
Si aggiudica il premio giocando per il Lierse a soli 20 anni, contribuendo con 117 reti in 178 partite alle fortune della squadra di Lier.
Nel 1982 passa all'Anderlecht dove resta fino al 1986, vincendo due campionati ed una coppa nazionale. A tali successi va aggiunta la Coppa Uefa 1982/1983, edizione nella quale Vandenbergh risulta capocannoniere con 7 reti, al pari del francece Giresse. Con la casacca dei "Les Mauve et Blanc" segna 87 reti in 121 gare di campionato.
Successivamente tenta l'avventura in Francia, nel Lilla, dove però non ottiene trofei, nonostante la media gol sia sempre altissima (55 reti in 94 apparizioni in campionato).
Nel 1990 torna in patria nel Gent, dove mantiene una notevole media gol (47 realizzazioni in 110 presenze), prima di chiudere la lunga carriera nel RWD Moleenbeek.
In nazionale gioca dal 1979 al 1991, collezionando 48 presenze impreziosite da 20 reti.Con la stessa ottiene il secondo posto agli Europei del 1980, dove però non riesce ad andare a segno. Due anni dopo al Mondiale in Spagna realizza l'importante rete della vittoria per 1-0 contro l'Argentina, ma poi la squadra Thys termina l'avventura nel secondo girone.In seguito prende parte sia agli Europei del 1984 che ai Mondiali del 1986, realizzando una rete in entrambe le competizioni. In particolare durante il Mondiali in Messico segna durante la prima partita contro la Jugoslavia, ma si fa male al 61°, ponendo fine al suo torneo. 


Georgi Slavkov (Scarpa d’Oro 1980/1981 con 31 reti): attaccante o trequartista di ottima tecnica, vince il premio con la maglia del Trakia Plovdiv, squadra per la quale mette a segno 61 reti in 112 apparizioni.
Positiva anche la sua esperienza nel titolato CSKA Sofia, dove si mette in mostra nella stagione 1979/1980 (5 gol in 9 presenze), per poi farvi ritorno nel 1982. Con la maglia dei “Rossi” vince 2 campionati e 3 coppe di Bulgaria, realizzando nella sua seconda esperienza 42 gol in 92 partite.
Nel 1986 tenta una non fortunata esperienza in Francia, nelle file del Saint-Etienne, dove gioca solo 16 partite in 2 anni senza gol, per poi decidere di accettare l’offerta del Chaves.
Anche in Portogallo sembra avere perso il proverbiale smalto, mettendo a segno solo 15 reti nelle 5 stagioni disputate. Chiude nel 1993 con la maglia del Trakia Plovdiv.
Con la maglia della Bulgaria scende in campo 33 volte, segnando 11 gol, ma non avendo opportunità di partecipare a competizioni di grande livello. 

Fernando Gomes (Scarpa d’Oro 1982/1983 36 reti e 1984/1985 con 39 reti): lega il suo nome al Porto, per il quale gioca dal 1974 al 1980 e poi dal 1982 al 1989. Durante questa doppia esperienza vince per 5 volte il titolo nazionale e per 6 volte la classifica marcatori. A tal proposito durante la sua permanenza a Porto realizza 288 gol in 342 partite di Primeira Liga.
Con la maglia dei “Draghi” vince anche la Coppa dei Campioni 1986/1987, la conseguente Supercoppa Europea e la Coppa Intercontinentale (suo uno dei due gol nella vittoria per 2-1 sul Penarol).
Il suo contributo nella vittoria della massima competizione europea viene quantificato dai 5 gol segnati: 4 contro il Rabat Ajax ed uno in semifinale contro la Dinamo Kiev.
Dal 1980 al 1982 gioca in Spagna nello Sporting Gijon, dove disputa solo 27 partite con 12 reti segnate.
Nel 1989 passa allo Sporting Lisbona, dove resta fino al 1991, dimostrandosi ancora molto prolifico, con 30 reti in 63 apparizioni di campionato.
Fino al 1988 gioca con la nazionale, dove colleziona 48 partite con 13 reti. In questo contesto partecipa all'Europeo del 1984, terminato con l'approdo in semifinale. Meno positiva è l'esperienza al Mondiale del 1986, dove la formazione lusitana termina all'ultimo posto il girone iniziale. In entrambi i tornei il suo nome non finisce, stranamente, nel tabellino dei marcatori.

Anton Polster (Scarpa d'Oro 1986/1987 con 39 reti): attaccante mancino e molto dotato fisicamente, si mette in mostra nel Simmerig, per poi passare nel 1982 all'Austria Vienna, dove vince il prestigioso riconoscimento. Con la maglia dei "Violetti" segna 119 gol in 147 partite, contribuendo alla vittoria di tre campionati consecutivi e di una Coppa d'Austria.
Nei tre titoli conquistati il suo contributo è notevole, dal momento che coincidono sempre con la sua vittoria del titolo di capoccannoniere.
Nel 1987, grazie alla fama per la Scarpa d'Oro conquistata, passa al Torino dove vive una stagione di alti e bassi, giocando 27 partite e realizzando 9 reti. In maglia granata arriva in finale di Coppa Italia, per poi perdere nella doppia finale con la Sampdoria, ma dopo aver eliminato la Juventus nelle semifinali.
Dopo solo una stagione decide di trasferirsi in Spagna, per giocare per tre stagioni con il Siviglia, dove scende in campo 102 volte e realizza 55 gol, 33 dei quali segnati nella stagione 1989/1990.
La sua avventura prosegue in Spagna con le maglie di Logrones e Rayo Vallecano, per le quali disputa complessivamente 69 incontri nella Liga, andando a segno 28 volte.
Nel 1993 cambia nuovamente campionato ed approda in Germania, dove gioca per 5 stagioni nel Colonia. Con "I Caproni" gioca 151 partite in Bundesliga, realizzando 79 reti.
A 34 anni accetta la successiva offerta del Borussia Moenchengladbach, dove resta per due campionati, segnando 15 reti, ma non potendo evitare la retrocessione della squadra nel 1999.
Chiude la carriera nel Salisburgo nel 2000, segnando gli ultimi 2 gol della sua carriera nelle 12 partite disputate.
Con la Nazionale disputa ben 95 incontri, andando a segno per ben 44 volte. Nonostante gli ottimi numeri, riesce a giocare solo i Mondiali del 1990, senza però entrare nel tabellino dei marcatori.
L'edizione 1986/1987 della Scarpa d'Oro è segnata dal caso "Camataru": infatti il titolo andrebbe a Rodion Camataru della Steaua Bucarest, ma quest'ultimo viene squalificato per alcuni favoritismi da lui avuti nelle ultime 6 partite di campionato, dove segna addirittura 18 gol.

Tanju Colak (Scarpa d’Oro 1987/1988 con 39 reti): viene ricordato come il più prolifico attaccante del campionato turco, nel quale ha segnato 240 reti in 252 partite.
Dal 1982 gioca per il Samsunspor, la squadra della sua città, dove segna 74 gol in 115 e vince per due volte la classifica dei marcatori.
A partire dalla stagione 1987/1988 passa al Galatasaray, dove ha la possibilità di aggiudicarsi la Scarpa d’Oro segnando 116 reti in 107 partite, guadagnandosi il soprannome di “ Il Signor Gol”.
Con la maglia dei “Leoni” gioca una grande Coppa dei Campioni nella stagione 1988/1989, trascinando i compagni fino alla semifinale.
Al termine della stagione 1991/1992, dopo l’ennesimo titolo di miglior marcatore, si trasferisce a sorpresa ai rivali del Fenerbahçe dove si rende protagonista di due ottime stagioni, impreziosite da 50 reti in 53 apparizioni.
Chiude una prolifica carriera nell’Istanbulspor, segnando nell’unica stagione giocata 17 gol in 21 gare.
Non particolarmente significativa risulta la sua esperienza con la nazionale, per la quale scende in campo 31 volte, segnando solo 9 gol e pagando una fase non particolarmente fulgida del movimento calcistico della Turchia.
Nonostante sia uno dei giocatori turchi più forti di sempre, Colak ha vinto solo un campionato ed una coppa nazionale.

Dorin Mateut (Scarpa d’Oro 1988/1989 con 43 gol): centrocampista offensivo o seconda punta, fa il suo esordio nel campionato rumeno con Corvinul Hunedoara, dove nel 1987 ha l’opportunità di passare alla Dinamo Bucarest.
Con la maglia dei “Cani Rossi” vince il suddetto premio, segnando 80 reti in 109 partite di Divizia A e contribuendo alle vittorie di un campionato ed una coppa nazionale.
Nel 1990 tenta una non felicissima avventura in Spagna, dove gioca per due stagioni nel Real Zaragoza, dove colleziona 64 partite e segna 10 gol.
Nel 1992 ha una doppia esperienza in Italia, curiosamente entrambe terminate con la retrocessione della squadra: nel 1992 gioca 4 partite con il Brescia per poi disputare una stagione alla Reggiana ( 25 presenze con 3 gol segnati).
Decide quindi di ritornare in patria nuovamente nella Dinamo Bucarest, dove gioca 39 gare e segna 8 reti. Dopo una sola stagione passa allo Sportul Studentesc, dove gioca solo 3 gare per poi terminare la carriera.
A livello di nazionale gioca 56 gare con la Romania segnando 10 reti e partecipando al Mondiale del 1990 terminato agli ottavi di finale.


Giovanni Fasani