martedì 28 aprile 2015

AD UN RIGORE DALLA GLORIA

La Libia è da sempre un paese contraddittorio, segnato negli ultimi anni dal regime della famiglia Gheddafi, con il colonnello Mu'ammar che detiene il potere fino ad anni recenti, quando la guerra civile porta all'uccisione proprio del discusso leader politico.
Durante questo periodo la Libia si apre al contesto internazionale ed anche il calcio beneficia di tale nuovo orizzonte per crescere e vedere moltiplicati appassionati e praticanti.
In Italia quando pensiamo al calcio libico non possiamo che fare riferimento a Saadi Gheddafi, figlio appunto del colonnello ed improbabile calciatore con le maglie di Perugia, Udinese e Sampdoria.
I più attenti possono ricordarsi Jehad Muntasser, discreto centrocampista militante per varie stagioni nel nostro campionato tra serie B e serie C.
Al di fuori di questi due sporadici casi è per tutti difficile associare la Libia al calcio, essendo il paese africano strettamente e tristemente connesso alle sue vicissitudini politiche, che per anni hanno contraddistinto lo scenario internazionale.
Come anticipato, a partire dagli anni '80 il movimento calcistico libico inizia una decisa crescita, tanto che nel 1982 Gheddafi ottiene di poter organizzare la tredicesima edizione della Coppa d'Africa, sicuro delle qualità della propria nazionale.
Per la rappresentativa libica è la prima partecipazione a questo torneo, non avendo mai ottenuto la qualificazione in precedenza.
La squadra viene affidata al tecnico ungherese Bela Gotl, che ha il compito di mettere insieme un gruppo di calciatori credibile attingendo dal solo campionato nazionale, essendo tutti i calciatori professionisti tesserati per squadre libiche.
Ovviamente il livello di esperienza a certi livelli è molto basso, ma l'accortezza tattica del tecnico magiaro, unite alla spinta del pubblico e ai proclami del regime spingono la squadra oltre i propri limiti.
Punto di riferimento per compagni e tecnico è il giovane centrocampista Fawzi Al-Issawi che nonostante i soli ventidue anni si dimostra da subito il giocatore più forte e maggiormente futuribile dell'intera selezione.


La Libia viene impostata con un 5-3-2 che può efficacemente trasformarsi in un 4-4-2 classico, sfruttando al meglio le duttilità dei calciatori, caratteristica principale della rappresentativa.
Esempio lampante di tale qualità è Ali Al-Beshari che durante la sua carriera si disimpegna al meglio sia come difensore che come attaccante, anche se nel torneo in questione viene schierato nel secondo ruolo.
Inoltre i punti di forza devono essere la grande corsa e l'organizzazione essendo l'allenatore ungherese conscio che in parecchie circostanze la sua squadra possa pagare un certo divario tecnico con gli avversari.
Il sorteggio per i gironi mette di fronte i padroni di casa a Ghana, Camerun e Tunisia, lasciando loro, sulla carta, pochissime possibilità di passare il turno, considerato il blasone di tali avversari.
L'esordio contro il Ghana mette subito in chiaro che la squadra di Gotl è tutt'altro che la classica "cenerentola". Il match termina 2-2 con la squadra ghanese che ottiene il pareggio solo all'89°, dopo che Abdel Razak Jaranah ed Al-Issawi avevano portato in vantaggio la Libia.
Rinfrancati dalla positiva prestazioni, i "Cavalieri del Mediterraneo" affrontano nella seconda partita la Tunisia, disputando un match che regala una grande soddisfazione al proprio pubblico. Un'autorete di Seddik ed il gol di Faraj Al-Bor'osi mandano in visibilio il pubblico dello stadio di Tripoli, dimostrando a tutto il paese che la nazionale può davvero ambire al successo finale.
A riprova dell'ottimo momento arriva il pareggio per 0-0 contro il Camerun che qualifica la Libia come prima classificata, precedendo il Ghana in virtù della miglior differenza reti.
Il pareggio con la nazionale camerunense è altamente di prestigio, essendo la squadra di Branko Zutic uno dei punti di riferimento per tutto il calcio africano, anche in virtù dell'imminente sua partecipazione al Mondiale dello stesso anno.
In semifinale ad attendere l'undici libico c'è lo Zambia, squadra in ricostruzione dopo che nel 1974 si era piazzata al secondo posto proprio in Coppa d'Africa.
La rappresentativa guidata da Ante Buselic si guadagna i favori della vigilia, nonostante la Libia stia impressionando per solidità e per un'ottima organizzazione corale, che sembra crescere di partita in partita.
Insieme a queste qualità vi è anche un grande carattere, che viene messo in campo proprio in semifinale, quando al 29° lo Zambia passa in vantaggio con Kaumba. La reazione della Libia è veemente e dopo soli nove minuti arriva il pareggio di Al-Beshari; lo stesso attaccante realizza all'84° il definitivo gol del 2-1 che qualifica la squadra ospitante alla finale.
Come è logico tutto il paese è in festa per tale risultato ed anche la famiglia governante non manca di manifestare la sua soddisfazione, auspicando un successo nell'ultimo atto da giocarci contro il Ghana.
Alla luce del precedente incontro giocatosi quattordici giorni prima, gli equilibri sono davvero diversi e la partita da giocare alla stadio "11 giugno" di Tripoli sembra davvero aperta a qualsiasi soluzione.
La compagine ghanese ha avuto la meglio sull'Algeria ai supplementari, dopo aver pareggiato la partita solo al 90° minuto, ma è una squadra rodata ed avvezza a giocare partite importanti, avendo vinto il torneo nel 1978.
La sfida viene sbloccata da un gol di Alhassan al 38°, che permette alle "Stelle Nere" di concludere il primo tempo in vantaggio. Nella ripresa la reazione della Libia è veemente e gli sforzi vengono premiati al 70° quando Al-Beshari riporta in equilibrio il match.
Il risultato non cambia dopo i supplementari e sono quindi necessari i rigori per determinare il vincitore: la serie si protrae ad oltranza ed all'ottavo rigore Abdallah Zeiyu sbaglia per la selezione libica, consentendo al Ghana di vincere il torneo.


Difficile trovare lati positivi nell'essere arrivati secondi senza aver mai perso sul campo e nella storia del calcio non resta grande ricordo delle belle partite disputate dalla Libia.
Resta negli annali il premio conferito a Fawzi Al-Issawi come miglior giocatore della manifestazione, a conferma del valore del giocatore, che sfortunatamente non avrà l'opportunità di misurarsi con un livello di calcio superiore a quello libico.
Ancora una volta il mondo del calcio ci dimostra come i valori sulla carta possono essere ribaltati sul campo, quando organizzazione e temperamento possono colmare possibili lacune tecniche.
Peccato che questa costruttiva esperienza non abbia consentito alla Libia di ripetersi nel tempo e le eliminazioni al primo turno nel 2006 e nel 2012 sanciscono decisi passi indietro nell'evoluzione calcistica dal paese.
La "quasi impresa" del 1982 resta comunque esempio tangibile di un gruppo forte e motivato che per due settimane ha fatto sognare un paese pesantemente segnato dal retaggio politico.


Giovanni Fasani

venerdì 24 aprile 2015

DAL BELGIO CON SIMPATIA

Il ruolo del portiere è da sempre al centro di critiche piuttosto piccanti, nel caso quest'ultimo compia la più classica delle papere decidendo in negativo il risultato della propria squadra.
Altre volte diventa eroe indiscusso della gara per via di un rigore parato o di un autentico miracolo a tempo scaduto.
Se sbaglia, nulla e nessuno potrà rimediare al suo errore, la palla terminerà inesorabilmente in rete; insomma, è un ruolo per persone coi nervi d'acciaio e con una forte personalità.
Quella personalità che in più di un'occasione ha dimostrato di avere Jean-Marie Pfaff, estremo difensore belga classe 1953 che ha fatto le fortune, tra le altre, della nazionale belga tra la fine degli anni 70 e la prima metà degli anni 80.


Quella di Pfaff è forse una delle storie più belle e genuine per un giocatore di calcio. Come egli stesso ha testimoniato ha passato l'infanzia, insieme ai genitori ed a 11 tra fratelli e sorelle, in una roulotte.
Per lui non era assolutamente un peso, anzi, si è sempre rimboccato le maniche per dare una mano a casa, soprattutto dopo che venne a mancare il padre, venditore porta-a-porta di tappeti.
Ed è proprio da una coppia di clienti (Jean e Marie) che il futuro portiere della nazionale belga prenderà il proprio nome di battesimo.
La sua carriera inizia un pò per caso. Come ogni bambino inizia a tirare calci al pallone per strada, precisamente nella sua Lebbeke, dove, tra i bambini del quartiere, è quello più paffuto. E la "legge" della strada non va contraddetta: quello più grassoccio va in porta.
Jean-Marie però non ha paura e parata dopo parata arriva a giocare nelle giovanili del Beveren; unico problema i 25 chilometri giornalieri di bicicletta per andare ad allenarsi, dopo aver fatto il proprio turno in posta o nell'azienda tessile per cui lavorava.
Un'infanzia assolutamente comune a tanti a quell'epoca, finché, nel 1972, arriva la definitiva consacrazione: Pfaff entra a far parte della prima squadra.


Con la maglia gialloblu resterà 10 stagioni entrando per sempre nella memoria dei tifosi della piccola squadra delle Fiandre.
Riuscirà anche a vincere un campionato ed una Coppa del Belgio tra il 1977 ed il 1979. I suoi interventi sono spesso al limite delle possibilità, fungendo spesso da difensore aggiunto nell'area di rigore. Non disdegna l'uscita in presa alta e tra i pali è dotato di una spiccata agilità che rende semplici anche gli interventi più improbabili.
Il 1980 è l'anno degli Europei in Italia con il Belgio che arriva addirittura alla finale di Roma, salvo poi perdere contro la Germania Ovest per mano della doppietta di Hrubesch e per un errore proprio di Pfaff.
Un altro errore macchierà il suo debutto in Bundesliga con la maglia del Bayern Monaco che aveva deciso di affidargli la porta dopo la positiva esperienza al Mondiale spagnolo del 1982, dove si rese protagonista di un curioso fatto: fuggì dal ritiro a bordo di un'ambulanza vestito da infermiere. Il motivo di tale gesto non si seppe, il tutto faceva parte della particolare simpatia di Jean-Marie. Non la pensò allo stesso modo il CT Guy This che prima lo sostituì con Theo Custers e poi con Jacky Munaron.
L'errore, che potete vedere nel video sotto, condannerà il Bayern alla sconfitta per 1-0.


La dirigenza bavarese continuerà a dare comunque fiducia al portiere belga, nonostante qualcuno tenti di mettere in guardia Uli Hoeness dal particolare carattere di Pfaff che, nato e cresciuto in strada, non è certo tipo da mandare a dire le cose.
Egli stesso giudicherà l'errore di Brema come una cosa che capita, ridendoci sopra e prendendola con la proverbiale filosofia.
I dirigenti del Bayern però, gli imposero di non rilasciare interviste per un po', continuando comunque a credere nei notevoli mezzi di Pfaff, acquistato per la sua agilità e sicurezza nell'area di rigore.
Qualche settimana dopo si rifarà parando un rigore a Manfred Kaltz, riacquistando la parola davanti ai microfoni delle testate sportive.
Quella parola che spesso risultava tagliente, come quando, senza mezzi termini, apostrofò Toni Schumacher con la parola criminale per via dell'infelice intervento sul francese Battiston al Mundial spagnolo.
O come quando disse di non temere Maradona (mai errore fu più madornale) alla vigilia della semifinale di Messico 86; la partita terminò 2-0 grazie alla doppietta del Pibe de Oro. Al termine di tale gara, Pfaff rincorse Maradona per il classico scambio della maglia. Maradona accettò di buon grado ricevendo in cambio i preziosi guanti.


Fu proprio in quel Mondiale che Pfaff ottenne i maggiori consensi. Arrivato in Messico dopo la conquista di due campionati e due Coppe di Germania con il Bayern, l'estremo difensore belga risultò tra i migliori giocatori del torneo.
Il Belgio inizia male il girone e passa il turno come migliore terza. L'ottavo di finale, giocato contro l'URSS, diventerà una delle più belle partite mai disputate nella storia dei Mondiali.
Risoltasi ai tempi supplementari col punteggio di 4-3, la partita visse di intense emozioni dove protagonisti diventarono Pfaff ed il suo dirimpettaio Rinat Dasaev; proprio il portiere belga tenne a galla i suoi compiendo degli autentici miracoli, negando a Belanov e compagni più rosee emozioni.
Il turno successivo vide il Belgio affrontare la Spagna con la gara risolta ai calci di rigore dopo l'1-1 dei 120 minuti; protagonista fu proprio Pfaff che neutralizzò l'unico rigore sbagliato della serie, quello calciato da Eloy.
Durante tale torneo si guadagnerà il soprannome di El Simpatico, per via di una bizzarra maglietta rossa indossata in onore di Kelly Le Brock, la famosa signora in rosso.


L'anno dopo il terzo posto finale a Messico 86 e la conquista del terzo Meisterschale col Bayern, Pfaff verrà eletto miglior portiere dell'anno.
Per molto tempo ci si è chiesto se Pfaff potesse essere paragonato ad un clown. Come mai? Prima guardate il video sottostante che raccoglie l'essenza del suo stile, poi proseguite nella lettura per scoprire le simpatiche gag di cui si rese protagonista.


Partita di addio al calcio di Platini: Pfaff prende il posto di Dasaev indossando dei giganteschi guanti e rubando il copricapo ad una guardia a bordocampo, condendolo con quelle manine automatiche che si autoapplaudono.
Amichevole Olanda-Belgio a Rotterdam: i tifosi olandesi iniziano ad insultare Pfaff (e sua madre) lanciandogli frutta ed ortaggi da cui raccoglierà una mela che si mangerà appoggiato al palo della porta.
Partita delle glorie post Mondiale 82: prese da bordocampo una sedia e si sedette in mezzo ai pali. A fine gara andò a salutare i bambini sulla sedia a rotelle scherzando con l'accompagnatore pelato a cui offrì i proprio riccioli biondi.

Oltre a queste simpatiche scenette che il pubblico adorava, rimarranno per sempre nella memoria i decisivi interventi ed i titoli vinti in patria ed in Germania.
Chiuderà la carriera al Trabzonspor nel 1990, dopo aver passato un altro anno in Belgio con la maglia del Lierse.
Un portiere sicuramente fuori dagli schemi, dotato di una simpatia unica e di una spregiudicatezza che lo aiutò molto a superare i momenti più difficili.
Niente male per uno che da piccolo si fratturò entrambe le braccia; ma la sua volontà andò oltre: "voglio diventare un grande portiere" aveva promesso a suo papà. Ci riuscì in pieno, sempre con un sorriso genuino a farne uno dei giocatori più simpatici della storia del calcio.


Matteo Maggio

martedì 21 aprile 2015

ENRIQUE GUAITA

Come tutti sappiamo il 10 giugno 1934 l’Italia si laurea per la prima volta nella sua storia campione del Mondo, a seguito della vittoria sulla Cecoslovacchia per 2-1. Al tempo tutto il pubblico italiano celebra le reti di Orsi e Schiavio con i quali la squadra di Pozzo ribalta il vantaggio di Puc ed a Roma alza la Coppa Rimet.
La compagine italiana è composta da giocatori di grandissimo livello, dimostrandosi completa  in ogni reparto: in particolare dispone di un parco attaccanti fortissimo, dove spicca la figura di Giuseppe Meazza, per molti il più forte calciatore italiano di tutti i tempi.
Tra le punte azzurre se ne distingue però un'altra, decisiva per le sorti della nazionale italiana nel suddetto campionato del Mondo.
Enrique (Enrico) Guaita viene ricordato per il contributo dato alla rappresentativa azzurra nel 1934 e per una particolare quanto prolifica carriera.



Il nome di battesimo tradisce indubbiamente le sua origini sudamericane ed è proprio in Argentina dove cresce e diventa un apprezzato calciatore nelle file dell’Estudiantes.
Nella squadra di La Plata esordisce appena diciottenne, mettendosi in mostra come punta esterna, in grado sia di trovare la rete personalmente, sia di fornire suggerimenti per i compagni di reparto. Proprio la sua partita d’esordio diventa subito leggendaria per il suo club e per l’evolversi della sua carriera: nella partita contro l’Independiente segna addirittura una tripletta che gli permette di entrare stabilmente nelle scelte dell’allenatore e nelle grazie del pubblico.
Quest’ultimo si dimostra molto affezionato al giovane calciatore, soprannominandolo “El Indio” per via del colore olivastro della sua pelle.
Guaita milita nell’Estudiantes fino al 1933, giocando a fasi alterne, ma collezionando comunque 65 presenze condite da 32 reti.
Nello stesso anno ha la grande opportunità di approdare oltreoceano per giocare in uno dei campionati europei più importanti del periodo, quello Italiano.
L’offerta gli arriva dalla Roma, che intende approfittare della normativa sugli oriundi per tesserare il forte attaccante: le disposizioni della federcalcio vietano l’ingaggio di calciatori stranieri, ma permettono invece di acquistare calciatori nati all’estero ma di discendenza italiana.
Guaita rientra in pieno in questa descrizione e nell’autunno del 1933 approda nella capitale italiana in compagnia di altri due calciatori argentini, Alejandro Scopelli ed Andres Stagnaro, anche loro ingaggiati dall’ambiziosa società capitolina.





I dettami del governo fascista non consentono l’utilizzo di nomi di origine straniera, per cui il nome Enrique viene italianizzato in Enrico, con il quale risulta identificato in tutti i documenti ufficiali.
L’allenatore Luigi Barbesino punta fortemente sul trio argentino per impostare una squadra palesemente offensiva, dove gli attaccanti sono chiamati ad un notevole lavoro.
La sua idea tattica prevede che Guaita giochi da prima punta, ruolo da lui mai ricoperto nelle precedenti esperienze.
L’idea del tecnico piemontese è brillante, in quanto in tale ruolo l’attaccante può esprimere al meglio tutta la sua potenza unita all’ottima tecnica ed al rinomato senso per il gol. In tale posizione ha la possibilità di essere più lucido, risparmiando le energie spese in notevoli azioni in posizione defilata.
I primi approcci con il calcio italiano non sono propriamente positivi, in particolare Guiata fatica ad abituarsi alla nuova realtà e patisce leggermente il nuovo ruolo, essendo abituato a partire da posizione defilata.
La partita della svolta è quella di Firenze dove la punta di origine argentina sigla una bella doppietta, sbloccandosi definitivamente.
Anche in Italia gli viene attribuito un simpatico nomignolo, nato durante la gara contro il Livorno dove la Roma indossa la maglia nera per distinguersi cromaticamente dagli avversari. Tale particolare divisa unita alla tripletta segnata gli valgono il nome di “Corsaro Nero”.
Guaita termina la stagione con 14 centri in 32 gare, dimostrando evidenti segni di miglioramento nell’arco della stessa e proponendosi come uno degli attaccanti più attesi per il campionato 1934/1935.
Ma nell’estate del 1934 ad attenderlo c’è la grande occasione di disputare il Campionato del Mondo con la nazionale italiana, approfittando del suo ruolo di oriundo. In realtà avrebbe già giocato due partite (con un gol) con la selezione argentina, ma i regolamenti vigenti consentono alla nazionale italiana di convocarlo.
Il commissario tecnico Vittorio Pozzo imposta la squadra con il canonico metodo, presentando cinque punte di ruolo, destinando Guaita all’originario ruolo di attaccante esterno destro. Nel suddetto schema la punta centrale è Angelo Schiavio, mentre Giuseppe Mezza e Giovanni Ferrari agiscono alle sue spalle, con Raimundo "Mumo" Orsi sulla fascia sinistra.
I contenuti tecnici del reparto offensivo italiano sono notevoli e nonostante la dura concorrenza, gli azzurri sono in assoluto una delle rappresentative dalle possibilità realizzative maggiori.
Nella prima partita l'Italia vince 7-1 contro gli Stati Uniti, nonostante Guaita non prenda parte alla gara, avendo la possibilità di diventare titolare inamovibile solo a partire dalla doppia partita dei quarti contro la Spagna.
Il giocatore della Roma si dimostra decisivo soprattutto nella combattuta semifinale quando un suo gol consente agli azzurri si superare la forte Austria per 1-0.


In finale Guaita non va a segno, ma è decisivo con l’assist per il gol vittoria di Angelo Schiavio che  regala alla rappresentativa italiana la sua prima Coppa Rimet.
Sulle ali dell’entusiasmo per tale storica vittoria,  la nuova stagione lo vede capocannoniere con 28 reti in 29 partite, record ancora in essere per il campionato italiano a sedici squadre.
Tale brillante prestazione lo impone come uno degli attaccanti di riferimento dell’epoca, avendo tratto giovamento dalla modifica della posizione in campo, che gli consente di essere quasi immarcabile nell’area di rigore.


La Roma termina il campionato al quarto posto, ma è opinione unanime che la compagine giallorossa abbia ampi margini di miglioramento e possa essere tra le favorite per lo scudetto nel successivo anno agonistico.
A conferma di tale previsione la dirigenza capitolina ingaggia nell’estate giocatori del calibro di Luigi Allemandi e Renato Cattaneo, rinforzando ancora di più una già molto competitiva rosa.
Ma il 20 settembre 1935 succede un fatto clamoroso che segna per sempre la carriera di Guaita: a seguito dell’arruolamento forzato in vista della Guerra di Etiopia, i tre argentini della Roma decidono di tornare di nascosto in Argentina, appunto per evitare la chiamata alle armi.
La cosa suscita infinite polemiche, soprattutto per il fatto che i calciatori possono godere di un trattamento speciale che consentirebbe loro di non essere chiamati sul fronte: alcune voci parlano di un riuscito tentativo di danneggiare la squadra capitolina, attraverso false informazioni fornite ai calciatori per indurli ad abbandonare il paese.
Le autorità italiane accusano i tre argentini di traffico di valuta e precludono loro qualsiasi possibilità di rientrare nel suolo italico anche negli anni successivi.
I tifosi giallorossi vivono una stagione esaltante terminata al secondo posto, ma condita dal rammarico di non aver goduto delle prestazioni dei sudamericani rientrati in Argentina. In particolare il solo punto di distacco dal Bologna campione alimenta più di un rimpianto per l’assenza del proprio cannoniere, che avrebbe senz’altro colmato tale esiguo margine.
Guaita trova ingaggio nel Racing Club nel 1936 per giocarvi due ottime stagioni condite da 31 reti in 57 apparizioni.
Nel 1937 arriva per lui una nuova convocazione dall’Argentina, andando così a rendere più tortuoso il suo percorso con le rappresentative nazionali.
L’occasione è quella della Copa America 1937 vinta proprio dalla rappresentativa “Albiceleste” per la quale l’attaccante del Racing gioca due partite senza comunque andare a segno.
Nel 1938 ritorna alla sua società di origine, l’Estudiantes, dove gioca un’unica stagione che si rivela l’ultima della sua carriera, Dopo 27 partite e 9 gol appende definitivamente le scarpe al chiodo, nonostante abbia solo trent’anni e sia ancora in discrete condizioni atletiche.
Senza nulla aggiungere alle questioni personali che l'hanno portato ad allontanarsi dall'Italia, si può considerare Enrique Guaita come una delle punte più forti del suo tempo, entrato nella storia italiana come oriundo, ma consegnato alla leggenda per il contributo al Mondiale del 1934 e per essersi distinto con la maglia della Roma.
Purtroppo per un tempo molto limitato....



Giovanni Fasani 

venerdì 17 aprile 2015

BASTIA POCO

Il calcio francese non ha mai vissuto epoche d'oro come per gli altri principali campionati europei, dove, con le dovute pause, si è sempre assistito ad ascese continentali di una certa importanza.
Ad eccezione dell'Olympique Marsiglia nel 1992 (Coppa Campioni) e del Paris St. Germain nel 1996 (Coppa delle Coppe), il palmares dei trofei francesi in Europa è praticamente ridotto all'osso.
L'ultima stagione in cui le squadre d'oltralpe hanno conteso un trofeo, è stata quella del 2003/2004, dove il Monaco di Didier Deschamps cedette il passo al secondo trionfo continentale del Porto allenato da José Mourinho e dove l'Olympique Marsiglia guidato da Didier Drogba, fu sconfitto 2-0 dal Valencia di Rafael Benitez nella finale dell'Europa League.
Esattamente 37 anni fa un'altra squadra francese tentò di contendere l'allora Coppa UEFA al più forte PSV Eindhoven, stiamo parlando del Bastia, squadra da sempre poco avvezza ai palcoscenici del grande calcio.


Guardando la foto si nota subito lo stemma della squadra in enorme evidenza al centro della maglia, a testimoniare la grande appartenenza che lega il club alle proprie origini.
Se una squadra africana ad un mondiale gioca anche per il continente, il Bastia gioca per la Corsica.
Quella de I Leoni di Furiani è la miglior stagione della propria storia. Ma il cammino verso la finale della Coppa UEFA 1977/1978 nasce nel precedente campionato dove, classificatasi terza, la squadra di Pierre Cahuzac regala spettacolo e gol (ben 86) come mai si erano visti in Francia.
Al termine del campionato poi, arriva anche il superacquisto del presidente Paul Natali, Johnny Rep; arrivato in Corsica per sostituire Dragan Dzajic, uno dei due capocannonieri della squadra di ritorno alla Stella Rossa.
In un primo momento c'era scoramento tra i tifosi corsi che vedevano in Dzajic uno dei trascinatori della squadra, ma tutto si lenì non appena la forte ala destra olandese firmò il contratto con la squadra di Furiani.
Già Furiani, perché a dispetto del nome, il Bastia gioca le proprie partite nella piccola cittadina di circa 5.000 abitanti dove per altro è presente lo Stade Armand Cesari, il più grosso dell'isola corsa.


Con la fiducia della bella stagione appena passata e con la stessa identica squadra (ad eccezione di Dzajic e dell'altro bomber Jacques Zimako), può iniziare il cammino in Europa, non tra qualche scetticismo visto l'eccessivo offensivismo del modulo di Cahuzac.
In porta si alternano addirittura tre portieri: quelli che otterranno il maggior numero di presenze (6) sono Marc Weller e Pierrick Hiard.
Il primo prese il posto di Ognjen Petrovic, estremo difensore serbo che accusò una serie di problemi fisici, compresa un'operazione al piede che ne pregiudicò la carriera in seguito ad alcuni fastidi circolatori che lo portarono al ritiro ad appena 29 anni.
Hiard invece, era una giovane promessa e venne impiegato da Cahuzac dopo che Weller mostrò alcune lacune.
Weller era il classico portiere che andava su tutti i palloni, il che lo portò ad alternare parate da vero muro, a topiche da campetti di periferia.
La difesa verteva sull'esperienza di capitan Charles Orlanducci, tuttora recordman di presenze (circa 500) con la maglia del Bastia e vero idolo della tifoseria biancoblu.
Nato a Vescovato, una cittadina dell'Alta Corsica, era il classico difensore centrale rude ma sempre corretto; eccedeva in qualche tackle ma era sempre pronto a tendere la mano all'avversario menomato.


Insieme ad Orlanducci ed al centrocampista Papi, può vantare più di 5 stagioni in Corsica, André Burkhardt, cursore di fascia destra che dovette ben presto lasciare il posto a Paul Marchioni a causa di un infortunio al perone.
Sulla corsia sinistra Jean Louis Cazes, rude terzino che scelse il calcio al posto del rugby; acquistato dal St. Etienne, arrivò in Corsica da perfetto sconosciuto guadagnando pian piano il posto da titolare. Durante questa stagione si arrivò addirittura a parlare di un possibile impiego in nazionale in vista del Mondiale argentino.
A completare il reparto arretrato André Guesdon, difensore centrale proveniente dal Monaco; fu accolto inizialmente con scetticismo per via della partita della Coppa di Francia del 7 maggio 1974, dove una pesante rissa scoppiò prima del fischio finale che promosse i monegaschi alle semifinali. Ben presto tale evento fu dimenticato dai tifosi corsi che fecero di Guesdon un apprezzato centrale.
Il centrocampo a 3 prevedeva molta tecnica e corsa. A tal proposito l'impiego di Jean Francois Larios e Felix Lacuesta si rivelò particolarmente azzeccato.
Entrambi provenienti dal St. Etienne erano i pilastri della nazionale giovanile. Cahuzac dovette impiegarli obbligatoriamente a seguito dei continui problemi fisici di Jean Louis Desvignes (arrivato da semisconosciuto dalle divisioni minori francesi e fuori per quasi tutta la stagione a causa della rottura del menisco) e Georges Franceschetti (di ritorno al Bastia dopo l'amara esperienza con l'Olympique Marsiglia).
Sia Larios che Lacuesta avevano nelle corde un tiro molto potente ed una tecnica davvero utile nel meccanismo offensivo della squadra, senza trascurare la fase difensiva, anche per coprire le proiezioni offensive del vero fantasista della squadra, il cervello, quel Claude Papi chiuso in nazionale solamente per il fatto di essere capitato nel momento sbagliato al cospetto di Michel Platini.
Papi mise a segno 7 gol nella Coppa UEFA, guadagnandosi il pass per il mondiale argentino (unico dei corsi).
Eletto miglior giocatore corso della storia, spese l'intera carriera nel Bastia; una crisi cardiaca ne interruppe prematuramente la vita a 33 anni.


Il tridente d'attacco vedeva alternarsi vari interpreti, il tutto poggiava sull'ottimo fiuto del gol di Francois Felix (foto sotto). Protagonista assoluto del terzo posto dell'anno prima con 21 reti fu protagonista di un trasferimento al Racing Club Parigi prima ed al Nimes poi nel 1973, dando adito ad una protesta pubblica. Nei 2 anni trascorsi lontano dalla Corsica non trovò mai la giusta condizione e fece ritorno alla case base nel 1975.
Detto della partenza di Dzajic, qualche presenza la mise insieme Johnny Rep, il nome forte della rosa per via dei suoi trionfi con l'Ajax delle meraviglie.
Non ancora 18enne fece il suo esordio nella partita casalinga contro il Newcastle, Jean Marie de Zerbi, estrosa mezzala guizzante in grado di creare numerosi grattacapi alle retroguardie avversarie; prese il posto a seguito dell'infortunio di Yves Mariot che non riuscì mai ad imporsi per il peso di sostituire nel ruolo di mezzala sinistra Dzajic.
A chiudere il parco attaccanti colui che mise in discussione addirittura il ruolo di Felix, stiamo parlando di Abdelkrim Merry, meglio conosciuto come Krimau.
Fu notato dalla dirigenza del Bastia in un torneo giovanile 3 anni prima dove stregò tutti con la maglia numero 10 del Marocco; chiamato in causa nel momento del bisogno non fece mancare il suo apporto soprattutto nell'ottavo di finale contro il Torino.


L'avventura europea inizia nel migliore dei modi con il 3-2 casalingo allo Sporting Lisbona di Salif Keita; assoluto protagonista quel 14 settembre fu Felix che stese gli avversari con una tripletta. La squadra di Cahuzac, poi, bissò con un 1-2 in terra lusitana rimontando con Rep ed ancora una volta Felix, l'iniziale svantaggio.
Nella gara di andata dell'Armand Cesari vi fu anche un fatto curioso: i portoghesi, abituati a stadi più "internazionali", realizzarono solo in un secondo momento (non senza un pò di spavalderia) che il piccolo Cesari era anche il terreno di gioco della partita.



I sedicesimi oppongono i francesi al più temibile Newcastle che nella gara di andata del Cesari passa avanti grazie a Cannel. Nel momento del bisogno è Claude Papi a ribaltare il risultato realizzando una doppietta che rimanderà il discorso qualificazione al St. James Park.
Nella gara di ritorno Cahuzac deve far fronte a numerose assenze spostando addirittura Orlanducci a centrocampo e con il giovane de Zerbi a sostituire Mariot.
Proprio il 17enne soprannominato Cirinu e Rep (doppietta) saranno i mattatori della serata zittendo i 40.000 inglesi dopo appena 8 minuti di gioco. I'1-3 finale fa acquisire maggior consapevolezza nei propri mezzi alla piccola squadra corsa, rimasta concentrata per gli interi 90 minuti della bolgia inglese.



Sulla strada del Bastia a questo punto si presenta il forte Torino di Gigi Radice, reduce dallo scudetto di due stagioni prima.
Il confronto, almeno sulla carta, sembra impietoso, con i granata strafavoriti e guidati in attacco dalla coppia del gol Graziani-Pulici.
Proprio Pulici porterà avanti i suoi nel match di andata ancora una volta giocato a Furiani; ma senza scomporsi e mantenendo ordine tattico, il Bastia rimonta per la terza volta in tre gare interne grazie a Papi e Rep.
Il ritorno al Comunale si mette ben presto in discesa con Larios che fulmina Castellini con un bolide di destro da 25 metri; il Torino però è squadra che sa reagire e con Ciccio Graziani si porta sul 2-1 a cavallo tra primo e secondo tempo.
A risolvere la contesa l'uomo meno atteso: quel Krimau che Cahuzac ha dovuto mandare in campo per forza senza troppa convinzione. La doppietta del giocatore marocchino vale il 2-3 finale per la gioia dei numerosi tifosi arrivati dalla Corsica.




Il quarto di finale si rivelerà il turno più facile per i ragazzi di Cahuzac che nell'andata, tanto per cambiare giocata al Cesari, regola con un sonoro 7-2 i tedeschi dell'est del Carl Zeiss Jena mandando in rete anche il terzino Cazes ed il centrocampista Franceschetti, oltre alla doppietta di Felix.
Il ritorno in Germania diventa una pura formalità nonostante l'ambiente venga scaldato dai tifosi di casa per via di alcune questioni politiche. Il 4-2 finale per il Carl Zeiss permette comunque alla truppa corsa di accedere alle semifinali, traguardo totalmente insperato ad inizio stagione.




Il sorteggio per le due semifinali è da brividi: se il Bastia rappresenta la lieta novella del torneo, PSV Eindhoven e Barcellona sono le grandi favorite. Ma l'urna sorride ai francesi che si troveranno di fronte gli svizzeri del Grasshoppers.
Per la prima ed unica volta nella manifestazione, la gara di andata viene giocata fuori casa; in barba al delicato impegno, Cahuzac spedisce contemporaneamente in campo Rep, Felix, Mariot e Krimau. Proprio il giocatore marocchino porterà avanti i suoi alla metà del primo tempo, ma il Grasshoppers è squadra tosta e porta a casa la vittoria imponendosi 3-2.
Il ritorno due settimane più tardi è letteralmente da film: sotto una pioggia battente e con più spettatori della normale capienza, al Bastia serve un solo gol per raggiungere la storica finale.
Sin da subito è il Bastia a fare la partita e nonostante la più che buona organizzazione tattica svizzera, arrivano diverse occasioni che si infrangono sull'ottima vena del portiere Roger Berbig.
A risolvere la pratica non può che essere il giocatore di maggior talento, Claude Papi, che a 20 minuti dal termine realizza lo splendido gol che alleggerisce i 15.000 del Cesari. Il Bastia è in finale di Coppa UEFA.



A questo punto l'avversario della finale non può che essere una grande del calcio europeo. A spuntarla è il PSV Eindhoven che nella doppia sfida supera il Barcellona siglando un gol in più al Camp Nou.
Come da "tradizione" la gara di andata si disputa a Furiani non senza qualche timore di rinvio. Nei giorni precedenti la partita, un autentico nubifragio si è abbattuto sull'Alta Corsica rendendo il campo ai limiti dell'agibilità.
Con la consapevolezza di avere il match point in casa, gli olandesi lasciano il pallino del gioco al Bastia che attacca per tutta la partita senza però trovare la via della rete.
La gara di ritorno invece, si gioca sotto il sole cocente di Eindhoven. Gli olandesi, più tecnici, annientano con un sonoro 3-0 i corsi che per tutta la partita subiscono il gioco dei ragazzi di Rijvers. Segneranno Willy Van De Kerkhof, Gerrie Deykers e Willy Van der Kuijlen.
Il sogno finisce qui, la Coppa la vincono gli olandesi.



Quella 1977/1978 è la miglior stagione della storia del Bastia che chiuderà 5° in campionato. Una cavalcata davvero entusiasmante quella della formazione di Cahuzac che ha imposto il proprio gioco offensivo a tutte le latitudini.
Senza avere uno squadrone e con la stella di Johnny Rep, il Bastia ha scritto una pagina incaccellabile della storia del calcio.



Matteo Maggio

martedì 14 aprile 2015

ELI OHANA

Storicamente il calcio israeliano viene considerato non propriamente di prima fascia, a causa della lontananza geografica del suddetto paese e per i non positivi risultati ottenuti dalla propria rappresentativa nazionale: a tal proposito Israele può vantare un'unica partecipazione ad una fase finale di un Mondiale, quella del 1970, conclusasi al primo turno.
Il calcio italiano è sempre stato restio ad attingere da tale bacino e solo due giocatori israeliani hanno militato nel nostro campionato: Tal Banin approdato a  Brescia nel 1997 ed Eran Zahavi approdato a Palermo nel 2011.
Se si aggiunge una non conclusa trattiva tra Ronny Rosenthal e l'Udinese alla fine degli anni '80, naufragata per presunte scritte antisemitiche, l'Italia si dimostra come al solito miope nell'interessarsi a panorami calcistici che ritiene storicamente non evoluti calcisticamente.
Fortunatamente nel resto d'Europa l'attenzione ai giocatori promettenti è sempre molto alta ed in molti nella metà degli anni '80 si accorgono di un purissimo talento militante nel Beitar Gerusalemme, destinato ben presto ad approdare nel vecchio continente.
Nel 1987 Eli Ohana è uno dei giocatori più promettenti del panorama internazionale, distinguendosi per doti tecniche non comuni.


La sua carriera si sviluppa proprio nella squadra giallonera della capitale, dove evidenzia le tipiche doti del trequartista, impreziosite da un sinistro educato, che gli consente strepitose realizzazioni e raffinati assist.
Il pubblico israeliano è ammirato dalla sua classe e sin da subito la sensazione è quella di avere sotto gli occhi un talento unico.
E' in possesso di un elegante dribbling, che gli consente di saltare più di un avversario con grande facilità , trovando spesso la via della rete.
A tal proposito è anche dotato di uno spiccato tempismo negli inserimenti, grazie ai quali va in gol sovente anche di testa, sfruttando un fisico longilineo e ben strutturato.
Nonostante il suo bagaglio tecnico sia altamente superiore a quello medio della Liga Leumit, non esagera con la giocata personale e per "La Menorah"  diventa un elemento cardine e principale riferimento per lo sviluppo del gioco.
Dopo un campionato israeliano e due coppe nazionali le sirene dell'Europa si fanno troppo forti e nel 1987  approda al Mechelen alla corte del tecnico olandese Aad de Mos, intento a costruire un'ambiziosa quanto vincente squadra.
Nel nuovo contesto modifica leggermente il suo approccio e si dimostra più centrocampista che uomo gol: i numeri al  Beitar Gerusalemme parlano di 70 reti in 172 partite, mentre nel campionato belga si riducono a 10 in 51 apparizioni.
L'impatto con il calcio europeo è da subito molto positivo, tanto che nella stagione 1987/1988 la squadra belga vince la Coppa delle Coppe.
Il contributo di Ohana al successo è decisivo ed alla fine della competizione sono proprio le sue giocate a fare la differenza.
Negli ottavi di finale una sua doppietta sul campo del St. Mirren determina lo 0-2 finale, dopo che la gara in Belgio era finita a reti bianche.
Ancora più determinante è la rete che segna sul campo della Dinamo Minsk nei quarti di finale, regalando alla propria squadra il fondamentale 1-1 dopo la vittoria per 1-0 dell'andata.
In semifinale l'avversario è la sorprendente Atalanta che viene eliminata con un doppia vittoria per 2-1: il primo gol nella partita di andata viene segnato proprio dal giocatore israeliano.


La squadra belga accede alla finale di Strasburgo dove ad attenderla c'è il temibile Ajax, fino a quel momento apparso come la squadra migliore della competizione.
In campo il Mechelen gioca un'ottima gara ed è proprio un'azione di Ohana a decidere il match: dopo una serie di finte pennella un preciso cross per la testa di Piet den Boer che realizza il decisivo gol della vittoria.


Al termine del torneo  gli elogi principali sono proprio per il talento israeliano, le cui doti vengono notate anche dalla stampa italiana: Il Guerin Sportivo lo premia con il "Bravo" 1988, come miglior giocatore under 23 partecipante alle competizioni europee.
L'ottimo momento del Mechelen prosegue anche nella stagione successiva, aperta dal trionfo in Supercoppa Europea contro il PSV, nonostante Ohana non prenda parte alla doppia sfida causa infortunio.
Ha modo comunque di dimostrarsi decisivo in campionato, contribuendo alla grande alla vittoria del titolo nazionale, dopo un attesa di 40 anni per i tifosi del Mechelen.
A livello europeo acquisisce ovviamente grande fama e più di una squadra si interessa al suo ingaggio, con la speranza che un approdo a lidi calcistici superiori lo possa completare definitivamente.
Nel frattempo ha la grande opportunità di giocare le qualificazioni al prossimo Mondiale con la propria nazionale, giocando le gare nel girone oceanico, causa le pesanti ostilità tra Israele e le altre nazioni del continente arabo.
Israele si guadagna la possibilità di sfidare la Colombia nello spareggio per accedere ad Italia 90 dopo un duro confronto con Nuova Zelanda ed Australia: proprio contro la squadra australiana Ohana segna il gol che vale il pareggio ed il passaggio del turno.


La partita è preceduta da intense polemiche a seguito di presunte dichiarazioni antisemitiche del commissario tecnico australiano al quale Ohana risponde con personalità, indicando più volte la Stella di David sulla maglia.
Tale episodio certifica il suo attaccamento alla sua nazione ed un grande senso di appartenenza, da lui più volte esternato anche nelle esperienze europee.
La successiva doppia sfida con la Colombia sorride alla squadra sudamericana che vincendo la gara di andata per 1-0 e pareggiando al ritorno si guadagna l'accesso alla fase finale.
Per Ohana è una profonda delusione e rappresenta l'ultima tangibile possibilità di giocare un Mondiale.
Nella stagione 1989/1990 ha l'opportunità di giocare la Coppa Campioni, dove il Mechelen viene battuto dal Milan nei quarti di finale: per il talento israeliano c'è la soddisfazione di una bella doppietta nel 5-0 rifilato al Rosenborg nel primo turno.
Nel corso della stagione arretra la sua posizione in campo e le qualità delle sue prestazioni tendono a calare,  subendo quella che appare come una piccola involuzione.
Nel 1990 lascia il Belgio per tentare l'avventura nel campionato portoghese nelle file del Braga, cercando di trovare nuove motivazioni e di misurarsi con un tipo di calcio diverso dal precedente.
Nonostante i ritmi più bassi fa fatica ad integrarsi al meglio e dopo una sola stagione decide di ritornare in patria proprio al  Beitar Gerusalemme.
Dal suo ritorno in patria trae immediato giovamento e per lui comincia una vera e propria seconda carriera, completamente spesa con la maglia giallonera.
A quest'ultima concede ben otto stagioni terminando la carriera nel 1999 a 35 anni, dopo aver vinto tre campionati ed una Coppa Toto (l'ex Coppa di Lega).
Precedentemente mette fine alla sua esperienza con la nazionale, chiudendo nel 1997 dopo 50 partite e 17 gol.
Al termine della carriera continua la sua vita nel mondo del calcio, allenando vari club in patria prima di entrare nella federazione israeliana per allenare varie rappresentative nazionali.
Il pubblico israeliano non può che tributargli un logico e sontuoso ringraziamento per quanto fatto in campo e per quanto ha rappresentato come simbolo sportivo per tutto lo stato.

 

Ohana è in assoluto uno dei migliori talenti espressi dal suddetto movimento calcistico e l'unico suo limite è quello di aver avuto un periodo limitato di massimo rendimento: proprio quando la sua stella sembra splendere al massimo arriva inesorabile un lieve offuscamento, che solo il rientro a Gerusalemme lenisce in parte.
Tuttavia resta vivo il ricordo di un giocatore dalla classe purissima, sicuramente merce rara in un paese "insospettabile" dal punto di vista calcistico.


Giovanni Fasani

venerdì 10 aprile 2015

BLACK DESTINY FOR GREEN CROSS

Come abbiamo sempre constatato il calcio non è solo fatto di tattiche e moduli vari. Molto spesso ci imbattiamo in aspetti che hanno poco a che vedere col campo, ma che comunque sono parte integrante dello sport più seguito al mondo.
Calciomercato, procuratori, tv, programmi più o meno interessanti e molto altro; insomma, è praticamente impossibile rimanere senza calcio.
Decisamente più triste è il ricordo che ogni tanto abbiamo di alcune compagini prematuramente scomparse, interrogandoci su dove sarebbero potute arrivare se la morte non avesse preso il sopravvento.
Nel nostro paese è praticamente impossibile non ricordare il Grande Torino, una squadra quasi imbattile che perse quasi tutti i suoi componenti nella tragedia di Superga.
Qualche articolo addietro abbiamo citato, nel continente sudamericano, la tragedia dei boliviani del The Strongest, una squadra di certo meno forte del Torino, ma da sempre nell'elite del calcio più strano e pazzo del mondo.
Esattamente otto anni prima (nel 1961) e poco più a sud della Bolivia, un'altra tragedia toccò i cuori degli appassionati di calcio.
Stiamo parlando della Tragedia del Green Cross, squadra cilena, il cui aereo si schiantò nella provincia di Linares il 3 aprile 1961 spazzando via buona parte di giocatori e staff.


Quel 3 aprile la squadra originaria di Santiago era arrivata fino ad Osorno (circa 620 km più a sud) per disputare una gara valevole per la Copa Chile, alla fine persa 1-0.
La prima settimana di aprile di quell'anno era quella che anticipava la Pasqua, una sorta di settimana santa in cui ci si sposta parecchio per il paese per andare a trovare parenti o amici.
Proprio il gran numero di persone itineranti, la squadra biancoverde decise di dividere lo staff in due voli. Il primo in partenza nel pomeriggio ma con numerosi scali, mentre il secondo, in partenza nella tarda serata, era diretto a Santiago senza soste.
La maggior parte dei componenti e gli arbitri della gara scelsero di attendere qualche ora in più per prendere quello che sarebbe stato un ritorno più rilassante e rapido.
Circa a metà del volo (della durata complessiva di 2 ore mezza circa), i piloti chiesero alla torre di controllo di poter volare ad una quota più bassa a causa del ghiaccio e del freddo che andava accumulandosi alle più elevate quote.
La torre stessa negò il permesso ai piloti per non sovrapporre la rotta con altri voli diretti da quelle parti.
Quando qualche minuto dopo venne suggerito un percorso alternativo, si persero i segnali radio e del volo numero 210 della LAN (nella foto sotto un modello simile a quello della tragedia) non si seppe più niente fino allo schianto contro il Monte Lastima, della catena del Longavi, regione di Linares.
Le prime indagini, confermate anche successivamente, portarono alla conclusione dell'avaria di un motore, che con tutta probabilità non aveva retto le basse temperature.


In pochi istanti il destino si portò via la squadra che aveva vinto un anno prima il titolo della seconda divisione che le aveva permesso di partecipare al massimo torneo cileno.
E' doveroso ricordare i 15 nomi (compreso il personale vi erano 24 passeggeri) che presero parte allo sciagurato volo: l'allenatore Arnaldo Vasquez. I giocatori Dante Coppa, Eliseo Mourino, Josè Silva, Manuel Contreras, David Hermosilla, Berti Gonzalez, Alfonso Vega e Hector Toledo. Il medico Mario Gonzalez. Gli arbitri Lucio Cornejo, Roberto Gagliano e Gaston Hormazabal. I due dirigenti della federazione Luis Medina e Pedro Valenzuela.
Qualche settimana dopo fu anche possibile dare degna sepoltura ai caduti grazie all'intervento del corpo militare, impegnato in una difficile operazione di recupero nella regione dei laghi. Le parole di Carlos Al-Konr, giocatore che non partecipò alla trasferta per motivi di studio, sono esemplificative di ciò che avvenne all'improvvisato funerale: "I feretri avevano più cenere e pietre che corpi. Fu un gesto simbolico più che un funerale vero e proprio".



Il 3 febbraio 2015 è una data che ha riportato alla memoria la triste vicenda del Green Cross.
Un gruppo di alpinisti, capitati dalle parti del Monte Lestima trovò i resti del Douglas DC-3, andati completamente persi dopo lo schianto e sommersi dai numerosi cumuli di neve che ogni inverno imbiancano le vette dello stato andino.
Per rispetto delle vittime non furono rese note le coordinate evitando così un pellegrinaggio tanto inutile quanto fuori luogo.
Il Green Cross si fuse al Deportes Temuco nel 1964 dopo la conquista di un altro campionato cadetto, mantenendo lo stesso logo (rivisitato poi col tempo).


A distanza di 54 anni il ricordo del Green Cross è ancora vivo nelle memorie degli appassionati.


Matteo Maggio