venerdì 26 gennaio 2018

SE AGBONAVBARE DIFENDERA' LA PROPRIA PORTA NEI MONDIALI DI CALCIO AMERICANI...


A Vallecas, il barrio operaio di Madrid, la signora Carmen Martinez Ayuso, arzilla ottantacinquenne, riceve l'ordine di sfratto: non riesce a pagare l'affitto delle stanze nel condominio popolare in cui abita.
Per aiutarla si mobilitano tutti. Anche il mio vecchio club, il Rayo Vallecano de Madrid, la terza squadra della città, che lancia una sottoscrizione per una raccolta di fondi che possa aiutare l'anziana signora.
"Ho avuto un sacco di soldi" ha detto la signora Carmen "ma non mi servono tutti. So che c'è un ragazzo che sta male, che sta morendo. Vorrei che migliorasse e ho pregato per lui, vorrei dare i miei soldi ai suoi figli, perché possano raggiungerlo per un ultimo saluto."
Quel ragazzo sono io, Wilfred Agbonavbare, portiere Nigeriano e idolo del Rayo.


Più che idolo sono uno che incarna lo spirito della squadra, quello della "peña rayista": sono un lavoratore del pallone e tutto quello che guadagno è destinato al benessere della mia famiglia. Non è tanto ma è pur sempre più di quello che guadagnano tante altre persone facendo magari dei lavori che nemmeno gli piacciono. Io tutto sommato mi diverto pure!
Sono nato a Lagos in Nigeria il cinque ottobre millenovecentosessantasei, e molto giovane mi sono trasferito a Benin City, dove il sogno di giocare a calcio si realizza.
A soli diciassette anni, è il millenovecentottantatre, entro a far parte della New Nigeria Banks, squadra locale. In brevissimo tempo riesco a conquistare il posto da titolare, e dopo soli due anni vinciamo il titolo nazionale e per due anni consecutivi la Coppa WAFU.
Maledetti acronimi, quel WAFU sta per West Africa Football Union.
Poi nel millenovecentonovanta lascio i mio vecchio club per vestire la maglia del BCC Lions Football Club, squadra di Gboko.
Avete ragione, quel BCC sta per Benue Cement Company.
Ma è stato davvero un passaggio fugace, perché l'anno dopo, il Novantuno, finalmente arrivo in Europa.
In Spagna mi hanno ingaggiato quelli del Rayo Vallecano, la squadra del popolo, dei lavoratori.


Giocavano in Segunda División, e dico giocavano, perché anche grazie alle mie parate alla fine di una bella stagione, riusciamo a conquistare la promozione in Primera.
In città il Real e l'Atletico si giocavano il campionato, per noi la vittoria era raggiungere la salvezza. E ci siamo riusciti per ben tre anni consecutivi.
Alla fine col il Rayo ho disputato ben centodiciassette partite, fino a quando, nel Novantacinque, ho ceduto alle lusinghe dell'Écija Balompié, sempre in Segunda, per due anni.


Poi nel Novantasette ho detto basta.
Ho avuto la gioia di prendere parte ad una Coppa d'Africa e ad una Coppa del Mondo, quella del Novantaquattro. Non sono stato il portiere titolare, è vero, davanti a me c'era il buon Peter Rufai, ma credetemi, per un calciatore è sempre una gran soddisfazione arrivare a giocare queste manifestazioni.
Con le Aquile in Marocco il torneo lo abbiamo vinto.
Pure io ho alzato al cielo la Coppa d'Africa.
Negli Stati Uniti invece, onestamente, se non fosse stato per Roberto Baggio, per quel suo tiro che passa fra una selva di gambe, andandosi ad infilare lemme lemme nella rete, forse avremmo potuto sfidare il Brasile in finale, e poi chissà.
Forse avevano ragione "Elio e le Storie Tese" che cantavano: "Se Agbonavbare difenderà la propria porta nei mondiali di calcio Americani / forse la Nigeria vincerà questi campionati di calcio mondiali Americani".
Chissà.
Comunque alla fine i giorni del calcio sono finiti, e la vita va avanti. Io non posso certo permettermi di stare con le mani in mano
Io devo andare avanti.
E avanti sono andato deciso.
Ho trovato un impiego come facchino all’aeroporto Barajas di Madrid, turni di notte e domeniche comprese.
Sono “famoso”, è vero, e quindi? Per guadagnare soldi c'è bisogno di lavorare. Mia moglie è morta per un cancro al seno e ora vivo da solo nella città che mi ha adottato. Sono dieci anni che non torno in Nigeria, lì ci sono i miei figli e devo spedire soldi per consentire loro di continuare a studiare.
La vita è dura, il lavoro è duro, duro, duro.
Ma mi era già chiaro che dopo il calcio, avrei dovuto fare altro.
Prima non giravano tanti soldi, o almeno non tanti come adesso. Ora in due stagioni sarei già ricco.
Il mio sogno sarebbe stato comunque quello di aprire una scuola calcio nel mio Paese.
Poi è arrivata la malattia.
La stessa che si era già presa mia moglie.
Io non l'ho visto alla TV, ma mi hanno raccontato che allo stadio Vicente Calderón di Madrid, prima del derby tra Atletico e Rayo, i giocatori delle due squadre sono scesi in campo reggendo insieme uno striscione.
Sullo quello striscione c'era scritto: "Fuerza Wilfred".
È una delle ultime cose che ho sentito.
Poi, mi sono addormentato.


 
I miei figli non li ho rivisti, nonostante il gesto nobile della ottantacinquenne signora Carmen.



Francesco Mistrulli

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.