martedì 15 aprile 2014

C'ERA DEL MARCIO IN DANIMARCA

Pochi sport come il calcio riescono a rendere reali imprese che siamo invece soliti ammirare in racconti fantasiosi oppure in appassionanti film.
Non sono poche le volte nelle quali il piccolo Davide ha avuto la meglio sul gigante Golia, regalando pagine appassionanti e sfociando in quel football romantico che ancora oggi ci appassiona tanto.
In queste situazioni si parla di vere e proprie "favole", dove il protagonista della vicenda, partendo da un inizio sfortunato e complesso, ottiene alla fine il tanto agognato premio. 
Tante volte le vicende sono davvero incredibili, sfociando tanto nell'assurdo, quanto nel drammtatico.
Analizzando come la Danimarca sia arrivata a vincere l'Europeo del 1992, ci si imbatte in una trama che sembra davvero studiata a tavolino, dove la "cenerentola" scandinava si è trasformata in una celebratissima regina.
Tutto ha inizio con il consueto girone di qualificazione europeo a cui è lasciato il compito di determinare quali squadre potranno competere per il titolo insieme alla Svezia, già qualificata in quanto paese ospitante.
La Danimarca, inserita nel Gruppo 4 conquista alla fine dello stesso 13 punti , non ottenendo però il visto per i campionati europei, essendo superata di un solo punto dalla talentuosa Jugoslavia. Ironia della sorte, nel doppio scontro diretto le due squadre ottengono una vittoria ciascuna, entrambe in trasferta; saranno queste le due uniche sconfitte riportate dalle due opponenti. A fare la differenza è il pareggio ottenuto dagli scandinavi in Irlanda del Nord, laddove la squadra balcanica aveva invece vinto.
Nonostante il dignitoso cammino c'è grande insoddisfazione nell'ambiente, con il tecnico Richard Moller Nielsen preso di mira da diverse critiche, incentrate sul pessimo rapporto da lui avuto con alcuni giocatori, principalmente Michael Laudrup.


Allenatore esperto e pratico, ha legato i suoi successi con l'Odense in patria ed a livello di nazionale impone un atteggiamento a prima vista prudente, ma che sa trasformare rapidamente, anche alla luce dei talenti a disposizione.
Terminata la stagione 1991/1992 per i giocatori danesi arriva il "rompete le righe" da parte dei rispettivi club con la possibilità di gustarsi l'Europeo come spettatori. Anche il futuro del commissario tecnico sembra quindi incerto, con ogni decisione rimandata a settembre.
A questo punto gli avvenimenti sociopolitici entrano in gioco, con conseguenze destabilizzanti per il mondo del calcio e terribili dal punto di vista umano.
La regione balcanica è attraversata da un grande conflitto etnico sociale, che inizia ad insanuginare l'intero paese, mettendo in serio pericolo l'unità della nazione e la sicurezza stessa.
Non è ovviamente questo il contesto atto a parlare di tale tragica situazione, quindi è giusto limitarsi ad analizzare, in breve, cosa succede all'indomani della risoluzione ONU 757.
Con tale provvedimento, approvato il 30 maggio 1992, le Nazioni Unite impediscono a qualsiasi rappresentativa nazionale jugoslava di partecipare a manifestazioni sportive internazionali.
L'UEFA apprende la notizia solo 10 giorni prima dall'inizio dei campionati europei e reagisce nell'unico modo possibile: invita alla manifestazione la seconda qualificata del Gruppo 4, vale a dire la Danimarca, in luogo dell'ormai non più esistente Jugoslavia.
La federazione danese si ritrova ad organizzare la spedizione in pochi giorni richiamando i giocaroi praticamente già in vacanza.
L'allenatore Nielsen si trova a dover decidere la rosa dei candidati in poco tempo, dovendo comunque rinunciare al talento di Micahel Laudrup. Anche con il fratello più giovane, Brian, le cose non vanno meglio ed i rapporti con i due vengono ricuciti solo all'imminente vigilia del torneo.
Per capire il clima di confusione al momento, si può citare un divertente aneddoto:pare che il tecnico danese fosse impegnato in lavori di arredamento nella propria abitazione e che ricevuta la conferma di partecipazione all'Europeo, li abbia abbandonati in fretta e furia, lasciando ad altri il compito di portarli a termine.
Al di là delle baruffe interne, sulla squadra pende il dubbio dell'effettiva forma fisica dei giocatori, sulla carta scadente, non avendo, di fatto, svolto la necessaria preparazione preventiva.
In questa situazione il commisario tecnico fa le seguenti scelte, impostando la squadra con un versatile 5-3-2, pronto a trasformarsi a seconda dell'impostazione dei due esterni bassi o del ruolo affidato alla seconda punta.
Lo schema sotto riportato rappresenta quello che identifica al meglio lo stile di gioco danese e le principali scelte dello staff tecnico, alla luce anche di alcuni infortuni durante lo svolgimento dell'Europeo.

I
n porta Peter Schmeichel, uno dei portieri più forti in circolazione. 


Estremo difensore dal fisico possente e dai riflessi felini, è un autentico punto di forza della squadra e del suo club, il Manchester United. Dotato anche di grandissimo carisma, è il classico portiere sicurissimo nell'ordinaria amministrazione quanto spettacolare nel superarsi in autentici "miracoli".
La fase difensiva si basa sulla figura di un difensore arretrato, quasi un libero, che si stacca alle spalle dei compagni o si congiunge al momento di compattare la linea.
Tale ruolo viene svolto da Lars Olsen, esperto difensore del Trabzonspor e capitano della squadra. La sua duttilità gli permette di giocare anche da marcatore, sfruttandone la grande forza fisica e la sua abilità sulle palle alte. Come alternativa viene anche impostato Torben Piechnik, completo difensore del Boldklubben 1903.
Sulle fasce l'allenatore predilige giocatori di grande corsa, abili sia a spingere quanto a calarsi nel ruolo di veri e propri terzini, completando quello che viene impostato come un reparto a 5.
Sulla destra si disimpegna John Sivebaek, veloce e potente laterale del Monaco. Molto disciplinato e discretamente dotato tecnicamente, si presta al meglio ai dettami tattici della nazionale danese. Curiosamente, nella sua precedente esperienza nel Manchester United, ha segnato il primo gol della gestione di Alex Ferguson.
A sinistra gioca Kim Christofte, colonna del Brondby ed in grado di assicurare una spinta costante sul settore di riferimento.
Come difensori centrali vengono preferiti Kent Nielsen ed Henrik Andersen, con il secondo impiegabile anche come come esterno sinistro. Entrambi dotati di gran fisico, si dimostrano affidabili quanto rocciosi in marcatura. L'infortunio di Andersen durante la manifestazione comporta un piccolo stravoligimento tattico, con lo spostamento di Olsen come marcatore e l'inserimento di Piechnik.
La zona mediana viene coperta da due giocatori che,essendo compagni di squdra nel Brondby, portano collaudati automatismi oltre che un posivo equilibrio tecnico/tattico. John Jensen è un giocatore di grande corsa e temperamento, unitamente ad una buona tecnica di base. A tali doti di centrocampista unisce un preciso e potente tiro, che lo rende insidioso nei pressi dell'area avversaria.
A lui si affianca Kim Vilfort, giocatore completissimo ed autentico faro della squadra. Molto dotato tecnicamente, può essere impegnato sia come regista arretrato, sia come trequartista, sfruttandone la capacità di inserimento. Per tutta la carriera dimostra un grande feeling con il gol, tanto da superare le 100 reti a livello di club.


Durante la manifestazione riceve la notizia del ricovero della figlia per una grave malattia, ma decide di restare con i compagni per portare a termine l'impresa, saltando solamente un partita per stare vicino alla famiglia.
Richard Moller Nielsen punta molto su Henrik Larsen, polivalente centrocampista dalle caratteristiche offensive, impiegabile anche sulle corsie laterali. Di proprietà del Lyngby, vanta anche una non fortunata esperienza italiana nel Pisa, culminata con la retrocessione del club toscano. 
L'analisi del reparto offensivo parte dalla figura di Brian Laudrup, fratello di Michael e considerato un talento non ancora pienamente sbocciato.


Leggermente anarchico tatticamente, è in possesso di una tecnica di grande livello che gli consente giocate spettacolari quanto imprevedibli. Anche nella sua squadra di club, il Bayern Monaco, alterna prestazioni da fuoriclasse ad altre meno positive. Nella nazionale il suo ruolo di supporto alla punta ben si sposa con le sue caratteristiche, permettendogli di svariare a piacimento.
Se analizziamo lo schema tattico sopra riportato ci accorgiamo di un'assenza importante nel reparto offensivo, quella di Ben Christensen, attaccante dello Schalke 04 e grande protagonista in precedenza con il Brondby, dove ha segnato con grande continuità.. La ragione di tale mancanza ricade nel suo infortunio nelle prime fasi dell'europeo, che costringono il commissario tecnico a cambiare modulo, venendo meno il terminale offensivo principale. Alla vigilia del torneo si presenta come attaccante di ottimo livello, autore di ben 6 reti nelle qualifiazioni, 2 della quali segnate nella vittoria per 1-2 a Belgrado.
Flemming Povlsen rappresenta il terminale offensivo, interpretando il ruolo con grande versatilià. Molto potente fisicamente, si dimostra attaccante dal grande spunto ed abile a svariare su tutto il fronte di riferimento. In carriera non si dimostra mai molto prolifico, ma è assai intelligente dal punto di vista tattico, con una propensione a giocare per la squadra che lo rende apprezzato sia nel Borussia Dortmund quanto in nazionale.
Completa il reparto Lars Elstrup, attacante di buon livello in forza all' Odense. Risulta particolarmente indicato nel ricoprire più ruoli nel reparto d'attacco voluto da Nielsen e si propone come valida alternativa, anche a partita in corso.
Arrivata quindi in Svezia all'ultimo momento, la Danimarca è inserita nel girone A, con Svezia, Francia ed Inghilterra.


L'esordio avviene proprio con la nazionale britannica e termina 0-0, con la squadra scandinava che si disimpegna alla grande, giocando la partita alla pari con i forti avversari e cogliendo una clamorosa traversa con Jensen.
La squadra riceve buoni consensi all'indomani del primo match e guarda con ottimismo al secondo impegno contro i padroni di casa svedesi.
L'esito dell'incontro non è però positivo e una rete di Brolin al 58° sancisce la sconfitta per 1-0. Oltre al negativo risultato avviene anche l'infortunio di Christensen, che mette fine alla sua partecipazione alla rassegna europea.
La situazione nel girone si fa quindi molto complicata, con la Danimarca che si vede costretta a battere la Francia e sperare che la Svezia, già qualificata, faccia altrettanto contro l'Inghilterra.
Come tante volte succede nel calcio, la combinazione di risultati meno prevedibile è quella che avviene poi nella realtà: la Svezia batte l'Inghilterra 2-1 mentre la compagine danese ha la meglio su quella transalpina con il medesimo risultato.
La partita si mette subito bene, con Henrik Larsen che è lesto ad approfittare di un traversone dalla destra ed ad infilare Martini. Nel secondo tempo arrivia il pareggio francesce, ad opera di Papin. A questo punto il commissario tecnico ha l'intuizione di inserire al 66° Lars Elstrup per tentare l'assalto nella seconda parte della partita. Sarà proprio il subentrato a sfruttare un cross di Povlsen ed a regalare un'inaspettata qualificazione.
La semifinale la vede opposta all'Olanda, squadra campione in carica e sulla quale pende fortemente il favore del pronostico.
Gli aranconi si presentano forti di una tasso tecnico notevole, nobilitato dalla classe di Rijkaard, Gullit e Van Basten alla quale si unisce l'astro nascente Dennis Bergkamp, già autore di 2 reti nel torneo.
I dubbi sulla condizione fisica danese vengono dissipati da un inizio veemente, con la rete di Henrik Larsen al 5°, abile a insaccare di testa un calibrato assist di Brian Laudrup. Il pareggio degli uomini di Michels arriva al 23° ad opera proprio di Bergkamp. Appena 10 minuti dopo ancora Larsen è lesto ad approfittare di una palla in uscita dall'area di rigore e ad insaccare con un preciso destro.
A questo punto la Danimarca si difende con ordine sotto la forte spinta dei tulipani, che a 4 minuti dalla fine riescono a trovare il pareggio in mischia con Rijkaard.
Questo gol appare come la classica mazzata, soprattutto per gli imminenti supplementari, visti come un vero calvario dalla squadra di Nielsen, chiaramente in debito di ossigeno. Nonostante le difficoltà la partita viene decisa ai rigori, con Schmeichel che evita la beffa nel finale con una parata eccezionale sul tentativo di Brian Roy.
Dagli 11 metri arriva l'avvenimento che non ti aspetti: il secondo rigore per gli olandesi è calciato da Marco Van Basten, rigorista praticamente infallibile. La sua conclusione viene sventata dall'abile portiere danese con un gran balzo sulla sua sinistra. Gli altri rigoristi sono impeccabili e l'ultima trasformazione di Christofte vale l'accesso alla finale.
L'ultimo avversario è la Germania, campione del mondo in carica. Anche in questo caso il blasone, l'esperienza ed il livello tecnico fanno pendere l'equilibrio del match dalla parte della compagine tedesca, desiderosa di centrare una storica accoppiata con il Mondiale.
La squadra di Vogts ha avuto alti e bassi durante il torneo, subendo, nel giorne, una cocente sconfitta contro l'Olanda. Viene dalla vittoriosa semifinale vinta contro la Svezia per 3-2 ed è trascinata da un ottimo Thomas Hassler.
Dopo un ottimo avvio tedesco, la squadra scandinava segna al 18° con Jensen, che raccoglie un invito di Povlsen e scaglia un gran destro che si insacca all'incrocio dei pali.
Per tutta la partita la Germania mette in difficoltà la Danimarca, che si salva con il cuore e con autentici miracoli di Schmeichel, autore di almeno 4 interventi da fuoriclasse.
Quando sembra vicino alla capitolazione, la compagine di Nielsen trova la rete del 2-0 con Vilfort, abilie nell'inserirsi tra due difensori ed a battere il portiere con un tiro che tocca il palo prima di entrare. Questa rete ha davvero il sapore della fiaba, visto il grave problema cha ha afflitto il centrocampista danese. 
Per la Danimarca è il trionfo ed il massimo risultato mai ottenuto dalla sua nazionale.


Grande merito di questa storica affermazione va la tecnico, che senza preavviso e tra mille difficoltà forgia una squadra grintosa ed equilibrata, dallo spirito battagliero e sorretta comunque da ottime individualità La sua recente scomparsa ha visto grande partecipazione nella nazione, unita al riconoscimento del mondo del calcio per le emozioni regalate dalla sua nazionale.
Tria protagonisti spicca sicuramente Peter Schmeichel, lanciato verso una carriera di successi e divenuto uno dei portieri più forti di sempre.
Tra gli altri merita una citazione Henrik Larsen, il quale vive un torneo da grande protagonista, con 3 reti realizzate e prestazioni importanti. Termina il torneo come capocannoniere, insieme a Brolin e Bergkamp.


Ottimo anche Brian Laudrup che si libera del nomignolo di "fratellino di Michael", giocando da leader e dimostrando il suo innato talento. Avrà in seguito esperienze italiane con Fiorentina e Milan, con prestazioni altalenanti.
Non sembra comunque giusto parlare di singoli in una squadra che, sempre contro pronostico, ha battuto le più forti squadre europee, in bilico tra abilità, cuore ed un pizzico di fortuna.
Seppur non fortissima ed, apparentemente, non a livello delle avversarie, la Danimarca ha scritto una delle pagine più belle della storia recente del calcio, dove davvero tutti gli elementi sono combaciati per dare vita ad un finale da favola.

Giovanni Fasani


 

venerdì 11 aprile 2014

PORCA VAKHSH CHE SQUADRA!!

Quando si pensa al calcio molto spesso ci vengono in mente i grandi palcoscenici, le grandi manifestazioni, i grandi tornei, giocatori eccelsi, giocate straordinarie. Insomma, tutto ciò che quotidianamente vediamo e rivediamo, sentiamo e risentiamo.
Le televisioni ci inalano tutto il giorno moviole, i soliti servizi e centinaia di cose di cui faremmo anche volentieri a meno; tutto ciò mi ha francamente un pochino stancato.
Fin da piccolo mi hanno sempre incuriosito anche quei campionati dove il calcio è ancora un divertimento, non è il primo pensiero e sicuramente le televisioni locali non bombardano con i servizi citati poco sopra.
In uno di questi giorni stavo navigando in un sito di risultati e la mia attenzione si è soffermata sulla Vysshaya Liga, ossia il campionato del Tagikistan. Non è di sicuro un campionato di primordine e per il 99% delle persone che leggono questo blog è completamente sconosciuto.
Sfogliando la classifica del campionato 2013 ho "erroneamente" cliccato su una squadra, il nome riportato era "Vakhsh", nulla di strano finché nella schermata successiva è comparsa un'altra parola: "Qurghonteppa"; la mia faccia era abbastanza stranita da questo nome che ho scoperto essere una delle città più importanti del Tagikistan e capoluogo della regione di Khatlon, sudovest dello stato al centro dell'Asia. E' in quel momento che ho fatto la conoscenza del Futbol'nyj Klub Vakhsh, meglio conosciuto come Vaksh Qurghonteppa.


A questo punto mi sono messo a curiosare nella storia di questa squadra.
Come è facilmente intuibile dallo stemma, il Vakhsh nacque nel 1960 e fino allo scioglimento dell'Unione Sovietica ha partecipato ai vari campionati dell'ex colosso russo. Il primo trofeo arriva immediatamente nel 1961, è il campionato della Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan.
Negli anni successivi arrivano diverse partecipazioni alle varie leghe sovietiche, queste ultime pregne di squadre con un glorioso futuro nel campionato russo.
Per trovare altri titoli vinti dalla squadra tagika bisogna attendere il 1965 (coppa della RSS tagika) ed il 1978 e 1985 quando la squadra biancoverde, riuscirà a portare a casa altri due titoli "nazionali".
La seconda metà degli anni ottanta è praticamente di nulla assoluto, l'Unione Sovietica sta vivendo un periodo che la porterà allo scioglimento nel 1991 ed i campionati sono per un attimo "messi in secondo piano". Tuttavia il Vakhsh continuerà a partecipare ai tornei sovietici ma senza portare a casa nessun trofeo.

Una formazione del Vakhsh del 1989
Dopo lo scioglimento dell'URSS, vengono istituiti quelli che sono attualmente i campionati locali. La Vysshaya Liga tagika nasce nel 1992, sarà un torneo a cui parteciperanno 12 squadre, provenienti da tutte le città della nuova repubblica (la fa da padrone la capitale Dushanbe con 3 formazioni).
Il primo campionato del Vakhsh è tutto sommato molto buono, la squadra si classificherà al 3° posto dietro al Regar Tursunzade ed al Pamir Dushanbe campione, formazione quest'ultima che ha letteralmente dominato il campionato con 16 vittorie su 20 partite, realizzando ben 61 gol.
Il primo trofeo post-sovietico della formazione di Qurghonteppa arriverà nel 1997. In questo anno entreranno nella bacheca due titoli: il campionato e la coppa nazionale. Il primo viene vinto con 59 punti, 4 in più del Ranjbar Vosse ma una differenza reti nettamente migliore; i campioni realizzeranno, alla fine del campionato ben 69 gol in 24 partite. La vittima preferita del Vakhsh in quel campionato fu il Farkhor, che prese dalla formazione campione, ben 17 gol tra andata e ritorno (10-1 e 7-0).
Protagonista di quel campionato fu il capocannoniere Rustam Usmanov che terminò il torneo con 20 gol e contribuì anche al successo della coppa segnando in finale nel 4-0 rifilato al Kudjhand.

Rustam Usmanov
Ad arricchire la bacheca del Vaksh arrivano un'altra coppa (2003) ed un altro campionato (2005). Quello del 2005 è un campionato con ancora meno squadre, appena 10. Molte compagini non riescono ad iscriversi e si va inevitabilmente incontro a continue rivoluzioni. Tuttavia il campionato verrà concluso con appena 1 sconfitta per mano del Regar Tadaz Tursunzade che terminò secondo; i capocannonieri di quel campionato furono ben due, entrambi del Vakhsh ed entrambi con 12 reti all'attivo: Ahtam Hamrokulov e Nazir Rizomov.
La successiva stagione vede la squadra tagika partecipare alla AFC President Cup, competizione a cui prendono parte le vincitrici dei campionati delle nazioni cosiddette emergenti dell'Asia.
Il Vakhsh vince il girone che la vedeva opposta ai kirghizi del Dordoi Dinamo, i nepalesi del Manang Marshyangdi Club ed i cingalesi del Ratnam Sports Club. Viene vinta anche la semifinale contro i taiwanesi del Tatung ma in finale ritrovano il Dordoi Dinamo che metterà fine al sogno del Vakhsh vincendo 2-1.
A livello continentale è il massimo traguardo finora raggiunto dai nostri protagonisti.
L'ultimo titolo in bacheca è datato 2009 ed è ancora il campionato. Viene vinto con 5 punti di vantaggio sui soliti rivali del Regar Tadaz.

Il Vakhsh campione nel 2009
Il Vakhsh non è la squadra più titolata del calcio tagiko ma è sicuramente una bella realtà locale, inserita in un campionato per lo più seguito in patria. Di sicuro non si parlerà mai in Italia di realtà come queste, ma ogni tanto fa bene dare uno sguardo a competizioni sconosciute, dare una veloce occhiata, sbagliare un clic; e scoprire che è più interessante la storia di una squadra tagika che la solita moviola 24 ore su 24.



Matteo Maggio

martedì 8 aprile 2014

ANDREAS BREHME

Nel linguaggio calcistico al ruolo di terzino viene spesso associato lo stereotipo di giocatore tignoso, ma poco tecnico. Nella storia del calcio abbiamo avuto numerosi esempi di campioni che si sono imposti in tale ruolo, scrivendo letteralmente la storia di nazionali e club. Tuttavia quando si vuole etichettare un giocatore di scarse qualità gli si affibbia il termine terzino, dimenticandosi di fuoriclasse come colui che da il titolo a questo articolo.
Andreas Brehme è stato uno dei laterali più forti di tutti i tempi e, di conseguenza, uno dei più forti giocatori espressi dal calcio tedesco negli ultimi anni.


Classe 1960 e mancino naturale, muove i primi passi nel Barmbek, formazione militante nelle serie minori tedesche. Le sue indubbie qualità attirano l'interesse di squadre di categoria superiore, tanto da essere tesserato dal Saarbrucken nel 1980.
Nella città del Saarland trascorre una stagione, avendo la possibilità di esordire nella seconda divisione dell'allora Germania Federale. Nonostante la giovane età gioca 36 partite segnando 3 reti, mettendo in mostra doti fuori dal comune, che spingono vari club della Bundesliga ad interessarsi al suo acquisto.
Del biondo laterale colpiscono la facilità di corsa, la potenza ed un innato senso tattico, caratteristica non facilmente rintracciabile in un giovane. Tutte queste abilità gli consentono di iniziare a far parte dell'Under 21.
Al termine della stagione 1980/1981 passa al Kaiserslautern, coronando il sogno di approdare nella massima serie.


Nella città della Renania, Brehme passa 5 anni, arrivando a completare il suo sviluppo e la sua crescita calcistica con grande rapidità e costanza.
Nella prima stagione gioca 27 partite condite da 4 gol, con prima marcatura realizzata nella vittoria per 3-2 contro lo Stoccarda.
L'anno successivo ripete le ottime impressioni suscitate, ponendosi già al centro dell'attenzione come uno dei talenti più importanti del campionato.
La stagione 1983/1984 rappresenta il suo vero trampolino di lancio, imponendosi non solo come fluidificante completo, ma anche come abile e potente tiratore, anche da calcio piazzato. Alla fine del campionato sono 8 le reti realizzate ed, ovviamente, il suo nome inizia ad essere associato ai principali club tedeschi.
In questo periodo inizia a mettere in mostra una della sua qualità più importanti e sorprendenti: Brehme calcia indifferentemente sia di destro che di sinistro, tanto in corsa quanto da fermo.
Lui stesso spiega che usa il sinistro quando deve dare potenza alla conclusione, mentre preferisce il destro quando ricerca la maggiore precisione. Vedremo in seguito come tale alternanza di calcio segnerà la sua carriera.
Nel successivo biennio la sua carriera prende un'altra positiva svolta, arrivando ad esordire in nazionale nel match contro la Bulgaria del 15 febbraio 1984 e perso dalla Germania per 3-2.
Arriva poco dopo anche il primo gol con la nazionale maggiore, realizzato contro l'Unione Sovietica, in una partita vinta dai tedeschi per 2-1.


L'anno 1984 consente a Brehme di partecipare al primo grande torneo con la nazionale, il campionato europeo, ospitato dalla Francia.
In tale contesto viene schierato dal tecnico Derwall come esterno alto, al fine di sfruttarne le capacità atletiche e le sue abilità nel tiro e nella rifinitura per le punte.
L'avventura per la nazionale tedesca non si rivela fortunata, dal momento che viene eliminata nel girone di qualificazione, per mano della Spagna, che la batte nell'ultima decisiva partita per 1-0, con gol di Macheda arrivato al 90°.
Nella stessa estate è opinione comune che sia arrivato per lui il momento di un salto di qualità a livello di club, per provare a giocare per vincere il campionato e le competizioni più importanti.
A sorpresa resta altre due stagioni a Kaiserslautern, continuando ad offrire grandi prestazioni condite da una sorprendente prolificità realizzativa. Dal 1984 al 1986 realizza nella sola Bundesliga ben 19 reti.
L'estate del 1986 si dimostra decisiva sotto due aspetti: la possibilità di giocare il suo primo mondiale e la grande opportunità di giocare nel Bayern Monaco nella stagione successiva.
La Germania si presenta a Messico 1986 come una delle favorite, forte anche della finale ottenuta 4 anni prima in Spagna.
Brehme, al suo primo mondiale, affronta la competizione con grande determinazione ed è impostato dal commissario tecnico Beckenbauer come esterno basso, suo ruolo preferito.
Passato con difficoltà il girone come seconda classificata alle spalle della Danimarca, la squadra affronta negli ottavi il sorprendente Marocco, battutto 1-0 con gol di Matthaus all'87°.
La Germania non brilla per qualità di gioco e nonostante il passaggio del turno si guadagna numerose critiche, anche alla luce degli imminenti quarti di finale contro il Messico.
Anche in questa partita la nazionale tedesca non offre una grande prestazione, passando il turno solo ai calci di rigore.
Brehme si prende la responsabilità di calciare il secondo rigore e lo realizza con forte tiro di sinistro. In tale contesto predilige la sicurezza del piede naturale, scegliendo la potenza.
In semifinale l'ostacolo da superare è la Francia ed in tale situazione la squadra di Beckenbauer sfodera un'ottima prestazione, vincendo per 2-0, con Brehme che apre le marcature al 9° minuto con un potentissimo calcio di punizione mancino che piega le mani di Bats.


La finale contro l'Argentina è una partita emozionante e bella, con la Germania che recupera il doppio svantaggio prima di arrendersi al decisivo gol di Burruchaga che sancisce il 3-2 finale.
Nonostante la grande delusione il biondo laterale dimostra in pieno il suo valore giocando un ottimo mondiale, prezioso viatico per l'imminente nuova esperienza in Baviera.


La prima stagione è subito vincente, con la squadra che vince la Bundesliga per la decima volta. Brehme partecipa con il solito ottimo contributo al successo finale, realizzando anche 4 reti. L'allenatore Lattek lo alterna come difensore o centrocampista a seconda delle esigenze, intuendone la grande duttilità e completezza.
La gioia per la vittoria in campionato è in parte mitigata dalla sconfitta in finale di Coppa dei Campioni contro il Porto, dopo una grande cavalcata fino all'ultimo match di Vienna.
Nel secondo anno al Bayern arriva solo la vittoria nella Supercoppa tedesca, mentre la corsa al titolo termina con il secondo posto alle spalle del Werder Brema.
La grande occasione per riscattare la non vincente annata viene rappresentata dall'Europeo 1988, organizzato proprio dalla Germania.
L'esordio per la squadra tedesca è contro l'Italia di Azeglio Vicini, in un equilibrato incontro terminato 1-1. Al gol di Mancini risponde proprio Brehme con un calcio di punizione indiretto.
Dopo le convincenti vittorie contro Danimarca e Spagna ed il conseguente passaggio del turno, la Germania affronta in semifinale la forte Olanda, perdendo per 2-1.
Terminata la manifestazione per Breheme si apre la possibilità di approdare nel campionato più difficile ed ambito del periodo. Insieme al compagno di squadra Matthaus viene acquistato dall'Inter nell'estate del 1988.


La squadra allenata da Giovanni Trapattoni si presenta al via della stagione con la ferma intenzione di vincere lo scudetto dopo 9 anni di astinenza.
Gli occhi di tutti sono puntati su Matthaus, dimostratosi in patria un vero campione e considerato uno dei migliori centrocampisti al mondo. Proprio per questo motivo certa critica vede nella figura di Brehme quella di un "accompagnatore" dello stesso, non valutando positivamente l'acquisto da parte del presidente Pellegrini.
Sotto la guida dell'esperto allenatore italiano il terzino tedesco matura definitivamente, imponendosi come autentico "regista laterale"; dai suoi piedi parte sovente l'azione della squadra, traendo beneficio dalla sua grande visione di gioco e completezza tecnica. Addirittura viene provato mediano nelle prime partite della stagione, quando ancora la squadra è in fase di rodaggio.
Alla seconda giornata mette subito in mostra le sue qualità balistiche, realizzando un gran gol contro il Pisa.


Inoltre i suoi calibrati cross sono manna dal cielo per le punte Diaz e Serena. Proprio quest'ultimo diventa capocannoniere del torneo con 22 reti, molti delle quali scaturite da passaggi provenienti dall'out sinistro.
L'Inter stravince il torneo con il record di 58 punti e Brehme contribuisce in maniera decisiva, rivelandosi uno dei migliori giocatori del campionato.
L'anno successivo si chiude con la conquista della Supercoppa e con un terzo posto in campionato. Ma l'evento da tutti aspettato è il Mondiale 1990, ospitato dall'Italia.
La Germania si presenta all'appuntamento con le carte in regola per rifarsi dalle due finali perse nelle precedenti edizioni, potendo contare su di un forte gruppo di giocatori militante nel campionato italiano.
Già dalle prime partite la squadra di Beckenbauer sembra in grande forma, tanto da rifilare quattro gol a Jugoslavia ed Emirati Arabi. Dopo aver pareggiato per 1-1 l'ultimo impegno del girone con la Colombia, agli ottavi la sorte la mette già di fronte ad un avversario storico, l'Olanda, che l'aveva eliminata due anni prima ai campionati europei.
La sfida è molto accesa e nervosa e la squadra teutonica ha la meglio per 2-1 con Brehme che realizza la seconda rete con un bellissimo tiro a giro di destro.


Un rigore di Matthaus consente di vincere per 1-0 la sfida dei quarti di finale contro la Cecoslovacchia, aprendo le porte alla semifinale contro l'Inghilterra.
Anche con i britannici la sfida è accesa ed equilibrata e dopo 120 minuti il risultato è bloccato sul risultato di 1-1. La rete tedesca è propiziata proprio da Brehme il cui tiro su calcio di punizione (battuto con il piede mancino) viene deviato in rete da Parker.


Gli inevitabili rigori vedono il successo della Germania, con il terzino dell'Inter che realizza il secondo penalty; in tale circostanza va alla battuta con il destro, con un tiro rasoterra ed angolato che rende vano l'Intervento di Shilton.
La finale di Roma vede di fronte la squadra teutonica contro l'Argentina, in un remake della finale di Messico 1986. La partita viene interpretata in modo prudente da entrambe le compagini, che danno vita ad uno spettacolo davvero povero. Il risultato viene sbloccato al 84° quando alla Germania viene assegnato un dubbio rigore. Il rigorista designato è Matthaus che però decide di non calciare, lasciando l'incombenza a Brehme. Tra le varie versioni di questo avvicendamento, quella più veritiera parla di una rottura di un tacchetto della scarpa del centrocampista interista che non lo fa sentire sicuro al momento di battere dagli 11 metri.
Dal dischetto Brehme è freddissimo e con un preciso tiro di destro realizza alla destra di Goycoechea.


La compagine tedesca vince la Coppa del Mondo per la terza volta dimenticando l'amarezza delle precedenti edizioni; per il difensore dell'Inter è il massimo successo in carriera, con la soddisfazione di essere stato più volte decisivo per il suo raggiungimento.


La soddisfazione internazionale gli arriva anche dal club, infatti con l'Inter vince la Coppa Uefa 1990/1991 dopo un'intensa finale con la Roma e dopo un percorso colmo di ottime prestazioni ma anche di rimonte, come quelle contro Rapid Vienna ed Aston Villa.
Questo successo internazionale mancava nella bacheca di Brehme, e sembra in parte riscattare la finale di Coppa dei Campioni persa con il Bayern Monaco.


Tale affermazione avviene in un' annata dopo che la squadra di Milano termina il campionato al secondo posto alle spalle della Sampdoria.
Nell'estate del 1991 la dirigenza neroazzurra cambia guida tecnica, affidandosi a Corrado Orrico ed al suo calcio sperimentale, congiunto ad una non significativa campagna acquisti.
La mancanza di feeling con i nuovi dettami tecnici e l'inevitabile logorio di un grande gruppo di campioni segnando un'annata deludente, dove la squadra a ottiene un modesto ottavo posto ed esce dalla Coppa Uefa al primo turno per mano del Boavista.
Questa rappresenta l'ultima stagione di Brehme in neroazzurro, dove lascia un ricordo indelebile ed anche qualche rimpianto.
Nel 1992 ha un'altra grande occasione con la nazionale, ovvero quella di giocare l'Europeo di Svezia, torneo che può disputare portando la fascia di capitano.
La squadra fatica leggermente nel girone, pareggiando contro la CSI solo al 90° e perdendo nettamente per 3-1 contro gli antagonisti storici dell'Olanda.
La vittoria per 2-0 nell'ultima partita contro la Scozia le vale il secondo posto e la possibilità di sfidare la Svezia in semifinale.
In un match equilibrato ed aperto, la squadra di Berti Vogts si guadagna la finale vincendo per 3-2.
La finale viene giocata il 26 giugno contro la sorprendente Danimarca che, contro ogni pronostico, vince la partita per 2-0 aggiudicandosi il torneo.
Brehme gioca il suo ultimo campionato europeo, con il rammarico di non essere mai riuscito a vincerlo.
Nella stagione 1992/1993 si accasa al Real Zaragoza per tentare l'avventura nel campionato spagnolo. Resta solo fino all'estate 1993,  giocando 24 partite e realizzando una rete.
Decide quindi di ritornare in patria, proprio in Kaiserslautern che l'aveva lanciato da giovanissimo. In tale contesto cambia saltuariamente ruolo, trasformandosi all'occorrenza in difensore centrale o "libero vecchio stampo".
Finita la stagione 1993/1994 ha la possibilità di giocare il suo ultimo Mondiale, ospitato dagli Stati Uniti.
La Germania sembra arrivata al capolinea di un formidabile ciclo e la squadra è composta da tanti di quei giocatori che negli ultimi anni hanno portato il calcio tedesco all'apice del mondo.
L'avventura si ferma ai quarti di finale, dove la Bulgaria di Stoichkov si impone per 2-1. Questa rappresenta l'ultima partita da lui giocata in nazionale, dopo 86 partite ed 8 gol.
Quella che sembra la fine di fulgida carriera si trasforma però in un grande colpo di coda.
Nelle cinque stagioni passate in Renania due meritano di essere analizzate nel dettaglio.
Quella del 1995/1996 ha il sapore agrodolce: la squadra vince la Coppa di Germania, successo ottenuto per la prima volta da Brehme. Ma in campionato le cose non vanno bene, tanto che alla fine il Kaiserslautern ottiene un deludente sedicesimo posto che gli costa la retrocessione in seconda divisione per la prima volta nella sua storia.
Ottenuta subito la promozione in Bundesliga, il club riesce in un'impresa quasi unica: vincere il campionato da neopromossa, andando contro ogni pronostico della vigilia.
L'allenatore Rehhagel fa tesoro dell'esperienza di Brehme, che pur giocando solamente 5 partite, trasmette tutta la sua esperienza al gruppo. 


Tale storica affermazione mette fine alla carriera di uno dei terzini più forti sempre. 
Come abbiamo visto il termine in questo caso è sicuramente riduttivo, se consideriamo il valore assoluto del giocatore, capace di fare un po' tutto ed in modo eccellente, con quella innata capacità di calciare con entrambi i piedi che lo rendono grandissimo.
Destro o sinistro che sia, Andreas Brehme merita una citazione tra i più grandi di sempre ed una menzione nella storia del calcio.



Giovanni Fasani


Fonti:holzlandfuechse, kickers, todocollecion, itasportpress, sonointerista, spaziointer,conti

venerdì 4 aprile 2014

UNA STELLA (ROSSA) CHIAMATA STOJKOVIC

La scena del calcio jugoslavo degli anni 80 e 90 è stata praticamente dominio di due sole squadre: Stella Rossa e Partizan Belgrado. Il campionato e la coppa nazionale andavano 9 volte 10 da una sponda all'altra di Belgrado; biancorosso e bianconero, il leit motiv era sempre quello.
Quella delle due più conosciuta (almeno in Italia) era la forte squadra biancorossa, forte della successiva vittoria in Coppa Campioni nel 1991, che le diede quell'ulteriore popolarità ancora oggi ricordata da buona parte degli appassionati di calcio. La Stella Rossa, inoltre, forniva alla nazionale un nutrito numero di giocatori. Basti pensare all'attaccante Sestic che partecipò sia ai mondiali di Spagna 82 che all'Europeo di Francia 84 oppure il portiere Tomislav Ivkovic, titolare nell'84, per passare poi ai più conosciuti Savicevic, Prosinecki e Pancev che presero parte al mondiale italiano del 1990.
Ma la formazione biancorossa aveva in un attaccante rapido e dalla enorme fantasia il suo punto forte. Quel giocatore era Dragan Stojkovic.


La carriera di Stojkovic ha inizio nella sua città natale, Nis. Nelle file del Radnicki ci entra ad appena 16 anni (era il 1981) per poi rimanerci fino al 1986. Durante questi 5 anni Stojkovic riuscirà a mettere a segno 8 gol in 70 partite, pochi se si pensa ad un attaccante, ma Dragan veniva spesso impiegato come ala, proprio per sfruttare le sue doti di velocista. Dopo i primi due anni in cui Stojkovic giocherà solamente con la squadra giovanile, arriva, nel 1983, il debutto tra i "grandi". Poche a dire il vero le presenze ma arriverà anche il debutto in Coppa UEFA con tanto di gol al San Gallo nel primo turno ed all'Inter nel secondo.
Le buone prestazioni dell'attaccante serbo fanno suonare le sirene di club più blasonati e la Stella Rossa riuscirà ad accaparrarselo nel 1986.
Con la maglia biancorossa Stojkovic non ha mai avuto troppa fortuna però. Complici i tanti infortuni non riuscì ad imporsi come tutti speravano. Le presenze erano saltuarie, ma quando il rapido "Pixie" (soprannome che gli fu dato in quanto piccolo di statura, proprio come il Topolino inventato da Hanna & Barbera sul finire degli anni 50) era in campo, per le difese avversarie erano dolori.
Era il classico "10" dalla visione di gioco facile e dal passaggio che "ti metteva davanti alla porta". Amava iniziare l'azione, veniva sempre a prendersi il pallone per impostare, un vero leader. E come vedremo dal video sotto, un dribbling che toglieva tempo e campo agli avversari. Divenne in seguito anche capitano della squadra di Belgrado con cui vinse due campionati ed una coppa di Jugoslavia. Vero idolo dei tifosi insieme ad una generazione di giocatori davvero unici.


Ciò che mancava a quella Stella Rossa era l'affermazione in campo europeo, nella Coppa Campioni 1986-1987, i biancorossi furono eliminati nei quarti di finale dal Real Madrid dopo aver vinto la gara di andata 4-2. In quella coppa Stojkovic prese parte a tutte le partite, non riuscì a realizzare nemmeno un gol ma in più della metà dei 15 gol realizzati dalla Stella Rossa c'era il suo zampino, per informazioni chiedere a Borislav Cvetkovic (capocannoniere della manifestazione con 7 gol) e Mitar Mrkela (3 gol).
L'anno successivo arriverà a Belgrado un altro giocatore che sarà in grado di fare la storia del club di Belgrado, Robert Prosinecki, prelevato dalla Dinamo Zagabria. L'annata sarà fantastica  e verrà culminata dalla vittoria del campionato rimasto in bilico fino all'ultimo e conteso da ben 4 squadre, tra cui i rivali del Partizan secondi.
Stojkovic metterà insieme 28 presenze e con 15 gol arriverà ad un passo dal titolo di capocannoniere; si riaprono quindi le strade dell'Europa, dove la Stella Rossa verrà eliminata a causa di un episodio strano e passato alla storia.
Questa volta però, non ci sarà Cvetkovic che nell'estate del 1988 viene acquistato dall'Ascoli con cui non riuscirà a ripetere le straordinarie prestazioni in terra jugoslava; arriverà però quello che successivamente verrà considerato come uno dei più forti fantasisti del recente passato, Dejan Savicevic, messosi in mostra nelle file del Buducnost.
Tanta fantasia quindi per Mrkela e per un altro nuovo attaccante approdato alla Stella Rossa via Hajduk Spalato, Milos Bursac. Ci sono quindi tutti i presupposti per arrivare in alto anche in Europa.
Dopo aver agevolmente superato il Dundalk nel primo turno (5-0 e 3-0), in cui Stojkovic realizzerà una doppietta nella gara di andata, la Stella Rossa approderà agli ottavi di finale e se la dovrà vedere con il Milan di Sacchi. La squadra rossonera arriverà all'appuntamento forte di una rosa fortissima e di gran lunga superiore (sulla carta) alla squadra jugoslava. Tuttavia la gara di andata a San Siro verrà sbloccata proprio da Stojkovic, abile nell'affondare la difesa milanese. La partita terminerà poi 1-1 grazie al pareggio di Virdis, arrivato 1 minuto dopo.


Nella gara di ritorno, basterà quindi un pareggio a Stojkovic e compagni. Non sarà così, al minuto 50 è Savicevic a portare avanti la Stella Rossa grazie ad un potente tiro di sinistro. Ma la fortuna è dalla parte del Milan, al minuto 65 la gara viene sospesa a causa di una forte nebbia che si abbatte sullo stadio belgradese. Dopo alcuni minuti di consultazione si decide di replicare la partita il giorno dopo davanti a circa 65.000 persone (ben 30.000 in meno della sera precedente). Il Milan passerà in vantaggio al 34° con Van Basten, ma sarà ancora Stojkovic , 4 minuti più tardi, a realizzare per i biancorossi sfruttando un perfetto lancio ed insaccando con un potente sinistro sotto la traversa.
La gara verrà decisa ai calci di rigore, dove saranno fatali gli errori di Savicevic e Mrkela (Stojkovic realizzò il primo rigore della serie).


Nel frattempo Stojkovic ha anche l'onore di giocare per la nazionale jugoslava a cui prese parte dal 1983 al 1992 e dal 1994 al 2001. Pochi i gol messi a segno, 15 in 85 partite ma come sempre assist e giocate deliziose per i compagni.
La prima grande manifestazione per l'attaccante di Nis, è l'Europeo francese del 1984. La Jugoslavia arriva alla competizione con una squadra giovane ed inesperta, verrà eliminata nel girone da Francia, Danimarca e Belgio mettendo a segno appena 2 gol (1 di Stojkovic su rigore ai padroni di casa) e subendone 10.
L'attaccante giocherà l'intera partita con i francesi a causa dell'infortunio patito da Bazdarevic nella precedente gara contro la Danimarca. Nonostante all'epoca avesse solo 19 anni, Stojkovic dimostrò ampiamente di meritare una maglia da titolare anche nella nazionale del proprio paese.
Nello stesso anno prese anche parte alla spedizione per le Olimpiadi di Los Angeles, dove la Jugoslavia ottenne un convincente 3° posto, ma senza mai lasciare il segno complice anche il poco impiego da parte del tecnico.
Si arriva quindi al mondiale italiano del 1990, una vetrina molto invitante per l'ormai 25enne Stojkovic; questa volta la nazionale jugoslava arriva con una rosa rodata e ben collaudata, farcita di tanti giocatori che passeranno poi anche nel campionato italiano. Possiamo citare Jozic (Cesena), Pancev (Inter), Katanec (Sampdoria), Boksic (Juventus e Lazio), Jarni (Bari Torino e Juventus) e Savicevic (Milan).
Stojkovic giocherà tutte le partite del girone senza segnare un gol ma risulterà comunque decisivo in alcune giocate che piazzeranno la nazionale jugoslava al secondo posto nel girone dietro i futuri campioni della Germania; negli ottavi di finale arriverà la sfida con la Spagna. La partita sarà molto tirata fino al minuto 78, quando proprio Stojkovic sarà abile a sfruttare una sponda di testa, infilando Zubizarreta dopo una finta ai danni di un difensore spagnolo. La successiva rete di Salinas manderà la gara ai supplementari. Quel 26 giugno sarà il giorno migliore in nazionale; sarà infatti ancora lui al 92° minuto a mandare in rete il pallone pennellando una punizione che non lascerà scampo all'estremo difensore iberico.


Nei quarti di finale arriva la forte Argentina e questa volta Stojkovic non riuscirà a ripetersi, sbaglierà purtroppo uno dei rigori che condanneranno la Jugoslavia all'uscita dal torneo mondiale.
Alla fine del mondiale arriverà poi la chiamata dell'Olimpique Marsiglia con cui disputerà 11 partite senza segnare un gol, complice un infortunio che lo terrà lontano dai campi per una parte della stagione e per scelta tecnica visto che la formazione francese poteva contare su due veri goleador: Jean Pierre Papin e Philippe Vercruysse. Tuttavia arriverà la conquista del campionato e la finale di Coppa Campioni, persa per ironia della sorte, proprio contro la Stella Rossa dopo i tiri dal dischetto; Stojkovic entrerà al 111° minuto senza però calciare il rigore nella serie finale.
L'anno successivo è quello dell'approdo in Italia, riuscirà a tesserarlo il Verona neopromosso per circa 8,5 miliardi di lire. Insieme a lui arrivò anche Florin Raducioiu. I tifosi scaligeri sognavano come avevano fatto qualche anno prima quando arrivò lo scudetto; Stojkovic era di sicuro un attaccante che poteva fare le fortune del Verona, ma non fu così. I continui infortuni lo tennero fuori dai campi per tante partite, la sua presenza era saltuaria e purtroppo per lui ed il Verona, arrivò l'immediata retrocessione. L'attaccante jugoslavo realizzò 1 solo gol a giochi ormai fatti e sbagliò due rigori su due in 19 presenze.
Aneddoto ancora più curioso fu quello che emerse qualche tempo dopo: la dirigenza scaligera doveva scegliere se acquistare Stojkovic oppure un giovane talento argentino, Gabriel Omar Batistuta (tutti e due non era possibile in quanto all'epoca si potevano avere solo 3 stranieri in rosa. Il Verona disponeva già di Raducioiu e dello svedese Prytz). Il presidente Mazzi scelse l'opzione del "colpo ad effetto" e Batistuta andò a fare le fortune della Fiorentina.


Decide quindi di tornare al Marsiglia nella stagione successiva e ci rimarrà per 2 anni. Le presenze diminuiscono ancora (18) ma i gol realizzati sono 5. Il Marsiglia ha cambiato l'attacco (ora ci sono Boksic, Voller, Abedì Pelè) e riuscirà comunque a conquistare sia il campionato che la Coppa Campioni in finale contro il Milan. Stojkovic non realizzerà neanche un gol in tale manifestazione. La squadra francese era un'autentica corazzata, forte in tutti i ruoli e con i giusti ricambi. I continui malanni hanno fatto si che il tecnico Goethals lo considerasse poco ed era arrivata per Stojkovic, l'ora di cambiare tipo di calcio.
Fu così che nel 1994 approdò in Giappone, per la precisione al Nagoya Grampus Eight (di cui è l'attuale allenatore) in cui rimase per ben 7 anni vincendo due volte la Coppa dell'Imperatore ed una Supercoppa del Giappone nei primi due anni.
Con la maglia del Nagoya realizzò 57 gol in 186 partite; il ritmo sicuramente diverso ed un calcio di minor livello ne limitò anche gli infortuni. Curiosità di quel tempo fu che l'attaccante jugoslavo fu allenato, nella stagione 1995-1996, da Arsene Wenger, con il quale appunto vinse sia la coppa nazionale che la supercoppa. Da allenatore riuscì invece a conquistare il campionato nella stagione 2010.
La presenza di Stojkovic in Giappone (insieme a quella di Zico) era sicuramente una manna per il poco conosciuto campionato nipponico, che di lì a qualche anno sarebbe diventato un facile palcoscenico per tanti giovani che sarebbero poi approdati in Italia, chi senza lasciare il segno (Nanami al Venezia), chi lasciando un indelebile ricordo nelle squadre dove ha militato (Nakata al Perugia ed alla Roma).


Nel frattempo il forte attaccante continuerà anche la sua carriera in nazionale partecipando al mondiale del 1998 organizzato dalla Francia. La Jugoslavia è forte di una rosa composta da giocatori esperti (Stankovic e Mihajlovic in testa) e riuscirà a passare il girone. Nonostante gli infortuni e le 33 primavere, Stojkovic avrà il merito di andare a segno contro la Germania nella seconda gara del girone. La Jugoslavia saluterà il torneo negli ottavi di finale, sconfitta 2-1 dall'Olanda.
Due anni dopo parteciperà anche all'Europeo di Olanda e Belgio, subentrerà nella prima partita contro la Slovenia per un infortunio occorso a Stankovic. Partita che per altro ebbe dell'incredibile, la Slovenia avanti 3-0 fino al minuto 67 si fece pareggiare per opera di Milosevic (doppietta) e Drulovic. Passato il girone, la nazionale balcanica se la dovrà vedere ancora una volta con l'Olanda, stavolta finirà 6-1 per i padroni di casa.
Per Stojkovic sarà l'ultima manifestazione con la nazionale, una storia che ha avuto dell'agrodolce. Siamo comunque di fronte ad uno dei talenti più incredibili degli ultimi 30 anni, un giocatore fantasioso, dal passo fulmineo e dall'intelligenza di gioco fuori dal comune. La fortuna non ha mai guardato in faccia a Dragan, che forse, con meno infortuni, avrebbe potuto scrivere pagine ancora migliori della storia del calcio.


Matteo Maggio

martedì 1 aprile 2014

LA COPPA LATINA

Nell'immaginario collettivo la Champions League rappresenta il massimo livello del calcio europeo, attirando l'interesse degli appassionanti e permettendo alle squadre più forti di sfidarsi per raggiungere l'ambito titolo di "campione d'Europa".
Sin da quando il suo nome era Coppa dei Campioni il torneo ha subìto cambiamenti sempre più orientati allo spettacolo, alzando di molto il livello competitivo, sino ad arrivare all'impostazione attuale.
Alla luce di questa evoluzione viene da chiedersi come sia nato questo torneo, magari andando a vedere le prime "bozze" di coppe europee.
In un nostro precedente articolo abbiamo parlato della Mitropa Cup, tracciando un quadro della sua nascita e, purtroppo, del suo inesorabile declino.
Ora parliamo invece di un'altra coppa, giocata solo 8 volte, ma davvero progenitrice del massimo torneo per club in Europa. Stiamo parlando della poco ricordata Coppa Latina.


Tale coppa nasce nel 1949 e prevede che a parteciparvi siano le squadre vincitrici del campionato di sole 4 nazioni: Francia, Italia, Portogallo e Spagna.
Osservando il contesto geografico al quale si fa riferimento, è facile capire il perché della scelta del nome Coppa Latina.
Una particolarità della competizione è rappresentata dal fatto che viene giocata al termine della stagione regolare ed ospitata a rotazione in uno degli stati indicati precedentemente.
Si decide quindi di creare un torneo con solo 4 squadre, che si sfidano in 2 semifinali a partita unica con, a seguire, le due finali per il terzo e quarto posto e per la vittoria del trofeo.
Prima di partire con l'analisi delle varie edizioni di quest'ultimo è doverosa una precisazione: la partecipazione della squadra campione nazionale non è obbligatoria e la stessa può declinare l'invito lasciando il posto alla compagine seconda classificata.
Nel corso degli anni si è assistito a più di un rifiuto, sminuendo in un certo senso l'importanza di tale evento.
Caso emblematico è quello del 1950, dove a parteciparvi per l'Italia è la Lazio, dopo la rinuncia di Juventus, Milan ed Inter.
La prima edizione viene vinta dal Barcellona, che in finale regola lo Sporting Lisbona nel match disputato a Madrid.
Il torneo va avanti con una sola interruzione, relativa al 1954. In quell'anno la Svizzera ospita la quinta edizione dei Campionati del Mondo e l'UEFA decide di non togliere spazio a tale importante evento, sospendendo la Coppa Latina.
Sfogliando l'albo d'oro si nota come tutti gli stati partecipanti possono vantare almeno una vittoria.
Il Portogallo viene rappresentato dal Benfica, che si aggiudica il torneo nel 1950 a spese del Bordeaux.
Lo Stade Reims garantisce un successo al calcio francese, portando a casa il trofeo nel 1953 contro il Milan.
La Spagna vince la coppa per quattro volte, grazie al doppio successo di Barcellona (1949 e 1952) e Real Madrid (1955 e 1957).
Anche una squadra italiana iscrive il suo nome tra le vincitrici, il Milan, che in due occasioni risulta vincitore della competizione, oltre alla già citata finale del 1953.
Nel 1951 la squadra rossonera ha la meglio sul Lilla, nella finale giocata a Milano e vinta per 3-0, grazie alla tripletta di Nordhal ed alle reti di Burini ed Annovazzi.


Nel 1956 l'avversario per la squadra italiana è l'Athletic Bilbao, che viene battuto, sempre a Milano per 3-1. Decisive le realizzazioni di Bagnoli, Dal Monte e Schiaffino.
In tale occasione la squadra partecipante di diritto è la Fiorentina, che però decide di concentrarsi sulla Coppa Campioni.
Proprio l'ascesa del nuovo torneo decreta la fine della Coppa Latina; dopo due stagioni nelle quali si tengono entrambe le competizioni, viene accantonata per sempre nel 1959, dopo  la prevista sosta per il Mondiale del 1958. 
Particolare davvero curioso è quello del 1957, dove il Real Madrid riesce nell'impresa di vincere entrambe le coppe.
Così come per tutte le prime competizioni continentali per club, anche questo torneo, seppur partito tra grandi consensi, ha visto scemare il suo interesse anno dopo anno.
Resta comunque innegabile il fatto che ha dato la possibilità ad alcune delle più grandi squadre europee di sfidarsi per la prima volta, mettendo in campo alcuni tra i migliori giocatori dell'epoca.
L'UEFA non si lascia sfuggire l'occasione di "unificare" il continente, mettendo fine a quella divisione tra est ed ovest che Mitropa Cup e Coppa Latina in effetti rappresentano, creando i presupposti per l'attuale Champions League.
Probabilmente il torneo qua descritto appare quasi come un esperimento o prototipo volto alla sua evoluzione futura, ma è innegabile che sia memoria storica di un calcio di altissimo livello e di grande fascino.

Giovanni Fasani



Fonti: wikipedia, magliarossonera