"Aeva proprio ragione il
barone De Coubertain: nello sport l’importante fu, almeno per me, partecipare"
la raccontava così la sua storia, qualche anno fa prima di morire, il marinaio
Ugo Villa di Erba, classe 1918, che durante e dopo la guerra fu prigioniero in
Cina e riuscì brillantemente a dribblare stenti, fame, atrocità e tutti gli
orrori della prigionia partecipando a tanti incontri di calcio e segnando tanti
goal.
Non sapeva ancora che nel 2008 a Pechino ci sarebbero state lo Olimpiadi.
Se l’avesse saputo, di certo avrebbe commentato che, lui una gran bella vittoria, là dalle parti dello Yangtse, l’aveva già ottenuta tanti anni fa, anche se forse non così carica di gloria come lo è un oro olimpico.
Ma ai tempi suoi, in Cina, tra gente nemica, non c’era tanto da guardare agli allori, ma cercare di conquistare una vita il meno grama possibile e magari anche con qualche piccolo lusso.
E fu così che il centravanti Ugo Villa giocò al pallone per tanti anni sui polverosi campi cinesi tra folle di spettatori appassionati.
"La mia è una storia come tante altre, di soldati italiani rimasti lontani da casa anche per nove-dieci anni - mi raccontò Ugo Villa -, solo che la mia ha qualche cosa di singolare in più. Alcuni di noi del battaglione San Marco fummo praticamente dimenticati in Cina fino al 1947. E per fortuna eravamo bravi nel calcio, altrimenti l’avremmo davvero vista brutta. Trascorremmo tutto questo tempo correndo dietro un pallone di cuoio prima nella squadra del Battaglione San Marco, poi nella compagine messa in piedi da un mandarino cinese, grande appassionato di "foot ball". Questo signore assai ricco, che sembrava arrivato direttamente dal tempo delle dinastie Ming, organizzava anche grandi tornei di calcio in giro per le città cinesi e tutto poggiava sulle scommesse, un gran bel businnes. Questa fu la nostra fortuna".
Villa, che era diventato un giovanotto a Erba, fu arruolato nel 1938, a vent’anni. Andò in marina e fu spedito quasi subito in Cina, prima a Pechino, poi a Tientsin, dove c’era la legazione italiana.
L’Italia ancora non era entrata in guerra e i marinai del San Marco proteggevano la base italiana in Estremo Oriente.
Poi venne la guerra con tutti i suoi stravolgimenti, i suoi orrori. Nessuno in Italia, tranne le famiglie e pochi amici, si ricordò più di quel gruppo di ragazzi che erano rimasti in Cina.
I ragazzi del San Marco ritornarono nel ’47. Ugo Villa non volle parlare mai molto diffusamente di questi suoi lunghi "anni di guerra e di prigionia", ma qualche anno fa si lasciò convincere a raccontare e dal cassetto tirò fuori una scatola piena di fotografie: eccolo mentre sta segnando un goal su un campo polveroso circondato dalla folla esultante. Eccolo ancora appollaiato su un "risciò" intanto che scherza con i commilitoni, poi in giro tra la gente nelle strade con tante scritte cinesi.
Villa mi mostrò anche il tesserino di calciatore scritto in cinese e con la sua foto. Mi fece vedere anche l’immagine della sua squadra composta da ragazzoni tutti con il volto sorridente.
"Quando partii per la Cina - mi disse Villa - avevo già giocato nell’Erbese: centravanti, tanti gol. Quindi a Tientsin mi misero nella squadra del battaglione. Giocavamo contro francesi, inglesi e giapponesi. I giocatori orientali erano una frana. Noi invece vincevamo quasi sempre e così diventammo famosi. La gente arrivava a vedere le partite, si entusiasmava molto e soprattutto scommetteva".
E all’8 settembre? "Le cose precipitarono. Ci trovammo prigionieri dei giapponesi che prima erano alleati. I giapponesi erano cattivi. Per fortuna avevamo un capitano, si chiamava Borlandini, era intraprendente e guardava lontano. Questo capì che con lo sport ci potevamo salvare. E lui vendette la nostra squadra che era assai nota, a un mandarino, un "lopè", come si diceva là. Era un grande appassionato di calcio, una specie di Moratti cinese. Ci ingaggiò in una quindicina e vivemmo sotto la sua protezione. Stavamo a Pechino in una dependance della sua grande villa e gli orrori della guerra ci sfiorarono appena. Devo dire che siamo stati fortunati. Eravamo pagati e ci era permesso anche qualche svago. Quel che guadagnavo spendevo. Vivevamo alla giornata: allenamenti duri, incontri accaniti, quasi sempre vittorie e tanti goal. Eravamo delle star».
Tutte rose e fiori? La lontananza? "Il pensiero della famiglia era sempre doloroso. Pesava parecchio la lontananza, anche se in confronto degli altri prigionieri noi eravamo dei nababbi. Non sapevamo niente di casa: solo qualche lettera attraverso giri lunghissimi. I miei scritti li additavo a un americano che aveva corrispondenza con i suoi nel Massachusetts i quali li inviavano alla mamma e alle sorelle a Erba e viceversa. La popolazione cinese ci adorava. I giapponesi un po’ meno".
E alla fine della guerra? "Mi ricordo l’epilogo tremendo. Ci accorgemmo che qualche cosa di terribile era accaduto, quel mattino del 6 agosto del ’45. Ero a Shanghai. Sulla città irruppe uno spostamento d’aria fortissimo. Qualche giorno dopo sapemmo che sul Giappone era caduta una bomba potente che aveva distrutto una città intera. Il Giappone che tanto aveva fatto soffrire i cinesi, era capitolato. Vidi molte vendette accanirsi sui soldati nipponici che ormai erano gli sconfitti. Noi italiani, tutto sommato, grazie anche al calcio ce la passammo tranquillamente".
Ma per i marinai del San Marco non era ancora finita. Il governo italiano sembrava non saper nulla di loro. La squadra partecipò a un campionato regolare organizzato a Pechino e lo vinse con facilità.
Ma ormai anche il pallone era diventato un po’ un’ossessione. Finalmente nell’estate del ’47 giunse una nave americana che imbarcò tutti gli italiani in Cina.
Stava affacciandosi la rivoluzione di Mao. "Al quale - commentava Villa - mi pare che il gioco del calcio e altri sport non piacessero tanto. Comunque quando dalla nave vidi il profilo della terra cinese assottigliarsi fui preso da qualche nostalgia".
Danilo Crepaldi
Non sapeva ancora che nel 2008 a Pechino ci sarebbero state lo Olimpiadi.
Se l’avesse saputo, di certo avrebbe commentato che, lui una gran bella vittoria, là dalle parti dello Yangtse, l’aveva già ottenuta tanti anni fa, anche se forse non così carica di gloria come lo è un oro olimpico.
Ma ai tempi suoi, in Cina, tra gente nemica, non c’era tanto da guardare agli allori, ma cercare di conquistare una vita il meno grama possibile e magari anche con qualche piccolo lusso.
E fu così che il centravanti Ugo Villa giocò al pallone per tanti anni sui polverosi campi cinesi tra folle di spettatori appassionati.
"La mia è una storia come tante altre, di soldati italiani rimasti lontani da casa anche per nove-dieci anni - mi raccontò Ugo Villa -, solo che la mia ha qualche cosa di singolare in più. Alcuni di noi del battaglione San Marco fummo praticamente dimenticati in Cina fino al 1947. E per fortuna eravamo bravi nel calcio, altrimenti l’avremmo davvero vista brutta. Trascorremmo tutto questo tempo correndo dietro un pallone di cuoio prima nella squadra del Battaglione San Marco, poi nella compagine messa in piedi da un mandarino cinese, grande appassionato di "foot ball". Questo signore assai ricco, che sembrava arrivato direttamente dal tempo delle dinastie Ming, organizzava anche grandi tornei di calcio in giro per le città cinesi e tutto poggiava sulle scommesse, un gran bel businnes. Questa fu la nostra fortuna".
Villa, che era diventato un giovanotto a Erba, fu arruolato nel 1938, a vent’anni. Andò in marina e fu spedito quasi subito in Cina, prima a Pechino, poi a Tientsin, dove c’era la legazione italiana.
L’Italia ancora non era entrata in guerra e i marinai del San Marco proteggevano la base italiana in Estremo Oriente.
Poi venne la guerra con tutti i suoi stravolgimenti, i suoi orrori. Nessuno in Italia, tranne le famiglie e pochi amici, si ricordò più di quel gruppo di ragazzi che erano rimasti in Cina.
I ragazzi del San Marco ritornarono nel ’47. Ugo Villa non volle parlare mai molto diffusamente di questi suoi lunghi "anni di guerra e di prigionia", ma qualche anno fa si lasciò convincere a raccontare e dal cassetto tirò fuori una scatola piena di fotografie: eccolo mentre sta segnando un goal su un campo polveroso circondato dalla folla esultante. Eccolo ancora appollaiato su un "risciò" intanto che scherza con i commilitoni, poi in giro tra la gente nelle strade con tante scritte cinesi.
Villa mi mostrò anche il tesserino di calciatore scritto in cinese e con la sua foto. Mi fece vedere anche l’immagine della sua squadra composta da ragazzoni tutti con il volto sorridente.
"Quando partii per la Cina - mi disse Villa - avevo già giocato nell’Erbese: centravanti, tanti gol. Quindi a Tientsin mi misero nella squadra del battaglione. Giocavamo contro francesi, inglesi e giapponesi. I giocatori orientali erano una frana. Noi invece vincevamo quasi sempre e così diventammo famosi. La gente arrivava a vedere le partite, si entusiasmava molto e soprattutto scommetteva".
E all’8 settembre? "Le cose precipitarono. Ci trovammo prigionieri dei giapponesi che prima erano alleati. I giapponesi erano cattivi. Per fortuna avevamo un capitano, si chiamava Borlandini, era intraprendente e guardava lontano. Questo capì che con lo sport ci potevamo salvare. E lui vendette la nostra squadra che era assai nota, a un mandarino, un "lopè", come si diceva là. Era un grande appassionato di calcio, una specie di Moratti cinese. Ci ingaggiò in una quindicina e vivemmo sotto la sua protezione. Stavamo a Pechino in una dependance della sua grande villa e gli orrori della guerra ci sfiorarono appena. Devo dire che siamo stati fortunati. Eravamo pagati e ci era permesso anche qualche svago. Quel che guadagnavo spendevo. Vivevamo alla giornata: allenamenti duri, incontri accaniti, quasi sempre vittorie e tanti goal. Eravamo delle star».
Tutte rose e fiori? La lontananza? "Il pensiero della famiglia era sempre doloroso. Pesava parecchio la lontananza, anche se in confronto degli altri prigionieri noi eravamo dei nababbi. Non sapevamo niente di casa: solo qualche lettera attraverso giri lunghissimi. I miei scritti li additavo a un americano che aveva corrispondenza con i suoi nel Massachusetts i quali li inviavano alla mamma e alle sorelle a Erba e viceversa. La popolazione cinese ci adorava. I giapponesi un po’ meno".
E alla fine della guerra? "Mi ricordo l’epilogo tremendo. Ci accorgemmo che qualche cosa di terribile era accaduto, quel mattino del 6 agosto del ’45. Ero a Shanghai. Sulla città irruppe uno spostamento d’aria fortissimo. Qualche giorno dopo sapemmo che sul Giappone era caduta una bomba potente che aveva distrutto una città intera. Il Giappone che tanto aveva fatto soffrire i cinesi, era capitolato. Vidi molte vendette accanirsi sui soldati nipponici che ormai erano gli sconfitti. Noi italiani, tutto sommato, grazie anche al calcio ce la passammo tranquillamente".
Ma per i marinai del San Marco non era ancora finita. Il governo italiano sembrava non saper nulla di loro. La squadra partecipò a un campionato regolare organizzato a Pechino e lo vinse con facilità.
Ma ormai anche il pallone era diventato un po’ un’ossessione. Finalmente nell’estate del ’47 giunse una nave americana che imbarcò tutti gli italiani in Cina.
Stava affacciandosi la rivoluzione di Mao. "Al quale - commentava Villa - mi pare che il gioco del calcio e altri sport non piacessero tanto. Comunque quando dalla nave vidi il profilo della terra cinese assottigliarsi fui preso da qualche nostalgia".
Danilo Crepaldi
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