A Vallecas,
il barrio operaio di Madrid, la signora Carmen Martinez Ayuso, arzilla
ottantacinquenne, riceve l'ordine di sfratto: non riesce a pagare l'affitto
delle stanze nel condominio popolare in cui abita.
Per aiutarla si mobilitano tutti. Anche il mio vecchio
club, il Rayo Vallecano de Madrid, la terza squadra della città, che lancia una
sottoscrizione per una raccolta di fondi che possa aiutare l'anziana signora.
"Ho avuto un
sacco di soldi" ha detto la signora Carmen "ma non mi servono tutti. So che c'è un ragazzo che sta male, che sta
morendo. Vorrei che migliorasse e ho pregato per lui, vorrei dare i miei soldi
ai suoi figli, perché possano raggiungerlo per un ultimo saluto."
Quel ragazzo sono io, Wilfred Agbonavbare, portiere
Nigeriano e idolo del Rayo.
Più che idolo sono uno che incarna lo spirito della
squadra, quello della "peña rayista":
sono un lavoratore del pallone e tutto quello che guadagno è destinato al
benessere della mia famiglia. Non è tanto ma è pur sempre più di quello che
guadagnano tante altre persone facendo magari dei lavori che nemmeno gli
piacciono. Io tutto sommato mi diverto pure!
Sono nato a Lagos in Nigeria il cinque ottobre
millenovecentosessantasei, e molto giovane mi sono trasferito a Benin City,
dove il sogno di giocare a calcio si realizza.
A soli diciassette anni, è il
millenovecentottantatre, entro a far parte della New Nigeria Banks, squadra
locale. In brevissimo tempo riesco a conquistare il posto da titolare, e dopo
soli due anni vinciamo il titolo nazionale e per due anni consecutivi la Coppa
WAFU.
Maledetti acronimi, quel WAFU sta per West Africa
Football Union.
Poi nel millenovecentonovanta lascio i mio vecchio
club per vestire la maglia del BCC Lions Football Club, squadra di Gboko.
Avete ragione, quel BCC sta per Benue Cement Company.
Ma è stato davvero un passaggio fugace, perché l'anno
dopo, il Novantuno, finalmente arrivo in Europa.
In Spagna mi hanno ingaggiato quelli del Rayo Vallecano,
la squadra del popolo, dei lavoratori.
Giocavano in Segunda División, e dico giocavano, perché anche grazie alle mie
parate alla fine di una bella stagione, riusciamo a conquistare la promozione
in Primera.
In città il Real e
l'Atletico si giocavano il campionato, per noi la vittoria era raggiungere la
salvezza. E ci siamo riusciti per ben tre anni consecutivi.
Alla fine col il Rayo ho disputato ben
centodiciassette partite, fino a quando, nel Novantacinque, ho ceduto alle
lusinghe dell'Écija Balompié, sempre in Segunda,
per due anni.
Poi nel Novantasette ho detto basta.
Ho avuto la gioia di prendere parte ad una Coppa
d'Africa e ad una Coppa del Mondo, quella del Novantaquattro. Non sono stato il
portiere titolare, è vero, davanti a me c'era il buon Peter Rufai, ma
credetemi, per un calciatore è sempre una gran soddisfazione arrivare a giocare
queste manifestazioni.
Con le Aquile in Marocco il torneo lo abbiamo vinto.
Pure io ho alzato al cielo la Coppa d'Africa.
Negli Stati Uniti invece, onestamente, se non fosse
stato per Roberto Baggio, per quel suo tiro che passa fra una selva di gambe,
andandosi ad infilare lemme lemme nella rete, forse avremmo potuto sfidare il
Brasile in finale, e poi chissà.
Forse avevano ragione "Elio e le Storie
Tese" che cantavano: "Se
Agbonavbare difenderà la propria porta nei mondiali di calcio Americani / forse
la Nigeria vincerà questi campionati di calcio mondiali Americani".
Chissà.
Comunque alla fine i giorni del calcio sono finiti, e
la vita va avanti. Io non posso certo permettermi di stare con le mani in mano
Io devo andare avanti.
E avanti sono andato deciso.
Ho trovato un impiego come facchino all’aeroporto
Barajas di Madrid, turni di notte e domeniche comprese.
Sono “famoso”, è vero,
e quindi? Per guadagnare soldi c'è bisogno di lavorare. Mia moglie è morta per
un cancro al seno e ora vivo da solo nella città che mi ha adottato. Sono dieci
anni che non torno in Nigeria, lì ci sono i miei figli e devo spedire soldi per
consentire loro di continuare a studiare.
La vita è dura, il lavoro è duro, duro, duro.
Ma mi era già chiaro che dopo il calcio, avrei dovuto
fare altro.
Prima non giravano tanti soldi, o almeno non tanti
come adesso. Ora in due stagioni sarei già ricco.
Il mio sogno sarebbe stato comunque quello di aprire
una scuola calcio nel mio Paese.
Poi è arrivata la malattia.
La stessa che si era già presa mia moglie.
Io non l'ho visto alla TV, ma mi hanno raccontato che
allo stadio Vicente Calderón di Madrid, prima del derby tra Atletico e Rayo, i
giocatori delle due squadre sono scesi in campo reggendo insieme uno
striscione.
Sullo quello striscione c'era scritto: "Fuerza
Wilfred".
È una delle ultime cose che ho sentito.
Poi, mi sono addormentato.
I miei figli non li
ho rivisti, nonostante il gesto nobile della ottantacinquenne signora Carmen.
Francesco Mistrulli
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