Nel calcio dei nostri giorni, dove un torneo come la Champions League attira l'interesse di tutto il pubblico, sembra impossibile pensare a come il più antico torneo europeo per club non sia oggi più giocato.
La Mitropa Cup, ideata nel 1927, termina la sua esistenza nel 1992, dopo un susseguirsi di cambiamenti di regolamento e, purtroppo, di prestigio.
Per meglio capire a come si è arrivati a dimenticarsi di tale competizione, è bene fare una rapida analisi delle sue varie fasi.
Derivante dal tedesco Mitteleuropa, ovvero Europa centrale, coinvolge all'inizio le squadre della suddetta area geografica.
Negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, i parametri per parteciparvi cambiano frequentemente, soprattutto per quanto riguarda i paesi che possono avere squadre partecipanti.
Nella sua ulltima edizione il quadro delle nazioni ammesse può essere riassunto nella seguente cartina:
Nonostante la tendenza ad "allargare" il contesto a più compagini possibile, tale torneo vede una netta affermazione del calcio "danubiano", identificato nei sistemi di gioco ungherese, austriaco e cecoslovacco. Le squadre di detti paesi occupano l'albo d'oro delle prime edizioni, con le uniche eccezzioni delle vittorie del Bologna nel 1932 e 1934.
In questi anni la Mitropa Cup vive il periodo di maggior importanza, raccogliendo i club che si ritenevano più forti ed espressivi del calcio più bello del continente. In merito a questo principio, vale la pena ricordare l'assenza delle squadre anglosassoni, che non hanno mai accettato di prendervi parte, forti della nomea di inventori del football e quindi non interessati a misurasi con squadre straniere.
La guerra crea invevitabilmente un'interruzione della coppa, che termina la sua prima fase nel 1940. Curiosamente la finale di quell'anno tra Ferencvaros e Rapid Bucarest non viene mai giocata, proprio a causa del conflitto bellico in corso.
Si ritorna a parlare di Mitropa Cup nel 1951, anche se con un'importanza diversa e, nuovamente, un regolamento stravolto rispetto all'iniziale impostazione. Per la precisione in tale situazione si assiste anche ad un cambiamento del nome, Zentropa Cup. Al termine del torneo, vinto dal Rapid Vienna, avviene un secondo stop alla manifestazione, che perdura fino al 1955. Negli anni'50 rappresenta una delle vetrine continentali più importanti, insieme alla recente Coppa Latina. La UEFA decide la creazione della Coppa dei Campioni, togliendo di fatto squadre e prestiogio alla vecchia coppa, che viene composta da squadre che si piazzano dietro la vincitrice del campionato nazionale. Nel periodo in questione solo 5 nazioni possono parteciparvi: Jugoslavia, Italia, Austria, Cecoslovacchia ed Ungheria. Si assiste, come in precedenza, ad un'egemonia delle ultime tre nazioni citate, che si alternano nelle vittorie con regolarità, con solo qualche rara "intromissione" italiana o jugoslava. Il Bologna vince la sua terza Mitropa nel 1961, mentre la Fiorentina iscrive il proprio nome tra i vincitori nel 1966. Il calcio balcanico conta 4 affermazioni nel periodo considerato. La compagine del Celik Zenika fa doppietta vincendo nel 1971 e nel 1972. Vojovodina e Partizan Belgrado portano a casa il trofeo rispettivamente nel 1977 e nel 1978. Ci sarebbe anche la vittoria della Stella Rossa del 1958, ma in tale anno la coppa cambia nome diventando Coppa del Danubio e non viene ritenuta iscrivibile nell'albo d'oro della Mitropa Cup. Questo è solo uno dei tanti cambiamenti in corsa che il torneo subisce nel dopoguerra; il più significativo è quello del 1960, dove alla coppa vera e propria si preferisce un torneo per nazioni: vi partecipano 6 squadre per ogni stato ed i risultati ottenutti convergono in una classifica finale a punti. L'esperimento non piace e dopo la vittoria dell'Ungheria nella suddetta stagione, si ritorna alla formula classica. La rivoluzione più grande arriva però nel 1978: la coppa sembra caduta in un punto molto basso d'importanza e dopo la vittoria del Partizan del 1978, l'UEFA decide di sospendere la competizione nel 1979. Forse per non accantonare un trofeo così antico, decide di reintrodurlo con la formula più conosciuta e recente: un torneo destinato ai vincitori dei campionati di seconda divisione, ovvero, nel caso dell'Italia, del campionato di serie B. Inutile dire che la Mitropa Cup perde progressivamente di interesse da parte del pubblico e diventa un torneo poco più importante di un'amichevole. Nonostante tutto, le squadre italiane ben si disimpegnano con la nuova formula ed anche squadre di prestigio come Milan (1982) e Torino (1991) mettono in palmares la coppa. A completare i trionfi italiani ci pensano Udinese (1980), Pisa (1986 e 1988), Ascoli (1987) e Bari (1990).
A confronto con
le principali coppe europee, la Mitropa Cup non regge il confronto e
diventa soprattuto un costo per le società, che hanno un ritorno
economico minimo nel parteciparvi. Il prossimo avvento delle televisioni
nel calcio non sembra interessato al "prodotto Mitropa Cup", nonostante
l'UEFA la difenda, anche con idee non proprio vincenti. Ad esempio
istituisce una sfortunata Supercoppa Mitropa, che vede sfidarsi la
vincente del 1988 contro la vincente del 1989. La sfida vede la vittoria
del Banik Ostrava, dopo una doppia sfida di andata e ritorno contro il
Pisa.
Questo è l'unico anno nel quale verrà disputata la supercoppa, per non appesantire un calendario già saturo di impegni.
Con
la vittoria del Borat Banja Luka del 1992 la competizione termina la
sua esistenza, restando solo negli almanacchi e nella memoria di chi ha
visto la propria squadra parteciparvi.
Resta
comunque come esempio di una coppa prestigiosa, che nell'epoca
precedente il conflitto mondiale ha rappresentato una delle competizioni
europee più belle ed appassionanti.
Indipendentemente
dagli stravolgimenti che ha subito, resta, indiscutibilmente, un
simbolo di un calcio antico e, purtroppo, ormai passato.
8 marzo: come ogni anno è di rito, in questo giorno, la festa della donna. Anche noi di alla faccia del calcio vogliamo celebrare con un augurio questa festa, andando a parlare di una squadra che porta proprio il nome del fiore simbolo di questa festa: la mimosa.
La squadra in questione è l'Amicale Sportive des Employés de Commerce Mimosas, meglio noto come ASEC Mimosas, colori sociali giallo-nero, miglior squadra ivoriana per diverso tempo.
L'ASEC Mimosas nasce nell'ormai lontano capodanno del 1948, quando un gruppo di imprenditori di origine francese e libanese emigrò in Costa d'Avorio. Il club non vinse subito, anzi, bisogna attendere il 1962, quando i black and yellows trionferanno nella coppa nazionale; nell'anno successivo, poi, il club metterà in bacheca anche il primo campionato, che divenne esclusiva della squadra di Abidjan anche dal 1970 al 1975. Tale periodo è anche definito "era di Eustache Manglè e Laurent Pokou"; del primo non si hanno praticamente tracce, del secondo, invece, possiamo dire che è stato 2° nella classifica del pallone d'oro africano nel 1970, inoltre può vantare il record di gol nelle prime 10 partite della Coppa d'Africa per nazioni, ben 14 tra le due edizioni del 1968 e del 1970.
Laurent Pokou
Dopo tale periodo, il Mimosas vedrà molti anni di buio arricchiti da un solo campionato ed una sola coppa nel periodo 1976-1990. Troppo poco per una squadra sempre propensa ad elevarsi nell'elite del calcio africano.
La svolta arriva nel 1989, quando ad essere eletto presidente è Roger Ouegnin, una vera icona della squadra ivoriana, tanto che è ancora l'attuale presidente.
Ouegnin chiamerà sulla panchina dei gialloneri una vecchia conoscenza del calcio francese, Philippe Troussier. Il primo anno è di transizione, i successivi di trionfo: campione ivoriano nel 1990/1991/1992, coppa ivoriana e supercoppa (quest'ultima chiamata Coupe Houphouet-Boigny).
Fino ad ora tutto nella norma, non c'è nulla di strano nel vincere tanti trofei in un così breve lasso di tempo; tante squadre in giro per il mondo ci sono riuscite. Ma cosa differenzia il Mimosas dalle altre squadre?
Tra il 1989 ed il 1994, gli eroi gialloneri non perderanno neanche una gara in patria tra campionato e coppa. Record tutt'ora imbattuto. 108 partite senza sconfitte, gol a raffica, trofei e solide difese. Successivamente a Troussier, siederanno sulla panchina il già citato Eustache Manglé e Charles Albert Roessli.
Tale periodo si interromperà il 19 giugno 1994, quando il Société Omnisport Armée sconfisse 2-1 il fortissimo Mimosas in una gara di campionato.
Il Mimosas versione 1991-1992
Nel frattempo, più precisamente nel 1993, nasce quella che è definita una delle migliori scuole calcio (e non solo) d'Africa.
Nella scuola del Mimosas sono passate anche tante stelle, diventate poi delle star a livello mondiale alcuni, a livello europeo altri. Tra i vari giocatori possiamo citare Yaya Tourè ed il fratello Kolo (attualmente nella massima serie inglese con Manchester City e Liverpool), Aruna Dindane (50 gol in 131 partite con la maglia dei belgi dell'Anderlecht), Salomon Kalou (ora al Lille dove segna con estrema continuità, ex Chelsea per 6 anni tra il 2006 ed il 2012) e Didier Zokora (attualmente al Trabzonspor ma con un passato al Siviglia ed al Tottenham).
Yaya Touré al centro in maglia Mimosas
Dopo il 1994, l'ASEC vincerà il campionato ancora tre volte nella seconda metà degli anni 90, per altrettante volte metterà in bacheca la coppa nazionale e per ben 4 la supercoppa. Ma cosa manca alla prestigiosa stanza dei trofei? La Champions d'Africa. Ed arriverà nel 1998 quando gli ivoriani supereranno nel primo turno i burkinabé del Racing Bobo-Dioulasso (0-1 e 4-1), al secondo turno i gaboniani del FC 105 Libreville (2-0 e 2-2), nel girone chiuso al 1° posto i sudafricani del Manning Rangers (3-1 e 0-1), i marocchini del Raja Casablanca (1-0 e 1-1) ed i tanzaniani dello Young Africans (2-1 e 3-0).
La finale verrà giocata contro gli zimbabwani del Dynamos Harare e non sarà semplice per il Mimosas, dopo che la gara di andata ad Abidjan terminerà 0-0. Ma i gialloneri non si faranno intimorire dallo stadio avversario e riusciranno ad imporsi 4-2 trionfando nella massima competizione continentale per club (finora unico trofeo).
Il Mimosas campione d'Africa 1998
L'anno successivo arriverà anche il trionfo nella Supercoppa d'Africa, dopo aver battuto l'Esperance Tunisi (vincitore della Confederation Cup) 3-1 dopo i supplementari.
Dal 2000 fino ad oggi i gialloneri continueranno a rastrellare trofei in patria senza però imporsi a livello continentale, nonostante le numerose partecipazioni sia alla Champions che alla Confederation Cup.
Questa è dunque la storia di una delle più forti squadre africane, detentrice di un record tutt'ora imbattuto e di una società che tiene prima di tutto ai giovani, facendoli crescere nella propria accademia ed evitando ad alcuni la pericolosa vita di strada.
Da parte nostra, ancora tanti auguri a tutte le donne.
Matteo Maggio Fonti: wikipedia, ambagabon, asec, dailymail
Ai nostri giorni si è
soliti parlare di squadre, allenatori o giocatori che "hanno cambiato il
calcio", creando una sorta di alone mitico attorno ai suddetti
protagonisti. Potremmo fare un elenco infinito di tale fenomeno, andando a
ritroso nel tempo e creando una vera e propria evoluzione, anche tattica, del
gioco del calcio.
Probabilmente la nostra generazione potrebbe arrivare a
conoscere la realtà degli anni'50, magari sulla base di qualche racconto dei
nonni o su qualche sporadica immagine ora disponibile grazie ad internet. In un
nostro precedente articolo si è accennato alla grande Ungheria e a come il
modello di calcio magiaro abbia segnato un'epoca e fatto scuola.
Senza nulla togliere alla formidabile compagine di Sebes,
anche in precedenza c'è stato chi ha provato a cambiare il calcio, andando
oltre le tattiche conosciute, formando un gruppo di giocatori capace di dominare il contesto mondiale.
Occorre quindi partire dagli anni'20 e spostare la nostra
attenzione sul Sud America, precisamente in Uruguay. Quando il calcio era
ancora una cosa da pionieri, a Montevideo gli si è data una precisa
connotazione e si è creato un mito.
Si può con ragione parlare di epopea per tale nazione, partendo
dai Giochi Olimpici del 1924 fino ad arrivare al Mondiale del 1930.
A dire il vero tutto partirebbe dalla Coppa America 1923,
giocata proprio in terra uruguagia e vinta dalla squadra ospitante. La
manifestazione si gioca in un clima di grande tensione e tra mille polemiche,
retaggio di vari episodi risalenti alle precedenti edizioni.
Nonostante l'importanza di tale successo, sembra giusto far
partire l'analisi dalle successive Olimpiadi, proprio per come la squadra è
arrivata a giocarsi la più importante manifestazione sportiva mondiale. L'affermazione
internazionale è quella che manca all'Uruguay, assoluto dominatore in campo
sudamericano. I giocatori sono ovviamente entusiasti di dimostrare il loro
valore in un contesto diverso, se si considera che la manifestazione si tiene
in Europa, precisamente a Parigi.
L'avventura parte tra tante difficoltà, legate soprattutto
alle difficoltà economiche della federazione a garantire il viaggio nel vecchio
continente. La nazione uruguaiana attraversa una difficile recessione ed i
giocatori sono dilettanti, quindi privi di introiti. In merito a questa vicenda
la leggenda si fonde con la realtà, lasciandoci alcuni episodi davvero
particolari. Pare, infatti, che alcuni dirigenti arrivino ad indebitarsi per
permettere alla squadra di raggiungere la Spagna. Da là l'unica soluzione per
finanziare il trasferimento in Francia è il seguente: una serie di incontri con
rappresentative locali, una sorta di "scommessa su se stessi". Non
esistono tabellini relativi a tali partite, ma l'Uruguay non lascia scampo agli
avversari, guadagnandosi la possibilità di partecipare alle Olimpiadi..
Dal punto di vista tattico la squadra si presenta con il
modulo a "piramide", riassumibile in un 2-3-5 assolutamente
impensabile ai nostri giorni.
Il tecnico Ernesto Figoli
schiera la squadra secondo questo schema:
In porta troviamo Andrés Mazali, storico estremo difensore del Nacional
e definito uno dei migliori portieri dell'epoca.
La fase difensiva è composta da soli 2 giocatori, definiti nella
terminologia del tempo "terzini" ( full back all'inglese), dediti al
contenimento degli attaccanti avversari, ma senza vere e proprie marcature
fisse. Tale atteggiamento sembra quasi un prototipo di zona, ovviamente con le
debite proporzioni, tenuto conto anche della diversa applicazione della regola
del fuorigioco in vigore negli anni in questione.
Sulla parte destra si disimpegna José Nasazzi, un autentico monumento del calcio uruguagio.
Letteralmente insuperabile nel
gioco aereo, si dimostra difensore preciso e molto potente, guidando con grande
carisma il reparto arretrato. in Nazionale si impone sempre come capitano,
dimostrandosi uno dei simboli del gruppo. Nella sua nazione, dopo alcune esperienze
in vari club, passa al Nacional, diventandone una bandiera.
Completa il reparto Pedro
Arispe, terzino efficace e ruvido, forma con Nasazzi una della più forti
coppie difensive del periodo, anche in termini di applicazione dello schema a
piramide. Si ricorda come bandiera del Rampla Juniors. La linea mediana presenta
giocatori dai piedi buoni che, nelle imposizioni tattiche, hanno il compito di
raccogliere le respinte difensive e avviare la costruzione di gioco. I due
giocatori disposti lateralmente hanno inoltre la mansione di abbassarsi in fase
difensiva e seguire i movimenti della ali avversarie. Sulla parte destra del campo si
disimpegna Josè Vidal, giocatore polivalente, per anni punto di
forza del Belgrano Montevideo. Sulla parte sinistra troviamo Alfredo
Ghierra, altro motorino del centrocampo, gioca sempre in patria dividendosi
tra Defensor Sporting (sua squadra principale), Universal e National. In mezzo al campo gioca José
Leandro Andrade, uno dei fuoriclasse dell'epoca.
Primo vero regista nella storia
del calcio, abbina doti tecniche notevoli ad un carisma eccezionale, che lo
porta più volte a spronare i compagni. In un era nella quale il centromediano
metodista non esiste ancora, Andrade ne anticipa i contenuti, imponendosi come
faro del centrocampo uruguayano e primo riferimento per i compagni in fase di
costruzione della manovra. Uno dei primi in grado di dettare in tempi e di
alzare la testa per servire in modo precisissimo i compagni, riesce anche ad
essere sempre ben piazzato e pronto nel ruolo di "schermo" davanti
alla difesa.
Gli vengono attribuiti due
sopranomi: "maravilla nera" per le doti tecniche e per il colore
della pelle e "l'acrobata" per via del suo vezzo nel calciare i
palloni a mezza altezza facendo perno sul braccio.
In patria fa le fortune di Bella
Vista, Nacional, Penarol e Montevideo Wanderers.
La fase offensiva è affidata ad un
reparto di cinque uomini, suddivisi in tre ruoli fondamentali: 2 ali, 2 interni
ed una punta centrale. I primi giocano molto esterni, sia per mettere in mezzo
traversoni invitanti, sia per aprire validi spazi per i compagni. Ad
approfittarne sono quindi gli interni, che sono soliti posizionarsi leggermente
più indietro rispetto all'attaccante di riferimento, pronti a concludere o a
creare superiorità numerica.
Sull'estrema destra gioca Santos
Urdinarán, classica ala tutta finte, velocità e rapidità di tiro.
Rappresenta uno dei punti di forza del Nacional, con il quale dimostra anche
una certa confidenza con il gol (ne segna ben 124 in 14 anni).
Sull'altra fascia spadroneggia Alfredo Ángel
Romano, giocatore di livello assoluto, più di cento gol con il Nacional e
terzo cannoniere di sempre nella storia della nazionale.
Con il club esordisce a 17 anni
contro il Central e realizza 3 gol nel 4-1 finale.
Dotato di classe e tecnica,
risulta il giocatore perfetto per gli schemi della squadra, tenuto anche conto
di un dribbling ed un tiro davvero micidiali. Soprannominato "El
Loco", per via di una carattere fumino, in carriera gioca anche per 2 anni
in Argentina, nel Boca Juniors, prima di fare ritorno in patria. Come interno destro inventa calcio
Héctor Pedro Scarone, uno degli attaccanti più forti del momento, ed
attualmente al secondo posto come realizzatori nella nazionale uruguagia (31
gol).
Ama giocare come rifinitore, ma
mette al servizio della squadra una duttilità a dir poco strabiliante.
Bravissimo nello svariare ed in
possesso di una tecnica strepitosa, Scarone rappresenta un vero incubo per le
difese avversarie. Per queste ragioni viene chiamato "El Mago", anche
se la leggenda ne attribuisce altri, legati anche ad un carattere irascibile.
In patria è considerato uno dei
giocatori più forti di tutti i tempi, al pari dei grandi del calcio mondiale. Nella sua carriera ha anche due
esperienze europee, al Barcellona e in Italia, con Inter e Palermo.
Scrive letteralmente la storia del
Nacional, dove colleziona in tutto 369 presenze realizzando 300 reti.
L'altro interno porta il nome di José
Pedro Cea, altro portento prestato al mondo del calcio.
Rapidissimo e molto scaltro si
integra alla grande con Scarone, sfruttando una capacità rara di inserimento
nell'area di rigore.
In patria gioca con Bella Vista e
Nacional, vincendo, caso strano, solo due campionati.
Il ruolo di centravanti, o di riferimento centrale
spetta a Pedro Petrone, giocatore
dalla potenza inaudita e dalle conclusione che raramente lasciava scampo al
portiere avversario.
Giocatore completo, dalla tecnica
elevata e con caratteristiche atletiche di grandissimo livello, si impone come
uno dei primi attaccanti ad interpretare il ruolo in modo completo, amando
anche uscire dall'area di rigore, soprattutto per armare il suo devastante
tiro. Fortissimo nel gioco aereo e
velocissimo, segna 24 reti in 29 partite con la Nazionale e caterve di gol con
la maglia del Nacional. Gioca per due stagioni anche nella
Fiorentina tra tanti problemi di natura caratteriale, che non gli impediscono
di segnare 37 gol in 44 partite.
L'avventura olimpica inizia con il
match contro la Jugoslavia ed anche in questo frangente la realtà si mischia alla
fiaba: la nazionale balcanica, poco informata sul valore degli avversari manda
emissari a visionare gli allenamenti dei giocatori uruguaiani. Questi ultimi,
debitamente informati, fingono di sbagliare ogni più elementare ogni gesto
tecnico, ingannando gli slavi, che credono di avere quindi vita facile.
Senza pronunciarsi sulla
veridicità di quanto riportato, negli annali resta la sonante vittoria della formazione
sudamericana per 7-0, che sorprendono la temuta rivale, giocando una gara
perfetta. Il mondo inizia a tremare di
fronte alla forza della squadra di Figoli e tale timore aumenta nella partite
successive. Dopo vengono annichiliti gli Stati Uniti (3-0) e i padroni di casa
della Francia (5-1). La macchina da gol non si arresta neanche nella
semifinale,dove ad essere battuti sono i Paesi Bassi per 2-1. La finale contro la Svizzera,
avversario temibile, sancisce un altra larga vittoria, un 3-0 deciso dalle reti
di Petrone, Cea e Romano.
La nazione celebra alla grande
questa vittoria, sentendosi, con qualche anno di anticipo, campione del mondo e
considerandolo come un vero e proprio Mondiale vinto.
La sbornia per tale affermazione
non intacca i successivi impegni della squadra, nel frattempo affidata
all'allenatore Ernesto Meliante. Dal 1924 al 1927 vince per ben due
volte il titolo di campione sudamericano, non partecipando nel 1925 ed arrendendosi
nel 1927 all'Argentina, Proprio l'ultimo decisivo incontro tra la due squadre
vede la vittoria della nazionale di Buenos Aires per 3-2. Nel 1928 la federazione uruguaiana
spera che lo strapotere dimostrato nell'America Latina si possa trasmettere
anche nei giochi olimpici dello stesso anno, da disputare in Olanda. In panchina siede ora Primo
Giannotti, fedele al modulo a piramide, ma estremamente camaleontico
nell'adattare lo schieramento alle necessità tattiche ed agli avversari. Rispetto a quattro anni prima sono
cambiati alcuni interpreti, nel reparto mediano e in quello offensivo. Accanto al fondamentale Andrade
corrono Juan Piriz e Alvaro Gestido. Entrambi di grande esperienza e senso tattico, si adattano subito
all'oliato meccanismo della squadra. In particolare Gestido si afferma
come mastino implacabile sull'ala avversaria e come uno dei centromediani più
duttili del periodo. In patria giocano con profitto nella squadra più
importanti e blasonate. Andando ad analizzare i cinque
attaccanti, si notano i cambiamenti più significativi. Sono cambiate le due ali e le
fasce sono ora affidate a Juan Pedro Arremón e Roberto Figueroa. Il
primo spende la sua carriera nel Penarol, dimostrandosi esterno dal passo
rapido e dalla buona tecnica. Il secondo è una mezzapunta di grande tecnica e
dal gol facile, che lo vede più volte decisivo con la maglia dei Montevideo
Wanderers. Come centravanti si disimpegna René
Borjas, bomber dei Montevideo Wanderers. Attaccante di ottimo livello,
risulta il giocatore dalle caratteristiche idonee al gioco voluto da Giannotti.
La sua carriera è però
caratterizzata da un grave problema di salute, che lo limita fortemente nei
successivi anni. La competizione inizia con un
convincente successo contro i padroni di casa per 2-0, al quale fanno seguito
altre due vittorie contro Germania (4-1) ed Italia (3-2). La nazionale azzurra
vende cara la pelle contro i forti sudamericani, che riescono comunque a guadagnarsi
l'accesso alla finalissima contro l'Argentina. Tale incontro assume subito
connotati epici, tanto da essere giocata due volte. Nel primo match le squadre
pareggiano 1-1, con gol di Scarone e Ferreira. Terminati anche i tempi
supplementari, non sono ancora previsti i calci di rigore e quindi la partita
va ripetuta. Il clima è infuocato e le due
squadre danno vita ad un'autentica battaglia, aperta dalla rete di Figueroa,
vanificata dal pareggio di Monti (futuro juventino). A riportare a Montevideo il
titolo ci pensa Scarone, con una prodezza nel secondo tempo.
L'Uruguay vince il titolo per la
seconda volta consecutiva, sentendosi la squadra più forte del mondo. Ha modo,
due anni più tardi di "difendere" tale titolo nel primo Campionato
del Mondo per nazioni, o Coppa Rimet dal nome del suo ideatore. Il paese è in fibrillazione per
tale evento ,soprattutto per il fatto che si gioca proprio in Uruguay. Il governo non bada a spese per
trarre profitto da tale competizione, tanto da costruire per l'occasione lo
Stadio del Centenario, talmente grande da ospitare, al tempo, 100.000
spettatori. Anche in seno alla squadra si
assiste a vari cambiamenti, a cominciare dal Commissario Tecnico, ora
rappresentato da Alberto Horacio Suppici, che ripropone il 2-3-5 con un'impronta
maggiormente difensivista. Viene imposto un rigido codice
etico ai giocatori, che costa il posto ad una delle colonne della squadra, il
portiere Mazali. La cronaca parla di una sua uscita notturna mal digerita
dall'allenatore, che, senza indugio, lo estromette dalla rosa per il Mondiale. Al suo posto viene data fiducia a Enrique
Ballesteros, estremo difensore dei Rampla Juniors con i quali spende quasi
tutta la carriera. Si afferma come portiere spericolato, abile ad uscire senza
indugio anche nelle situazioni più insidiose e pericolose. Molto abile anche tra i pali,
vince tre campionati nazionali, dei quali due con il Penarol.
Nella coppia difensiva viene schierato Ernesto
Mascheroni, difensore di grande efficacia e dalla grandissima personalità,
tanto da essere chiamato "El Tio" (lo zio).
Negli schemi di Suppici si impone
come vero e proprio marcatore, capace di incollarsi con impeto al centravanti
avversario. In tale situazione tattica il capitano Nasazzi si stacca
leggermente dalla linea difensiva, pronto ad intervenire in seconda battuta,
creando una bozza del futuro ruolo di libero.
Si afferma anche in Italia con
l'Ambrosiana Inter, prima di ritornare in patria.
Curiosamente, le sue origini
italiane gli permettono di giocare anche due partite in maglia azzurra, proprio
durante la sua esperienza in terra italica.
Viene proposta una novità anche a
centrocampo, con l'innesto di Lorenzo Fernández, già presente ai giochi
olimpici ed ora lanciato come titolare.
Trentenne all'epoca, si dimostra
estremamente completo, garantendo una continua copertura abbinata ad una grande
precisione in fase di passaggio. Passa buona parte della carriera nel Penarol,
dopo esperienze con Montevideo Wanderers, Capurro e Nacional, prima di chiudere
la carriera con il River Plate Montevideo.
Nel reparto offensivo cambiano
nuovamente gli esterni. A destra gioca Pablo Dorado, giocatore del Bella
Vista. Nonostante la giovane età dimostra doti tecniche elevatissime,
ubriacando letteralmente gli avversari con dribbling e finte rapidissime.
Caratteristica questa che gli permette di liberarsi con facilità per la
conclusione e di segnare con grande continuità.
A sorpresa, nel 1932, va a giocare
in Argentina con la maglia del River Plate, vincendo un campionato.
Nel settore sinistro viene
schierato Victoriano Santos Iriarte, forte ala mancina del Racing
Montevideo.
Anche lui rapido e dotato di gran
classe, è in possesso di un piede sinistro di grande potenza e precisione, che
lo porta a provare la conclusione anche
da distanze proibitive, il più delle volte con esiti positivi.
Il tecnico uruguaiano cambia anche
il centravanti, mettendo ai margini Petrone ed affidando il ruolo a due
attaccanti, Juan Pellegrino Anselmo e Hector Castro. Si alternano
per tutta la competizione con esiti molto positivi, fino alla finale, quando il
primo, scelto come titolare da Suppici, si rifiuta di scendere in campo. Non
sono mai stati chiariti i motivi di tale decisione, anche se le cronache del
periodo parlano di attacco di panico causato dalla grande tensione alla vigilia
del match.
Nonostante questo episodio si
afferma come centravanti prolifico e completo, diventando una colonna del
Penarol, con il quale gioca per tutta la carriera.
Hector Castro, da tempo nel giro della nazionale,
arriva alla massima competizione al massimo della forma.
Dotato di grande talento, subito
da giovanissimo si impone come grande realizzatore, non molto dotato tecnicamente, ma molto potente e preciso nel
battere a rete. Con i suoi gol consente al modesto Lito di raggiungere livelli
impensabili per un club non di grande livello.
Viene sopranominato "El
Manco" (il monco) in quanto privo della mano destra a causa di un
incidente con una sega elettrica. Mai limitato da tale menomazione, la sua
indole trascina le folle, tanto da essere ribattezzato "El Divino
Manco".
Da giocatore lega il suo nome al
National, intervallata da una esperienza argentina nell'Estudiantes.
Il Campionato del Mondo parte con
sole 13 squadre al via, a causa sia dei rapporti burrascosi tra le varie federazioni
e sia per le difficoltà dei vari governi europei nel finanziare il viaggio in
Sud America. Dal vecchio continente solo Belgio, Francia Jugoslavia e Romania
prendono la nave per raggiungere Montevideo, tra mille difficoltà e viaggi
interminabili.
La squadra di casa è inserita nel
girone C con Romania e Perù. Con questi ultimi gioca la partita inaugurale
imponendosi per 1-0 con gol di Castro.
Vince il girone imponendosi per
4-0 nel successivo incontro con i rumeni, trascinata dalle reti di Dorado, Scarone,
Anselmo e Cea.
In semifinale l'aspetta la
Jugoslavia, pronta a non ripetere l'errore di sottovalutare gli avversari come
sei anni prima. Ed in effetti al 4° minuto Vujadinovic porta in vantaggio i
balcanici, gelando il Centenario.
Tale rete ha solo il merito di
scatenare la macchina da gol uruguagia, che alla fine si impone per 6-1, con
una tripletta di Cea, una doppietta di Anselmo ed un gol di Iriarte.
L'Uruguay si guadagna la finale,
contro gli arcinemici dell'Argentina.
I giorni che precedono la partita
sono di grande tensione, caratterizzati anche da vere o presunte minacce di
morte reciproche.
Addirittura l'arbitro, il belga
Langenus, pretende un'assicurazione sulla vita per arbitrare il match.
Il 30 luglio le due nazionali
vanno in campo in un clima surreale, minato dalla forte rivalità, ormai non
solo sportiva: non si parla solo di una delle precedenti Olimpiadi o delle
possibilità di essere campioni del Mondo, c'è in ballo l'onore nazionale.
Il primo tempo è avvincente ed èaperto
da un grandissimo gol di Dorado al 12° minuto. L'Argentina reagisce e ribalta
completamente il risultato con le reti di Peucille (20°) e Stabile (37°). Sugli
spalti c'è delusione e preoccupazione al pensiero di perdere in casa il
Mondiale contro gli odiati argentini.
Negli spogliatoi si assiste ad
un'autentica sfuriata di Andrade, che picchia i pugni a terra ed intima ai
compagni che questa partita non si può perdere. Tra realtà e romanzo, si parla
di vera e propria crisi di nervi che lo porta anche a buttarsi per terra,
completamente fuori di sè.
I compagni lo prendono alla
lettera e nel secondo tempo entra in campo un'altra squadra.
Al 57° Cea pareggia i conti e al 66°
Iriarte, con una cannonata dai 25
metri sigla il 3-2.
L'argentina reagisce, cogliendo
una traversa, ma al 89° Castro chiude i conti, mandando in visibilio lo stadio
e tutta la nazione.
Per l'Uruguay è la consacrazione
ed il culmine di un periodo da autentico dominatore del calcio mondiale.
Peccato che i pessimi rapporti con
il calcio europeo privi la nazionale della possibilità di difendere il titolo
nel 1934 e di disputare i successivi mondiali in Francia. La federazione uruguaiana ha mal digerito il
rifiuto di molte nazionali europee di partecipare al mondiale e decide di
comportarsi allo stesso modo.
Non sapremo mai come sarebbero andate a finire tali
competizioni con la "Celeste" in campo, ma rimane il fatto,
insindacabile, che quanto descritto finora rappresenta il periodo d'oro di una
delle squadre più forti di sempre.
Giovanni Fasani Fonti:wikipedia,domingosdepassion,futbolcopaamrica,guerinsportivo,nationaldigital,solocalcio,
panini
“Non vale rullare”, “il gol del portiere vale doppio”, “se vinciamo noi si fa la bella”… Queste sono solo tre delle innumerevoli frasi che ognuno di noi ha pronunciato in una qualsiasi partita di calcio balilla; perché parliamoci chiaro: chi non ha mai fatto almeno una partita? Tutti.
Il modulo era sempre quel 2-5-3 abbastanza bizzarro da vedere su un reale campo da calcio ma che trovava la sua reale efficacia sul quel tavolo ferroso in cui comparivano questi 22 omini che tanto ci hanno appassionato da bambini e che continueranno ad appassionare intere generazioni.
Probabilmente la cosa a cui si faceva meno caso era il colore da scegliere, ci si metteva solitamente nella parte più vicina al tavolo del bar dove si era seduti. Solo in casi di scaramanzia o di particolare preferenza per uno dei due colori si sceglieva uno specifico lato del tavolo: da una parte i rossi e dall’altra i blu.
Credo però che ci sia una città al mondo dove nei bar scegliere il colore sia la priorità ancor prima di scegliere il compagno più bravo o quello che meglio gioca in difesa: quella città è Teheran, teatro di uno dei derby più infuocati del mondo.
Ed è per questo motivo che vi diamo oggi il benvenuto al Sorkhabi Derby (il derby dei rossoblu), quello che da 46 anni si gioca tra i rossi del Persepolis ed i blu dell’Esteghlal.
Per dovere di cronaca bisogna dire che in tutto l’Iran è vietato l’ingresso alle donne, anche se negli anni c’è stato più di un tentativo di violazione. Alcune donne, infatti, pur di entrare allo stadio, si travestivano da uomini; a tal proposito vi consigliamo la visione del film “Offside”.
Il Persepolis (o anche Pirouzi) nasce nel 1963 reclutando molti giocatori dello Shahin FC, squadra sciolta dagli alti papaveri dello sport iraniano (molto legati all’allora dittatura) che la vedevano come fumo negli occhi visto il veloce processo di crescita, i numerosi talenti che sfornava ma soprattutto per le idee molto legate al popolo più che alla dittatura. Le cose all’inizio non andarono benissimo ed il Persepolis rimase nelle serie cadette per 5 lunghi anni trovando la massima divisione solo nel 1968.
L’Esteghlal invece nasce nel 1945 col nome di Docharkhe Savaran, per mutare 4 anni dopo in Taj FC, la parola Taj in persiano significa “corona” a simboleggiare che i blu sono da sempre la squadra dei più “potenti”. Il nome Esteghlal (che significa indipendenza) arriverà solamente nel 1979 a seguito della rivoluzione islamica con la voglia di lasciarsi alle spalle quel brutto periodo di dittatura. Tuttavia i propri sostenitori rimarranno sempre con idee che poco hanno a che fare con quelli degli arciodiati rivali rossi.
Per sintetizzare, possiamo quindi dire che il Persepolis è la squadra del popolo, mentre l’Esteghlal la squadra della borghesia.
Il giorno della partita (amichevole, coppa, campionato o qualsiasi altra cosa) la città iraniana si blocca completamente, la città diventa caotica, il traffico si paralizza e la strada per arrivare all’Azadi Stadium si rivela più difficile che scalare il Monte Bianco senza attrezzatura.
Ma procediamo con ordine: il primo match tra Persepolis ed Esteghlal viene giocato nel 1968 e termina 0-0, sulla carta la partita contava poco visto che si trattava di un’amichevole; anche se di amichevole ci sarà ben poco nelle sfide che seguiranno, garantito!
Come anticipato, le alte autorità iraniane non vedevano di buon occhio il neo nato Persepolis ed infatti nelle prime 4 partite di campionato, disputate tra il 1969 ed il 1971, l’Esteghlal ottenne 3 vittorie di cui 2 arrivate grazie al classico risultato a tavolino, 3-0.
Tutto ciò lo si deve al fatto che i rossi abbandonarono entrambe le volte il campo a seguito di alcune decisioni arbitrali molto discutibili che ovviamente avevano favorito l’Esteghlal.
Per trovare la prima vittoria del Persepolis dobbiamo arrivare alla stagione 1971-1972, dove nelle due partite di campionato, i rossi riuscirono ad imporsi per 4-1 e 2-0. In entrambi i casi andò a segno quello che tutt’ora è il miglior marcatore del Sorkhabi con 7 reti, Safar Iranpak attaccante nato nel 1947, una vita per il Persepolis, dapprima nello Shahin dal 1961 al 1968 dove realizzò 23 gol in 98 partite ed in seguito con la maglia rossa dal 1968 al 1980 dove andò a rete 74 volte in 143 partite.
L’anno successivo i derby presero invece la strada dell’Esteghlal che si impose 2-0 e 1-0. Nella seconda gara decise un gol di Mohammad Reza Adelkhani, attaccante anch’esso classe 1947 che militò per una stagione nel Bayern Monaco a metà anni sessanta.
Ma arriviamo ad una data che non scorderà mai nessun tifoso iraniano, soprattutto se il tifoso in questione preferisce gli omini rossi del calcio balilla:
6 settembre 1973, un uragano si abbatte sull’Esteghlal. Alla fine della partita il tabellone dice 6-0 Persepolis, una mazzata di quelle da antologia, difficili da mandare giù. Sugli scudi sale Homayoun Behzadi, 3 gol, tutti nel secondo tempo come Eamon Zayed (giocatore di cui parleremo più avanti nell’articolo), unici due ad aver realizzato una tripletta in questa stracittadina. Nella stessa partita, l’allora allenatore dei blu, Zdravko Rajkov cambiò, al 64° minuto, il portiere titolare Mansour Rashidi con il sostituto Nasser Hejazi che fece comunque in tempo a prendere i 2 gol finali di Behzadi. Tale partita fu poi soprannominata Shishtayiha Derby (il derby dei 6 gol).
A questa tranvata l’Esteghlal reagì parzialmente pareggiando il derby di ritorno e vincendo quello di andata dell’anno successivo per 1-0 grazie al gol di Hassan Rowshan all’88° minuto.
Un fatto abbastanza curioso ed alquanto pericoloso lo troviamo nel derby vinto dall’Esteghlal per 1-0 il 7 ottobre 1983: l’emittente locale IRIB che allora (e tutt’ora) trasmetteva le partite, non riuscì (per quale motivo non si sa) a far arrivare il segnale in buona parte dell’Iran e di conseguenza a Teheran. In un clima “normale” un appassionato si arrabbierebbe parecchio ed ascolterebbe la partita per radio, non qua. L’Azadi allora poteva ospitare 100.000 persone, se ne presentarono 128.000 e moltissimi di questi si dovettero arrampicare sul tetto dello stadio e sui fari; cosa non si fa per la propria squadra. Fortunatamente nessuno si fece particolarmente male.
Ma arriviamo ad una delle partite più bollenti di tutta la storia del Sorkhabi, quella dell’11 gennaio 1995. Quando la partita sembra indirizzata nella direzione del Persepolis, avanti 2-1, ecco che accade quello che tutti i tifosi del Persepolis temevano, il classico aiutino dell’arbitro che, a 3 minuti dalla fine, concede un più che discutibile calcio di rigore per l’Esteghlal che verrà trasformato in gol. 2-2! Poco prima del fischio finale parte una vera e propria guerriglia: i tifosi del Persepolis vengono a contatto con quelli dell’Esteghlal, i giocatori vengono a contatto tra di loro ed ecco che una delle più memorabili risse nella storia del calcio ha inizio. L’Azadi non sembra più uno stadio, sembra un enorme ring dove ogni colpo proibito è concesso: sassi e calcinacci volano da una parte all’altra, calci e pugni diventano la normalità. La sicurezza impiegherà diverso tempo per ripristinare un barlume di ordine, anche se fuori dallo stadio continueranno gli scontri.
Agli occhi del governo iraniano tutto ciò è stato inammissibile e mai dovrà più capitare una cosa del genere; da quel momento, ogni qualvolta ci sarà il Sorkhabi, l’arbitro dovrà arrivare dall’estero per evitare pressioni di ogni tipo e per evitare soprattutto di cadere in guerriglie come quella dell’11 gennaio. Tale situazione durerà fino al 2009 e tra gli arbitri più famosi, citiamo il tedesco Merk, il russo Ivanov e gli italiani Rodomonti e Rosetti.
Ma ci credete che in una stracittadina così infuocata non si ripetano più episodi di violenza?29 dicembre 2000, nulla a che vedere con la precedente partita dove il risultato è ancora 2-1 ma questa volta a favore dell’Esteghlal, complice anche un gol di Mehdi Hasheminasab, considerato dai tifosi del Persepolis il capo dei traditori. Fu proprio in quell’anno che il 27enne difensore iraniano passò dalla sponda rossa a quella blu.
A pochi minuti dalla fine è il figliol prodigo Ali Karimi ad impattare il risultato concludendo con un potente destro da pochi passi.
Ciò che accadde verso la fine della partita è una vera e propria miccia: dopo essersi provocati per buona parte della partita, il portiere dell’Esteghlal Parviz Broumand e l’attaccante del Persepolis Payan Rafat vennero alle mani soprattutto per un pugno in piena faccia del numero 1 in maglia blu. Apriti cielo, partì una delle più incredibili risse da saloon che la storia del calcio ricordi, se quella del 1995 era una battaglia, questa diventa una vera e propria guerra.
I giocatori si scambiano violenze di qualsiasi tipo, sugli spalti neanche a parlarne, tifosi rossi e blu vengono alle mani in men che non si dica. I tafferugli sono dovunque e questa volta la polizia non riuscirà a riportare la calma; gli scontri proseguiranno fuori dallo stadio, dove numerosi negozi e centinaia di macchine verranno demoliti in pochissimo tempo. Teheran diventa ben presto il teatro di una vera e propria megarissa, gli ultras delle due fazioni non si stancano facilmente di menar le mani ed una parvenza di calma la si avrà solamente il giorno dopo quando la polizia comminerà diversi arresti, tra cui anche 6 calciatori.
Ma le eterne sfide tra le due grandi rivali non sono solo sinonimo di violenza e non si limitano al solo campionato. Raccontano anche di grosse soddisfazioni e di conseguenza, grosse delusioni.
Il 9 dicembre 2011 si giocano i quarti di finale della Hazfi Cup (la coppa iraniana), si tratta di gara secca ed al termine dei 90 minuti, vuoi per la tensione, vuoi per la prestigiosa posta in palio, non viene segnata nessuna rete.
Si va quindi ai tempi supplementari ed è un vero e proprio trionfo per l’Esteghlal che porterà a casa un 3-0 che non ammette repliche: andranno in gol Mojtaba Jabbari (nella foto sotto) con una doppietta ed Esmaeil Sharifat che conclude a porta vuota. L’Esteghlal avrà poi il merito di battere in semifinale lo Shahrdari Yasuj ed in finale (guarda la sorte) lo Shanin Bushehr, attuale nome di quello vecchio Shanin rifondato nel corso degli anni.
Ma il derby forse più incredibile di tutti, quello più romantico se vogliamo (almeno per i rossi) viene giocato il 2 febbraio 2012. Al 49° minuto l’Esteghlal è avanti 2-0, tutto fa supporre che oggi, a festeggiare saranno i blu forti anche del fatto che al minuto 69, il Persepolis rimane in 10 per l’espulsione di Mehrdad Oladi; gli ultimi 20 minuti dovrebbero essere una formalità per la forte squadra borghese.
Una decina di minuti prima dell’espulsione di Oladi, il tecnico turco del Persepolis Mustafa Denizli fece entrare Eamon Zayed, giocatore libico nato in Irlanda, attaccante che fino a quel momento aveva giocato prettamente nella patria natìa mettendo a segno un discreto numero di gol.
Ma la massima gloria per questo giocatore doveva ancora arrivare ed arrivò ai minuti 82, 83 e 92 di quella partita del 2 febbraio. In 10 minuti Zayed spazzò via l’Esteghlal che con tutta probabilità, stava già pensando ai festeggiamenti. Il giocatore irlandese, con quella tripletta entrò di diritto nella storia del derby più sentito di tutta l’Asia, i tifosi del Persepolis non potevano credere ai loro occhi e quelli dell’Esteghlal furono ammutoliti nel giro di pochi istanti.
Dopo il 6-0 del 1973 questa è la seconda maggior onta che l’Esteghlal subisce dagli odiati rivali.
Va detto, che nonostante l’Esteghlal abbia subito le vittorie più brucianti, le statistiche ci dicono che gli uomini in blu sono quelli che hanno vinto più derby (24-17, i pareggi sono 37) e soprattutto hanno vinto più trofei (33-24 tra cui 2 Champions League asiatiche nel 1970 e 1991).
Questo è dunque il Derby di Teheran, uno dei più sentiti, dei più violenti, dei più infuocati, dei più romantici, dei più drammatici.
Ne sono stati giocati 78 finora, gli ultimi 4 sono finiti tutti 0-0… Tante storie saranno ancora da scrivere e noi saremo lì ad aspettare che rossi contro blu facciano scoppiare d’emozione l’Azadi.
Matteo Maggio Fonti: wefollowfootball, presstviran, wikipedia, leschampions, celebritiesworld