giovedì 20 febbraio 2020

QUANDO IL CALCIO BASCO DISSE BASTA ALLA DITTATURA FRANCHISTA.


In un momento difficile della recente storia spagnola, due squadre si sono opposte alla repressione franchista che ancora imperava nel paese nonostante la morte del dittatore Franco, avvenuta nel 1975. In un periodo in cui l’E.T.A, ancora considerato un gruppo paramilitare antifranchista, era l’esponente della lotta per la indipendenza del popolo basco, c’è chi ha usato il calcio come fattore di pressione sociale: le due squadre basche per eccellenza, l’Athletic Club di Bilbao e la Real Sociedad di San Sebastian.
Le leggi franchiste ancora in vigore vietavano l’esibizione della ikurriña, la bandiera dei Paesi Baschi, così come l’uso dell’euskera, la lingua parlata dai baschi. Con la morte del dittatore si provò ad attuare una apertura verso la democrazia, fu chiesta la legalizzazione dei simboli baschi e fu richiesto anche uno status di autonomia.


Per capire bene la situazione, forse si deve chiarire che entrambe le squadre giocavano con soli giocatori della terra (l'Athletic lo fa ancora oggi ), giocatori baschi che sentivano come propria la lotta del proprio popolo.
La stessa immagine dei calciatori negli anni ’70 era differente da quella che intendiamo oggi. All’epoca c’erano giocatori interessati a ciò che accadeva e con opinioni proprie: in questo clima di tensione, lotta e soprattutto inquietudine per i cambi politici e sociali, il calcio basco scelse da che parte stare.
Era il 5 dicembre 1976 e il derby basco tornava allo stadio di Atocha di San Sebastián. Nessuno sapeva che quel giorno sarebbe avvenuto un passo storico nella lotta del popolo basco per l’autodeterminazione. Josean de la Hoz Uranga, giocatore della Real Sociedad soprannominato Trotsky, fu colui che ordì tutto il piano e introdusse illegalmente una bandiera basca nello stadio. Essendo proibita l’ikurriña, fu la sorella proprio di Uranga a cucire gli scampoli di colori rosso, verde e bianco per dare forma ad una bandiera che sarebbe passata alla storia. La cosa più facile era stata già fatta, il vessillo era nello stadio di Atocha, ma ora rimanevano le due parti più difficili: parlare in gran segreto coi capitani di entrambe le squadre per proporre l’idea di entrare in campo con la bandiera illegale trasportata dai capitani stessi, e ottenere che la polizia spagnola non intercettasse la bandiera prima della loro entrata, visto che lo stadio disponeva di un fosso che quel giorno era circondato da agenti della polizia nazionale.
Dopo aver parlato coi capitani negli spogliatori di Atocha, le due squadre dissero di sì, consapevoli di quello che avrebbe potuto costituire a livello nazionale vedere i due maggiori rappresentanti del calcio basco esibire la bandiera basca in un atto pubblico.
Nascosta nelle borse dove si trasportava l’acqua, l’ikurriña arrivò alle panchine, saltando in questo modo i poliziotti.
Tutto era pronto, le due squadre in fila per uno, faccia a faccia nel tunnel degli spogliatoi. Una volta che il prato era stato oltrepassato Uranga diede la bandiera ai capitani, due simboli del calcio spagnolo dell’epoca, Iribar e Kortabarria, e i due insieme mostrarono il simbolo del paese basco fino al centro del campo tra il clamore popolare e l’ambiente festante dell’antico stadio realista.


Molte volte vale più un’immagine che mille parole, questo dimostrarono tanto la Real che l’Athletic.
Fu un attacco diretto ad un regime in via di estinzione e una petizione pubblica nello scenario perfetto, una partita di calcio, posto di socializzazione e di rivendicazione. Era da prima della Guerra Civile spagnola, 1936 -1939, che non si vedeva una ikurriña in un avvenimento pubblico. Tutte quelle rivendicazioni avrebbero dato il loro frutto giorni più tardi: il 19 gennaio 1977 sarebbe stato approvato lo Statuto basco e la bandiera sarebbe stata legalizzata.
Ma quel 5 dicembre 1976 fu il calcio a testimoniare che la lotta del popolo basco aveva avuto l’appoggio di due giganti dell’epoca che avevano rischiato per mostrare una bandiera ancora illegale alla loro gente.


Danilo Crepaldi

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